Bagnara
Non per il trattamento o la struttura, neanche per i medici, gli infermieri o gli inservienti.
Era lo stare senza nulla da fare dopo la visita e gli esami del mattino.
Tutto il pomeriggio e la notte, solo, con tristi pensieri, senza un posto dove incontrare gli altri, neppure la televisione.
Disteso sul letto, insonne, sino il mattino, quando sarebbero arrivati gli inservienti per le pulizie della stanza.
Non funzionava il telefono e neppure il computer.
Quella malattia con la quale aveva convissuto tutta la vita, come un compagno invadente, forse eredità del padre che ne era morto a quarantaquattro anni.
Era stato un incubo, con il quale lui, medico, aveva dovuto fare i conti, immaginando la morte, che a un certo punto sarebbe venuta e che avrebbe voluto affrontare nella sua casa, come un ultimo sonno.
Si era preparato, e il pensiero della fine scendeva su di lui come un balsamo, placava quell’ansia improvvisa e la disperazione che lo prendeva, all’improvviso.
Tanti anni prima aveva trovato il coraggio di farsi vedere. Un epatologo di fama lo aveva sottoposto a uno screening completo: esami ematici, radiografie e biopsie multiple, come prevedeva la diagnostica di quei casi.
Si trovò che il fegato era ancora in buono stato ma mostrava segni di possibili evoluzioni negative.
Per quanto riguardava la terapia, questa non esisteva.
Aveva continuato per qualche tempo a fare esami, poi si lasciò prendere da una sorta di fatalismo che d’altronde era congeniale al suo carattere, in qualche modo legittimato dalla consapevolezza che non c’era terapia.
E dunque che senso aveva quel masochismo di guardare la malattia progredire?
Il lavoro lo occupò…
Sua madre si ammalò ed entrò in un’agonia che durò anni…
Infine quando tutto fu compiuto, si decise.
Non stava più bene, tutto era diventato faticoso, di più avvertiva una responsabilità crescente non tanto verso se stesso, per via della scelta fatta ormai da anni, ma verso la persona che era diventata la donna della sua vita, e alla quale doveva finalmente pur dire se sarebbe rimasta presto sola.
Era l’ultimo compito che sentiva avrebbe dovuto assolvere.
Però si rendeva conto che quella preoccupazione era in qualche modo tardiva, avrebbe dovuto sentirla prima, sin da quando la percezione confusa e iniziale della malattia era diventata progressivamente certezza, alla fine, con un nome preciso, quasi dolce, in contrasto con la sofferenza cui lo avrebbe condotto: epatite C.
Ma allora tutto quel rifugiarsi nella fatalità, nel destino, nel vivere giorno per giorno, per poi morire secondo natura, era stata solo una scellerata vigliaccheria, nascosta dagli impegni ai quali doveva far fronte?
E ora, a decisione presa, che fine aveva fatto, dove si era dissolto?
Gli sembrò che la scoperta di quella consonante accanto alla genericità della parola epatite, quella C, che assumeva nella sua fantasia una dimensione grafica esagerata, avesse eroso lentamente, ma inesorabilmente dentro di lui, non solo il fegato e gli altri organi, ma anche la sua determinazione a non lasciarsi condizionare, a continuare a vivere come se nulla fosse, a rivestire di superomismo eroico una vigliaccheria fanciullesca.
Quasi che, assegnare un nome a quell’annuncio di morte che era la sua malattia, avesse sottratto alla stessa le vesti che sino ad allora l’avevano avvolta come in una nebbia, e a lui era sempre piaciuta la nebbia, quella che durava giorni senza alzarsi mai, che dava un senso di estraneità piacevole, quasi un che di sicurezza, che rendeva cose e persone meno terribili e paurose.
Quel nome, dunque, quella diagnosi, epatite C, era calata come un vento discreto che aveva dissolto le brume e ridato nitidezza a quella cosa con cui aveva convissuto.
L’ospedale era un brutto manufatto: il grigio anonimo del cemento, tentativi mal riusciti di abbellimento con tratti di mattone più chiaro.
Ingressi angusti, accanto al principale, indicazioni confuse che accentuavano il disagio comunicato dal cemento.
Tre piani di cui uno interrato dove erano la radiologia e altre diagnostiche.
Burocrazia e servizi al piano terra, la degenza al piano superiore.
Tutta la struttura era stata ricavata in un lato della collina che sovrastava il paese, però rispetto a questo risultava come interrato, sicché da lì non si godeva nessuna vista, solo asfalto e altro cemento.
Gli avevano dato una stanza per raccomandati, perché aveva solo due letti rispetto alle altre con un minimo di quattro, e poi stava alla fine del lungo corridoio, lontano dalla vita del reparto, e la sera del ricovero, il secondo letto non era occupato: dunque una stanza tutta per lui.
Era arrivato quel pomeriggio con Carla, aveva parcheggiato la macchina in uno spiazzo oltre la strada che fungeva da parcheggio.
Lei aveva voluto accompagnarlo, nonostante Luigi avesse insistito che non c’era bisogno, che si trattava di sostenere solo degli esami, che sarebbe stato lì per pochi giorni: al massimo tre o quattro gli aveva detto il primario del reparto che lo aveva visitato.
Non c’era stato niente da fare, Carla aveva preso dei giorni di ferie dal lavoro, e ora stava lì con lui in quella stanza troppo grande per entrambi.
A Luigi procurava tristezza quello stare soli e in silenzio.
Non trovavano parole adatte ad alleggerire quel disagio, e quelle dette, quelle che pronunciavano ogni giorno, quelle che, insieme alle cose che condividevano, rendevano piene e gradevoli le loro giornate, ora suonavano false.
Lei aveva condiviso la decisione di Luigi di sottoporsi agli accertamenti diagnostici, con leggerezza, con ottimismo, com’era nel suo carattere, e così lo aveva aiutato a prendere quella decisione, anche se Luigi non lo ammetteva neanche con se stesso.
Non voleva rinunciare a credere che tutto dipendesse solamente dalla sua volontà, da un’idea che era diventata cosa, che lo aveva portato lì, in seguito a una sofferta maturazione interiore com’è nella creazione artistica o nello svolgersi di una vita.
Non accettava, non immaginava nemmeno che tutta la vicenda era assolutamente più banale: semplicemente aveva avuto paura.
Uomo solo com’era sempre stato prima di incontrare Carla, aveva giocato con i suoi fantasmi che gli avevano consentito di non affrontare la vita a viso aperto.
Era stato così anche per tutti i suoi amori, sempre diversi e molteplici, mai vissuti a pieno e mai finiti.
Forse aveva solamente avuto paura di vivere.
Non appena sistemato, insistette perché lei tornasse a casa.
Preferiva rimanere solo, soffrire senza alibi o mediazioni e la solitudine di quella grande stanza era congeniale a quella scelta e a quello stato d’animo.
Rimanere solo era come immergersi nel fondo del dolore accompagnato da nessuno, al di fuori di una paura disperante e selvaggia.
Così fu nei giorni successivi, e quando lei poteva entrare per la visita dei parenti, trovava ogni pretesto perché non si fermasse a lungo.
Il parlare sottovoce dei medici durante la visita mattutina, mentre guardavano la cartella clinica dove erano riportati i risultati degli ultimi esami…
Spiava sul loro volto espressioni che potessero rivelare qualcosa della sua malattia, del suo stato, magari del suo essere sano, nonostante tutto…
La sonda scivolava sulla pelle a scoprire la struttura del fegato, si fermava, tornava indietro per guardare meglio, forse aveva intravisto qualche degenerazione neoplastica…
«Non respiri, trattenga l’aria, respiri…»
Non chiedeva, non aveva il coraggio di sentirsi dire che la cosa era grave, e nello stesso tempo sperava che avrebbe visto arrivare d’improvviso il primario, colui che l’aveva ricoverato, che gli avrebbe comunicato con naturalezza che poteva tornarsene al suo lavoro, perché sì, c’era quella sofferenza epatica, di cui d’altra parte lui sapeva da anni, ma l’organo era ben compensato e dunque doveva continuare a fare una vita sana, magari a ridurre...