Il mulino di papà Giovanni
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Il mulino di papà Giovanni

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Il mulino di papà Giovanni

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Informazioni sul libro

Enzo appartiene a una famiglia numerosa. Ultimo di nove figli, giunto a tarda età, vuole ripercorrere tutta la sua vita e quella della sua famiglia, complici i ricordi ancora vivi e lucidi. Le vicende abbracciano un lungo periodo di tempo che va dallo scoppio della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, il vissuto personale si intreccia con il vissuto storico, ma dietro i fatti oggettivamente riportati, si nasconde un filo invisibile, un legame profondo con i suoi famigliari. Un legame intimo, imprescindibile, che durerà tutta la vita, oltre la vita fino ad assumere una connotazione quasi magica. Sullo sfondo, le montagne dell'Abruzzo, sua terra natale. Tema portante della narrazione è il Mulino. Quel Mulino che papà Francesco, il padre di Enzo, aveva acquistato per centocinquemila lire. E sarà proprio il Mulino ad accompagnare e soprattutto a determinare le alterne fortune della famiglia.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788854883284

Prima Parte

I

La famiglia di mio padre era di origini nobili. Una di quelle famiglie illustri di cui si legge nei libri di storia. Ma quando siamo nati noi figli, nove per l’esattezza, di quella nobiltà da tempo si erano persi i fasti e le ricchezze, ne rimaneva traccia solo nello stemma di famiglia appeso al muro, in salotto, accanto ai ritratti dei genitori di mio padre e di mia madre.
Ben diverso il discorso circa la nobiltà d’animo che tanto ritrovavo in mio padre, nei suoi modi signorili, nella sua grande generosità anche in tempi di magra, quando in casa non c’era niente da mangiare. Erano anni di guerra, quelli, e le conseguenze si avvertivano ovunque.
Inizialmente, grazie alla sua posizione geografica, il nostro piccolo paese si era trovato fuori dalle rotte di guerra, ma gli effetti bellici erano arrivati anche lì, come il razionamento del cibo, dell’acqua e della luce. La guerra non riserva privilegi, eppure mio padre si ostinava a dire che noi, meno sfortunati di tanti altri, dovevamo pensare a chi stava peggio di noi.
Non gli si poteva dare torto. In effetti avevamo il privilegio di abitare in un palazzo di antico splendore, che prima ancora di appartenere agli avi di mio padre era stata dimora dei principi Caracciolo, all’epoca in cui, era la fine del Cinquecento, il paese venne dato loro in feudo.
Il palazzo era grande e imponente, l’ingresso principale dava proprio sulla piazza centrale del paese. Al centro della facciata si apriva il grande portale, semplice nella sua forma lineare e al tempo stesso maestoso, con la base in bugnato e un grosso battente in alto.
Lo sovrastava una trifora e, ancora più su, un balconcino sorretto da mensole e la balaustra in ferro battuto. Anche il cornicione era sorretto da mensole con piccole volute, ma ciò che conferiva a tutto il palazzo un’aria di nobiltà erano sicuramente le finestre: maestose ed eleganti, con il davanzale in marmo, percorse lateralmente da ampie volute.
La facciata avrebbe certamente avuto bisogno di una bella sistemata, ma le Belle Arti, trattandosi dell’ex dimora dei principi Caracciolo, avevano registrato il complesso come palazzo storico, al punto da non poterne toccare la facciata in caso di ristrutturazione. Di ristrutturazione, in realtà, non c’era pericolo, dal momento che in famiglia, causa la guerra e i suoi lunghi effetti, ci ritrovammo progressivamente in condizioni economiche talmente disperate da non poter provvedere ad alcun intervento di restauro, con la conseguenza che con l’andare del tempo, il palazzo assunse un aspetto sempre più decadente. Nei miei pensieri, paragonavo la nostra abitazione a una bellissima donna, costretta suo malgrado a cedere sotto il peso degli anni.
Tuttavia, nonostante le difficoltà e la mancanza di una cura attenta, ovunque in casa si respirava un’aria di nobiltà: le porte di legno massiccio, rifinite in alto con una cornice ondulata, gli armadi a muro con le ante rivestite di raso di un colore verde pallido e i disegni floreali in rilievo, le ampie volte a botte, gli stucchi dorati, i quadri antichi, i candelabri, le grandi specchiere, tutto recava i segni di un’antica signorilità.
La scalinata interna, che conduceva alle camere da letto, aveva i gradini ricoperti in pietra. Col trascorrere del tempo, le pietre diventavano sempre più sconnesse e traballanti e bisognava fare attenzione a non perdere l’equilibrio ogni qualvolta si scendeva o si saliva. Io mi divertivo a farli così di corsa tutti quei gradini, che ogni volta sembrava scoppiasse il terremoto, facendo disperare mia madre.
Via via che il tempo passava, le crepe disegnavano un reticolato lungo le pareti delle stanze, il pavimento di legno che si incurvava sotto i nostri passi, l’intonaco che in alcuni punti cadeva a pezzi per non parlare dell’acqua piovana, che si infiltrava fra le tegole del tetto tutto sconnesso, e scendeva giù, mettendo a dura prova la pazienza di mia madre, e in bagno e in cucina, quando aprivi i rubinetti, si sentiva un rumore di ferraglie arrugginite, quel rumore che ancora oggi mi porto dentro il cuore e nelle orecchie, con un sentimento di divertita nostalgia.
Ma il pezzo forte di quella casa era il grande salone con il soffitto tutto a cassettoni, con le cornici dorate, era davvero bello! Al centro del salone c’era un grande camino e in fondo una parete tutta a libreria colma di libri antichi appartenenti alla famiglia di mio padre e di libri nostri, sia di scuola che di lettura. Eravamo tutti grandi lettori. Peccato che di quei tanti libri se ne siano salvati ben pochi a causa delle infiltrazioni d’acqua penetrate nella parete che avevano formato dietro la libreria una spessa coltre di muffa.
Ce n’erano tanti di angoli suggestivi in quella vecchia casa, ma personalmente, chissà per quale oscura ragione, avvertivo un’attrazione irresistibile per i suoi sotterranei. Ci si accedeva dalla grande cucina.
A sinistra della porta di ingresso c’erano tre gradini alti da scendere, seguiti da un lungo corridoio sotterraneo che in alcuni punti si allargava, e lì giacevano mucchi di mele, nei periodi buoni sacchi di caffè destinati alla vendita giacché mio padre, nei locali a pian terreno dell’antico palazzo, aveva messo su un negozietto di generi alimentari.
Avrò avuto circa dieci anni all’epoca, quando mi sentivo tanto attratto e incuriosito da quei sotterranei, e a furia di curiosare una sera, avevo scoperto che a metà circa del percorso, sulla volta, si apriva un grosso buco da cui si affacciava la luna. Rimasi così colpito a quella vista, non solo inaspettata, ma soprattutto enigmatica per me, in quanto, non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che stando sotto terra, potessi vedere la luna. In realtà, avevo perso l’orientamento, e nel trovare una risposta al mio enigma arrivai alla conclusione abbastanza fantasiosa che quello era il centro del mondo!
Nelle sere d’estate, era diventato il mio passatempo preferito scendere nei sotterranei e raggiungere il mio centro del mondo, da dove vedevo la luna che sembrava aspettarmi ed essere lì solo per me.
Altro luogo magico era l’entrata principale del palazzo che mi faceva tanto sognare. Quante cose immaginavo! Il grande portone d’ingresso dava adito a un lungo corridoio che conduceva ad una piccola rampa di scale che, a sua volta, si apriva su un’ampia corte, dove si affacciavano le stalle, il fienile e il lavatoio.
Nella mia mente, popolavo quel corridoio di intrepidi cavalieri che procedevano a fianco del proprio cavallo, fino a raggiungere le stalle, e girando per quella vasta corte, mi sembrava di avvertire la presenza di antiche ombre che il tempo trascorso, non era ancora riuscito a disperdere.
Erano immagini e sensazioni molto suggestive per me, che ero un ragazzino curioso e pieno di fantasia e mi divertivo a riprodurre su i fogli da disegno o sulla tela quello che immaginavo. Avevo da poco imparato ad usare gli acquarelli e il mio primo soggetto fu proprio un cavaliere a cavallo che emergeva tra il fitto di un bosco in una semi oscurità, leggermente rischiarata da un alba appena tinta di rosa. Successivamente dipinsi lo stesso soggetto nella luce rossa del tramonto.
L’alba e il tramonto sono i momenti più suggestivi della giornata, soprattutto quando si vive in un paesino chiamato Barisciano, adagiato ai piedi del monte Selva, un colle alberato circondato da monti e crinali dell’Appennino abruzzese. In cima ad un altro piccolo colle più prossimo al paese, esistono ancora i ruderi di un castello medievale che sovrasta il piccolo borgo, resti di un’antica fortificazione del XIII secolo che, posta a millecento metri di altezza, aveva la funzione di controllare il territorio percorso dal tratturo che congiungeva l’Aquila a Foggia.
Ricordando la mia gioventù non posso fare a meno di parlare del mio paese di origine, cui mi sento orgoglioso di appartenere per un milione di motivi, fra cui il fatto che sia stato un borgo protagonista della storia dell’Abruzzo e che insieme ad altri castelli ha contribuito alla fondazione della città dell’Aquila.
So benissimo quanto siano anacronistici questi miei sentimenti, soprattutto ai tempi d’oggi, ma io sono un ragazzo di ieri e trovo giusto essere legato ancora a certe emozioni.
Al di là dei miei voli di fantasia e dei miei sentimenti anacronistici, torna insistente il pensiero alla casa paterna, a quanto fosse bella per noi nonostante il suo aspetto fatiscente, bella perché piena di amore, lo stesso amore che univa i miei genitori e che loro riversavano su noi figli, che ci amavamo e tutto sommato andavamo pure d’accordo sebbene ognuno fosse fatto a modo suo. Eravamo tutti un po’ stravaganti, un po’ artisti, chi amava scrivere, chi aveva la passione per la musica o dipingeva.
In famiglia, era mio padre che prendeva le decisioni più importanti, che indicava a ciascuno di noi i propri doveri, ma non senza averne prima parlato con nostra madre, dal momento che pur essendo severo ed esigente aveva un animo buono e gentile e nutriva un profondo rispetto nei confronti della propria moglie. Mia madre appariva certe volte più benevola, più accondiscendente di lui. Insomma, sapevano fare bene il gioco delle parti nel difficile compito di genitore.
Mia madre era bravissima in cucina e riusciva a fare miracoli quando il cibo scarseggiava. Ricordo che in casa le patate erano immancabili e mia madre ce le rifilava in tutti i modi possibili. Nel periodo della guerra era solita fare le minestre, le cosiddette minestre povere che poi tanto povere non erano, considerando quanto fossero buone.
Non mancava mai, sul fuoco, una pentola di fagioli a sobbollire. Nei giorni più freddi, mia madre faceva sagne e patate, o taccozzelle e patate condite con un soffritto di assogna. Le taccozzelle, pasta fatta in casa, come forma somigliavano a farfalle tagliate molto grossolanamente, mentre l’assogna era la parte migliore del grasso del maiale, mista ad una certa quantità di carne, sempre di maiale, il tutto macinato e condito con sale e pepe. Del grasso di maiale se ne faceva un uso parsimonioso, perché doveva bastare tutto l’anno, per cui più il maiale era grasso, più si era contenti. L’uso dell’olio era praticamente sconosciuto.
Nulla si sprecava a quel tempo, e nelle mani di mia madre tutto assumeva un gusto prelibato. Quando faceva la minestra, la faceva sempre abbondante; poi, riempiendo un rame a turno a noi figli, diceva di portarlo a qualcuno del paese che se la passava male o che non stava bene, non avendo alcuno che lo potesse aiutare. Non ci mandava mai dalla stessa persona, in modo tale da dare una briciola di aiuto un po’ a tutti quelli che lei riteneva ne avessero bisogno.
Spesso la sera si cenava con le patam’amm’d’llitt, le patate lesse ripassate in padella con il solito soffritto di assogna e peperoncino: sapori perduti, rimasti nel cuore.
Ricordo che c’era sempre qualcuno, ospite fisso alla nostra tavola, come la comare Assuntina. Il marito l’aveva abbandonata forse per un’altra donna e lei era rimasta sola a crescere i suoi due figli, i quali, una volta adulti, avevano deciso di andare volontari in guerra. La povera Assuntina aveva accettato il suo destino di donna sola senza dire una parola, senza mai lamentarsi. In compenso, erano i suoi occhi a parlare per lei: due occhi neri e profondi che guardavano sempre lontano, ci si leggeva dentro tutta la sua solitudine.
Altro ospite, quasi fisso, era un giovane sempliciotto che andava in giro per il paese chiedendo a chiunque incontrasse: «Me la dai na’ lampaduna?»1
Si chiamava Colombo la Cinquina, ed era lo spasso del paese. Tutti pensavamo che gli mancasse qualche rotella, ma a parte questo era un ragazzo tranquillo, educato, ed era contento se poteva rendersi utile, mi faceva tanta tenerezza.
Era ghiotto di dolci e a mia madre non sembrava vero di poter avere la scusa per dedicarsi al suo pezzo forte in cucina. Erano famosi i suoi dolci, soprattutto le paste del re, come le chiamava lei, le spumette fatte con le chiare d’uovo, zucchero e mandorle tritate. Mi ricordo che preparava ...

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  1. Copertina
  2. Firstpage
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Dedica
  6. Prima parte