Capitolo 1 - Un’estate rovente
Un’estate così non si ricordava da molto tempo. Bisognava risalire a oltre cinquant’anni addietro, quando in un anno tanto tragico per l’agricoltura l’arsura aveva spaccato le zolle e bruciato la pianura e i crinali delle colline, conferendo al territorio la sembianza di un deserto. Anche quell’anno non pioveva da parecchi mesi; la terra era inaridita, molte radici erano rinsecchite e il paesaggio brullo era animato solo all’assordante frinire delle cicale. Intorno le case erano mute, assonnate dietro le imposte accostate e appena socchiuse, per lasciar filtrare un raggio di sole clandestino a schiarire le stanze.
L’autobus si fermò all’altezza della pensilina e lasciò scendere Viola, per andarsene subito dopo lesto e precipitoso verso il deposito che distava a non più di un centinaio di metri, oltre la piazza del paese.
La giovane si ricompose il vestito di lino che le era rimasto aderente, si aggiustò e passò le dita a pettine sui lunghi capelli neri che le cadevano sul viso. Non era più la ragazzina scarmigliata, a volte discinta e dai grossi zoccoli che erano stati di sua madre e che le conferivano l’andatura di un elefante. Era una giovane donna dalle fattezze armoniose, dall’eleganza sobria. L’antico bruco era diventato una farfalla: strana ed eccezionale metamorfosi per una ragazzina di campagna, un tempo rozza ed incolta, anche se bella e prosperosa, come sapevano esserlo le contadine di un tempo.
Attraversò la piazza ed imboccò la lunga strada alberata che conduceva alla casa di cura. L’asfalto trasudava ed evaporava l’aria; il calore pungente penetrava le sottili suole di cuoio dei suoi sandali, tenuti legati solo da lacci di pelle, per dare respiro a piedi e caviglie. Affrettò il passo per raggiungere una vasta zona d’ombra riflessa dalla chioma di un pino, che dava riparo ad una gatta soriana impegnata ad allattare i suoi piccoli. Fu allora che rallentò per guardarli meglio; alla fattoria dei Cagnini, parecchio distante dalla campagna dov’era vissuta, aveva assistito alla nascita di puledri e vitelli; aveva spiato gli accoppiamenti di cani e gatti, degli animali dell’aia. Ne conosceva i rituali amorosi, i tempi delle gestazioni e della schiusa delle uova; le era sembrato perciò sempre naturale che fin da bambina i suoi giocattoli fossero dei giocattoli vivi, perfino un polletto che amava vestire con le fasce e gli abitini che le erano appartenuti.
Viola sorrise tra sé al sopraggiungere inatteso di ricordi così lontani. Provò specialmente la tenerezza dell’amore materno. Amore che non aveva mai vissuto con l’intensità e gli slanci che si era immaginata, osservando gli equilibri naturali e gli uomini. L’amore che le era noto era quello degli altri; a lei le era davvero mancato, impegnata dal destino a dovere sempre lottare e difendersi dal mondo e dalla sua stessa famiglia.
Guadagnò le scale e percorse con passo regolare il lungo corridoio che apriva alle stanze. Il pavimento lucidato a specchio rifletteva gli infissi e qualche sprazzo di cielo; sul fondo un altarino che sapeva di provvisorio ospitava la statua in gesso bianco e azzurro della Vergine, ma l’atmosfera che vi si respirava non era quella di un invito al raccoglimento e alla preghiera per un’umanità sofferente. Un senso di nausea e di fastidio la raggiunse, alimentato dagli odori di disinfettanti e di farmaci.
Cercò allora la “Stanza 5”, a sinistra, e il “letto 25”. Romeo Boschetti stava lì, immobile, lo sguardo vitreo, debole come lo era sempre stato. La moglie Gina gli stava accanto, gli teneva la mano e lo guardava con sofferenza, incapace di pensare, ma anche di piangere: era questo un atteggiamento fatalista del suo carattere che aveva fatto un tutt’uno con la sua indigenza e l’aveva dotata di una corazza protettiva. Ogni suo gesto era un gesto abitudinario, ripetitivo, che compiva con naturale distacco e mente sgombra da qualunque pensiero
Era riuscita in tal modo a sopportare intere stagioni di grandi privazioni imposte da ben due guerre, e a uscire pressoché indenne da un lungo periodo di depressione, quando la famiglia era aumentata di numero con la nascita di Viola.
Viola, tuttavia, non viveva più con loro da quasi dieci anni e Gina non era più quella di un tempo. Il suo viso era solcato dalle rughe ed avvizzito dal sole. Aveva perso parecchio peso, da quando sua figlia se n’era andata definitivamente di casa, dopo aver provveduto a loro per anni, più o meno lecitamente, tra un arresto e l’altro.
Avere Viola in casa aveva significato avere la tavola imbandita. Non le era mai importato sapere della provenienza di quell’abbondanza che usciva dal sacco della ragazza al rientro delle sue uscite notturne.
Da allora, messa con le spalle al muro, aveva dovuto rimboccarsi le maniche e cominciare ad organizzare la sopravvivenza sua e del marito. Forse l’abitudine alle ristrettezze, o forse l’avanzare dell’età e le diverse esigenze, era comunque bastato loro poco per vivere; aveva potuto inoltre contare sulla solidarietà tra poveri, molto radicata in quel tragico secondo dopoguerra, che non le aveva mai fatto mancare un tozzo di pane o qualche avanzo di minestra.
«Varda Romeo chi che ghe xe. No ti la conossi? La xe Viola, to fia!» gli sussurrò.
Romeo non parlava; aveva perso conoscenza. Si limitava ogni tanto a guardare gli occhi della donna, illudendola di essere almeno in grado di capire. Poi egli incrociava lo sguardo di Viola, che era accorsa al suo capezzale, consapevole che assistere ad un risveglio di coscienza era solo una timida speranza.
Quello di Gina continuava intanto ad essere un monologo che non conosceva pausa, nemmeno quando la fronte madida di sudore del malato richiese di essere tamponata con un fazzoletto inumidito che stava sul comodino, a fianco di un ventaglio che continuava a sventolargli, nell’illusione di far abbassare la febbre.
Viola ammutolita la seguiva con lo sguardo. Sua madre si muoveva rapida, ma delicata, seguendo una ritualità precisa che le giunse una sorpresa. Le sembrava che stesse eseguendo diligentemente un lavoro che da sempre doveva essere stato il suo. Dov’era dunque la contadina che aveva conosciuto e che l’aveva lasciata per delle interminabili ore con degli sconosciuti, a giocare sulla strada o sull’aia, accompagnandola solo di qualche raccomandazione, per poi tornare al lavoro dei campi.
C’era amore e dedizione in ogni suo gesto, da quando Romeo si era ammalato. Forse perché poteva finalmente tenere quell’uomo tutto per sé.
“È così che è riuscita a sopravvivere finora, difesa dalla sua corazza di ignoranza e di indifferenza. Lui non l’aveva mai considerata una persona con una testa, dei desideri, dei sogni, tanto da fare di lei quasi una mendicante, privandola di orgoglio e di ogni dignità. Quell’uomo che le era sempre sfuggito, impegnato in affari inconsistenti, spesso manipolato da individui loschi e malevoli. Lui che non aveva saputo essere nemmeno un marito passabile, né un padre amorevole come l’aveva l’ultima delle famiglie” pensava Viola, seguendo ogni sua azione.
Nello stanzone gli ammalati erano assopiti, vinti dai sedativi o dalla calura. Qualcuno era coperto dal lenzuolo dalla cintola alle ginocchia e lasciava visibili i vecchi arti nodosi e bluastri dalle varici. Nessuno aveva accanto un parente o un amico ad assisterlo. Qualcuno l’aveva intravisto per poco, confuso nella sua semi-coscienza; una visita molto breve. Ma per suo padre no, era tutt’altra cosa.
I minuti passavano interminabili, rallentati dal caldo opprimente. Viola sfilò i sandali e con i piedi nudi cercò un po’ di sollievo sul pavimento. Più guardava sua madre, più si rendeva conto quanto poco si fossero dette, benché fossero passati parecchi anni da quando si erano separate. Lei che le aveva chiesto sempre tanto amore, si rese conto di avergliene dimostrato ben poco.
«Ma come, ti vivi ancora co quella donna? No ti pensi a quello che la gente la pol dir su de ti, da drio le spalle?»
«Ma la xe sempre la stessa solfa, mamma. La xe solo ‘na me amiga, ‘na compagna de lavoro. Quante volte gh’ho da spiegartelo!»
Erano state le poche parole che le aveva rivolto. Del resto che doveva aspettarsi? Cosa ne sapeva lei della sua sofferenza, delle vergogne che era stata costretta a subire, delle rinunce obbligate da una famiglia sventurata. Sua madre non aveva mai capito; non si era mai resa conto: cresciuta ed educata al culto del maschio, aveva accettato la sua inferiorità di donna senza ribellione, come un decreto della natura che ora le attribuiva come ultimo ruolo quello di accudente dell’uomo con il quale, malgrado tutto, aveva trascorso la sua vita e al quale aveva dato una figlia.
Gina aveva rimosso le percosse subite, quando il suo Romeo era in preda ai fumi dell’alcool; aveva cancellato dalla memoria le ingiurie che aveva dovuto sopportare, imparato a sorridere alle menzogne che le aveva sempre raccontato per coprire le perdite al gioco e i debiti contratti.
«Dopo tutto no ‘l xe cattivo» si ripeteva di continuo. «Xe tutto colpa del vin. Lu no el xe cussi!»
Ora lei lo curava con grande dedizione, come se nulla di tutto quello fosse mai accaduto. Viola ne fu improvvisamente consapevole; solo non riusciva a capire per effetto di quale incomprensibile disegno un uomo, giunto al capolinea di una vita non certo esemplare, possa riscattarsi al punto di diventare un modello di sofferenza umana. Per cieco amore? Per carità cristiana? Per fede nella redenzione? Per un desiderio di riscatto della propria e altrui debolezza che ha reso complici in vita?
L’indole impulsiva di Viola ebbe il sopravvento.
«No, non è possibile! Come dimenticare tutte le volte che l’ho raccolto da terra ubriaco, le botte che ti ha dato, i piatti che volavano dalla finestra!» esordì quasi ad alta voce, guardando sua madre, tanto da attirare su di sé lo sguardo sconcertato di lei, che solo allora parve accorgersi che sua figlia era ancora lì, per averla sentita esprimersi in quell’italiano che lei non sapeva usare.
La giovane prese una...