Democrazia digitale
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Una piccola introduzione

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Lo studio della democrazia digitale è un campo in via di definizione o, meglio, in continua ridefinizione. Dagli esordi pubblici del World Wide Web ai recenti esperimenti di e-democracy, molta strada è stata fatta. Ma cosa significano oggi concetti quali e-government, digital governance, open government o democrazia liquida? In che modo le tecnologie della comunicazione, e quelle digitali in particolare, costituiscono un valore aggiunto per le pratiche di partecipazione politica? Il web è davvero uno strumento al servizio dell'innovazione democratica oppure, come sostengono i cyber-pessimisti, "Internet è il nemico"? Questa piccola introduzione offre una risposta a queste e ad altre domande, analizzando il ruolo sociale dei media digitali e la loro dimensione politica, e individuando potenzialità e limiti della democrazia digitale.

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Informazioni

Capitolo 1

1.1 Media digitali e democrazia: una storia delle idee

Lo studio della democrazia digitale è un campo in via di definizione o, meglio, in continua ri-definizione. Si confronta, da una parte, con le diverse tradizioni di studio sulla democrazia (della Porta 2011, 2013), che assegnano alla rete ruoli e valori diversi a seconda del posto che essa occupa nell’ambito più generale dei processi democratici; dall’altra parte con la ricerca sui media digitali (o new media), il loro ruolo sociale, le loro potenzialità di connessione e mobilitazione.
Pippa Norris (2002) ha sottolineato come lo studio di questi temi si sviluppi nel contesto della riflessione politologica sulla crisi delle democrazie liberali, a partire dagli anni Settanta del Novecento: il calo della partecipazione tradizionalmente intesa (astensionismo elettorale e calo della party membership in primis ma poi anche disallineamento ideologico e partisan dealignment1), unito a una crescente insoddisfazione nei confronti delle istituzioni democratiche che sfocia in qualche caso nell’antipolitica, ha indotto gli studiosi a chiedersi come restituire senso agli istituti tipici della cittadinanza democratica. Da qui nasce l’interesse per altre forme di democrazia: quella partecipativa, caratterizzata da un allargamento delle opportunità di partecipazione dei cittadini nei processi decisionali, quella deliberativa, caratterizzata da modalità di policy-making condiviso, e da ultima quella digitale (della Porta 2011, 2013), che tuttavia – come vedremo – non si pone come superamento bensì come possibilità aggiuntiva alle dinamiche delle democrazie partecipative e deliberative.
L’attenzione “politica” per i media digitali si sviluppa in realtà a partire dai primi casi di movimenti globali che hanno utilizzato la rete in modo politico, negli anni Novanta: i cosiddetti nuovi movimenti sociali hanno cominciato a usare le ICT (Information and Communication Technology) come mezzi di comunicazione alternativi ai mainstream media (quelli basati sul broadcasting e all’interno di mercati globali) per trasmettere informazioni, aggregarsi, coordinarsi e contrastare la politica istituzionale, a livello nazionale e in modo sempre più evidente anche transnazionale (Lievrouw 2011; della Porta 2011, 2013). Per analizzare questi fenomeni gli studiosi hanno fatto ricorso a tradizioni di studio eterogenee, trovando un terreno particolarmente fertile nelle scienze sociali e politiche. La questione se e in che misura i media digitali possano aiutare a “guarire” la democrazia funge quindi da cornice teorica per tutti gli autori che partecipano a un dibattito tuttora aperto.
D’altra parte, la democrazia digitale conserva una sua specificità: si trova infatti in un territorio di confine fra la scienza politica e la sociologia, sebbene nell’ambito dei media studies si trovino riflessioni importanti e forse una letteratura più vasta, soprattutto nella ricerca sulle piattaforme come spazio di costruzione del consenso. Come per tutti i media, le direttrici di analisi dei media digitali sono tre:
• una prospettiva socio-tecnica, in cui vengono approfondite le conseguenze sociali dell’architettura di rete, le dinamiche dell’accesso, dell’interazione e della partecipazione, nonché il rapporto tra Internet e la sfera pubblica;
• una prospettiva economica, sui temi della proprietà, delle dimensioni, delle dinamiche di concentrazione e oligopolio nei mercati digitali;
• infine, una prospettiva politica, legata principalmente all’Internet governance, ossia il sistema delle culture e delle politiche di governo della rete (che ovviamente intersecano la questione delle regole formali, ovvero la Internet regulation).

1.1.1 La prospettiva socio-tecnica: cyber-ottimisti e cyber-pessimisti

Tradizionalmente i diversi approcci si possono suddividere in due macro posizioni teoriche, quella dei cyber-ottimisti (anche detti cyber-entusiasti o, in versione più polemica, cyber-utopisti), che enfatizzano le potenzialità di democratizzazione, di ampliamento delle possibilità di accesso alla sfera pubblica e di partecipazione, e, sull’altro versante, quella dei cyber-pessimisti (o cyber-scettici), che invece guardano con diffidenza alle nuove tecnologie, perché riflettendo e rinforzando le disuguaglianze nella distribuzione del potere e del sapere, sarebbero strumenti di controllo e sorveglianza nelle mani dei governi e delle corporation (Norris 2002; Rice, Haythornthwaite 2006; Chadwick 2009).
Come ogni classificazione, la suddivisione tra cyber-ottimisti e cyber-pessimisti non va letta in modo troppo rigido: nelle pagine che seguono quindi si passeranno in rassegna alcuni degli autori più noti e influenti, legandoli ai concetti fondamentali per la loro argomentazione e seguendone lo sviluppo nel corso del tempo. Da entrambe le parti si possono cogliere validi spunti di riflessione, che sopravvivono nonostante la velocità con cui il panorama digitale cambia e che hanno fornito la base teorica per dare forma alle policies dei governi in materia digitale: i concetti elaborati dagli studiosi che partecipano a questo dibattito costituiscono in altre parole l’alfabeto con cui vengono espresse le linee di sviluppo della democrazia digitale.
Comunità virtuali e partecipazione: i cyber-ottimisti
Come è noto, i prodromi di Internet risalgono agli anni Sessanta, in piena guerra fredda, quando il dipartimento della difesa statunitense lanciò il progetto Arpa (Advanced Research Projects Agency) per sviluppare una rete di trasmissione dati a grandi distanze. Nel corso dei due decenni successivi il progetto realizzò numerosi passi in avanti, estendendosi anche a nazioni alleate degli Stati Uniti.
Negli anni Novanta la storia subisce un’accelerazione: nel 1991 infatti Tim Berners-Lee, un ricercatore del Cern di Ginevra mette a punto il World Wide Web, un sistema di pubblicazione di contenuti (testi, audio, video, immagini) organizzati in siti web con link reciproci, in modo da formare un grande ipertesto. Due anni più tardi, nel 1993, Berners-Lee rinuncia ai diritti d’autore per la sua “invenzione”, rendendo il web un bene pubblico; questo fatto ha facilitato l’accesso al web da parte di una pluralità di soggetti interessati a pubblicare i propri contenuti, tra cui i futuri grandi player di Internet (Google, Aol, Microsoft, Yahoo!) ma anche semplici utenti (anche attraverso forum di discussione, bacheche elettroniche, mailing list). Mentre gli strumenti si raffinavano sempre di più e la platea di utilizzatori aumentava (anche grazie alla diffusione dei personal computer), gli usi di Internet si diversificavano: dalla seconda metà degli anni Novanta cominciano infatti a comparire on line i primi fenomeni di gruppi civici e di cyber-attivisti a livello nazionale e transnazionale (McCaughey, Ayers 2003).
Al gruppo dei cyber-ottimisti appartiene Howard Rheingold, cui si deve il merito di aver coniato la fortunata espressione di “comunità virtuali”: tali sono i gruppi on line di persone accomunate da interessi, gusti, comportamenti di consumo, che, grazie alle tecnologie di rete, possono condividere risorse e informazioni, organizzarsi e mobilitarsi per raggiungere un obiettivo (Rheingold 1994). Un passaggio teorico, in altre parole, che evoca (ma non vi aderisce in maniera metodologicamente stabile) le trasformazioni delle comunità di tipo ascrittivo (quelle in cui le identità derivano da appartenenze territoriali, familiari, religiose, etc.) in formazioni di tipo affiliativo (in cui la dimensione relazionale diventa prevalente e il legame è costruito in maniera endogena all’interno della stessa “community”)2.
Benché le comunità virtuali non siano esclusivamente di tipo politico, Rheingold insiste in modo particolare sulla valenza democratica delle reti: attraverso l’infrastruttura di Internet le persone possono costituire nuove comunità sociali non necessariamente legate a luoghi condivisi e, così facendo, agire politicamente. Successivamente, Rheingold (2003) ha parlato anche di “smart mobs” per definire le manifestazioni di protesta organizzate attraverso un coordinamento fulmineo, reso possibile da tecnologie come telefoni cellulari e Internet: grazie alla tecnologia, quindi, si sarebbero sviluppate forme di attivismo in grado di coinvolgere una moltitudine di persone in un lasso di tempo brevissimo, senza che vi fossero reti consolidate di partecipazione (appunto, gruppi civici, movimenti sociali, ecc.). In effetti, la dimensione del coordinamento attraverso le tecnologie della comunicazione è apparsa evidente anche in alcune delle manifestazioni della cosiddetta “primavera araba” (Gerbaudo 2012).
Il concetto di comunità virtuale è stato fortemente criticato, tanto che oggi si preferisce sostituirlo con espressioni più neutre, come gruppi on line. In particolare l’oggetto della critica a Rheingold riguardava la sua scarsa aderenza agli studi sociologici sulle comunità (Fernback, Thompson 1995; Jankowski 2007): se da una parte infatti Rheingold assegnava un valore positivo alla fluidità delle formazioni sociali on line, in cui l’adesione e l’appartenenza sono facilitate da vincoli deboli (la semplice comunanza di interessi, per esempio), dall’altra i suoi critici hanno sottolineato che proprio questa fluidità costituisce un limite di tali gruppi, che possono dissolversi con altrettanta facilità, recando implicazioni profonde per lo studio della partecipazione politica. Dopo una prima fase di intensa ricerca sulle comunità virtuali il concetto è entrato via via in disuso, lasciando però una forte impronta nel linguaggio comune relativo ai media digitali.
Un altro autore che è possibile annoverare tra i cyber-ottimisti è Henry Jenkins, che dal 1992 ha introdotto nel dibattito scientifico (e non solo) il concetto di cultura partecipativa. Partendo sostanzialmente dalle stesse premesse di Rheingold, ovvero che la rete abbia facilitato le pratiche associative, Jenkins si concentra sugli usi dei media digitali da parte delle audience: lo studioso statunitense sostiene infatti che la rete abbia contribuito a far nascere e diffondere un insieme di pratiche culturali di produzione collaborativa di contenuti (gli user-generated content), oltre che di fruizione e scambio peer-to-peer, determinando l’ibridazione tra le dinamiche dell’offerta (le istituzioni mediali, le élite produttive di contenuti) e quelle della domanda (l’audience appunto; Jenkins 1992, 2007, 2008). Jenkins parte dall’osservazione delle comunità on line di fan, estendendo poi la sua riflessione al sistema dell’informazione e quindi alla sfera pubblica: qui la cultura partecipativa si manifesta in fenomeni come il citizen journalism, o giornalismo partecipativo, e i blog, che si inseriscono nei flussi di comunicazione politica come e quanto altre fonti più tradizionali, in qualità di “intermediari dal basso” (Jenkins 2008).
Da queste premesse muove il lavoro di Clay Shirky, uno dei teorici cyber-ottimisti più aspramente criticato. Shirky ha assunto Wikipedia come modello paradigmatico di organizzazione sociale, fondata e definita dai media digitali: ha enfatizzato il ruolo dell’architettura di rete nel determinare un’organizzazione orizzontale, non verticistica, dei gruppi on line, in cui ciascuno può dare il proprio contributo liberamente e partecipare alla costruzione di un progetto collettivo (si veda il box 1).
Shirky parla espressamente di un modello di democrazia che avrebbe notevoli vantaggi dall’uso dei media digitali perché essi sarebbero intrinsecamente portatori di ideali di libertà e promotori di maggiore coinvolgimento da parte dei cittadini (Shirky 2008). È questa la lente attraverso cui Shirky e molti altri hanno letto gli accadimenti del 2009 in Iran, salutando con entusiasmo la cosiddetta “rivoluzione di Twitter”: il sito di microblogging, in particolare, sarebbe stato il maggiore volano per la diffusione delle informazioni e per il coordinamento della protesta, portando a una massiccia partecipazione popolare. Lo stesso schema è stato applicato in seguito agli eventi classificati sotto il nome di Primavera Araba, che hanno coinvolto diversi paesi, con diversi scenari politici e istituzionali e con dinamiche e tempistiche differenti: senza tenere conto di tutte queste differenze, la Primavera Araba è stata descritta da molti come un esempio di come le tecnologie di rete abbiano prodotto cambiamenti politici. Malgrado i c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ringraziamenti
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Approfondimenti
  7. Bibliografia