PARTE I
LIBERALISMO E DEMOCRAZIA
Capitolo 1
Liberalismo
La complessità e la pluralità delle versioni di liberalismo contemporaneo sembrano a prima vista destinate a vincere ogni tentativo di ricostruzione. Il liberalismo inglese e americano ha avuto caratteristiche diverse da quello dell’Europa continentale. La diversità aumenta poi quando lasciamo l’ambito occidentale. Anche l’approccio disciplinare ha la sua rilevanza: il liberalismo dei giuristi è particolarmente attento alle caratteristiche istituzionali, quello degli economisti al rapporto con il mercato, quello degli storici ai conflitti politici e sociali e così via. Se poi pensiamo che un libro come questo, dedicato alla filosofia politica, non può fare a meno di privilegiare il liberalismo dei filosofi, allora ci accorgiamo che anche qui le differenze non mancano, poiché esistono: un liberalismo dei diritti che va dai sostenitori del diritto naturale a quello di Ronald Dworkin, passando per i teorici che precedono la rivoluzione francese e Thomas Paine; un liberalismo degli economisti classici e dei loro critici, da Adam Smith e David Ricardo fino a Keynes, passando per i marginalisti e i teorici della scelta razionale; un liberalismo degli utilitaristi, da Bentham fino a J.J.C. Harsanyi; un liberalismo kantiano e contrattualista, da Kant fino a Rawls, Nagel, Scanlon; un liberalismo degli individualisti romantici, come lo è quello di von Humboldt, in parte quello di John Stuart Mill e forse persino quello radicale e libertario di Marcuse; un liberalismo conservatore e storicista, come – con le dovute differenze – quello di Croce, Leo Strauss, Oakeshott, Treitschke, Ortega; un liberalismo democratico e revisionista come nel caso di Jürgen Habermas e del pensiero repubblicano; un liberalismo anarchico e radicale, come quello di Gambetta e Gobetti, oppure di Bookchin e degli ecologisti; un liberalismo anarchico romantico come quello di Thoreau, Emerson e Walt Whitman fino a George Kateb; un liberalismo riformista e pragmatista, come quello di Beveridge e di Cattaneo; un liberalismo socialista come quello di Russell, Dewey, Calogero; un liberalismo garantista a partire da Benjamin Constant; un liberalismo dei federalisti americani, dal radicalismo di Jefferson al moderatismo di Madison; un liberalismo associazionista alla maniera di Tocqueville. E potremmo continuare nell’elenco...
Dal punto di vista della filosofia politica, in ogni versione di liberalismo è fondamentale la questione della giustificazione, cioè l’argomento che consente di dare buone ragioni a sostegno della propria visione. La giustificazione liberale parte da una concezione della libertà come valore fondamentale di una società contemporanea. La libertà in questione è di solito considerata innanzitutto come libertà individuale. Siamo al cospetto, in altre parole, di una concezione individualista. Le concezioni liberali sono egualitarie, anche se varia dall’una all’altra il tipo di eguaglianza richiesto, e per alcune conta solo l’eguaglianza di trattamento mentre per altre ha rilievo anche l’eguaglianza in termini di risorse o benessere. All’individualismo e all’egualitarismo, il liberalismo associa – perlomeno da Kant in poi – una forma di universalismo, che impone di trattare tutti gli esseri umani (e talvolta anche gli animali non-umani) allo stesso modo. A individualismo, egualitarismo e universalismo, il liberalismo unisce una pretesa di neutralità, per cui tutte le concezioni del bene sono presuntivamente da ritenersi degne di considerazione e rispetto.
Se individualismo, egualitarismo, universalismo e neutralità sono caratteristiche normali della giustificazione liberale, ciò che caratterizza la legittimazione liberale è il consenso. Questo consenso riguarda il rapporto con le istituzioni sociali e politiche. Nella prospettiva di una legittimazione basata sul consenso, il liberalismo può considerare rilevanti soltanto le preferenze effettive dei cittadini, come rivelate dalle loro scelte, oppure può considerare rilevante anche una sorta di consenso ideale o critico. In questo secondo caso, la legittimazione include aspetti della giustificazione, nel senso che un consenso puro e semplice non basta e serve invece un consenso razionale o ragionevole. In un mio precedente lavoro (S. Maffettone, Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzo millennio, Il Saggiatore, Milano 2001), distinguevo in proposito tra un liberalismo realista (contano solo le scelte effettive) e un liberalismo critico (conta la scelta ideale).
Il liberalismo ci appare così come una giustificazione universalistica della libertà eguale degli individui che pretende di essere neutrale rispetto alle concezioni del bene che gli individui stessi coltivano. Tale giustificazione richiede poi una legittimazione delle istituzioni basata sul consenso popolare. La distinzione tra liberali realisti e critici permette di mettere un po’ di ordine nella lista di pensatori liberali che abbiamo prima presentato alla rinfusa. Hume, Hayek e Bentham possono essere fatti rientrare nella famiglia dei liberali realisti, cui si possono aggiungere anche Croce, gli storicisti e i conservatori come Oakshott. Kant, Rawls, Dworkin fanno invece parte della famiglia dei liberali critici, traendo ispirazione dalla tradizione del diritto naturale. Altri liberali, come John Stuart Mill, sono poi a metà strada tra realisti e critici. In generale, il liberalismo realista tende a prendere molto sul serio la storia istituzionale e la cultura tramandata, mentre quello critico, partendo da una idealizzazione normativa della scelta è più incline al revisionismo e al radicalismo. È anche possibile, in questa ottica, percepire le difficoltà principali che queste due forme di liberalismo incontrano. Se i liberali realisti tendono a giustificare l’esistente anche quando non merita, i liberali critici rischiano di applicare direttamente una visione etica alla politica con una deriva paternalistica e autoritaria. Personalmente, privilegio una versione kantiana e rawlsiana di liberalismo critico, il cui principale problema teorico – per evitare il paternalismo e l’autoritarismo di cui si è detto – consiste nel congiungere una tesi normativa sulla giustizia con il pluralismo dei valori.
Discuto qui in seguito l’opera di due diversi modi di interpretare il liberalismo realista, quello di Croce e quello di Hayek, per poi passare al liberalismo critico di Rawls.
1.1 Croce
Per Croce, scienza, democrazia e capitalismo, e in ultima analisi la modernità tutta, sono elementi quantitativi e secondari rispetto alla fioritura dello spirito. Questa è una linea, che rende il percorso di Croce interpretabile in un’ottica fondamentalmente unitaria: dal predominio dell’intuizione nella Estetica, attraverso la separazione del momento volitivo e pratico da quello teoretico nella Filosofia della pratica (1908), alla formulazione dei “distinti” in contrapposizione, agli “opposti” hegeliani e alla filosofia dell’atto di Gentile nella Logica, passando per la consacrazione dell’irriconciliabilità di teoria e prassi in Politica “in nuce” (1924), fino alla ricostruzione in termini di “vitalità” degli ultimi anni. Quest’ottica evidenzia una distanza incolmabile tra etica e politica per dirla nel modo più semplice possibile, in quanto la prima è essenzialmente virtù dell’individuo laddove la seconda si lascia interpretare alla luce di un freddo realismo.
Le conseguenze di questa interpretazione realista di Croce filosofo della pratica sono state notate da Giovanni Sartori. Sartori coglie in pieno il punctum dolens della filosofia politica di Croce, sarebbe a dire la tesi secondo cui: “Altro è teoria, altro è pratica: è un punto fermo della meditazione crociana. Pensare non è volere, e volere non è pensare”. Teorema quest’ultimo, che se mai poteva avere un senso contro il tentativo gentiliano di fare coincidere il fascismo nascente con un destino storico, certo non giova se il problema è quello di reperire un retroterra filosofico-politico alla “teoria della libertà” crociana, che si poneva esplicitamente in contrapposizione al fascismo al potere.
Per giustificare il primato della libertà, Croce è così costretto a rivedere la separazione profonda tra teoria e pratica e tra etica e politica, nel modo in cui l’aveva pensata in sostanziale continuità dagli inizi al 1908 fino all’avvento del fascismo. Ciò avviene andando alla ricerca di un passaggio più coerente con il primato della libertà di quegli stessi termini, teoria e pratica, in questa seconda fase a preferenza ribattezzati come “pensiero” e “azione”. Ma questa riconciliazione resta un’esigenza contraddittoria con il nucleo teorico del pensiero crociano. Il primato della libertà non viene mai fondato teoreticamente, e il Croce filosofo della libertà lascia intaccato il sistema della filosofia dello spirito: è questi un Croce squisitamente storico, l’autore di libri per altro eccellenti come la Storia d’Italia e soprattutto la profetica Storia d’Europa. La teoria della contemporaneità della storia stessa consente, così, alla prassi un’idealizzazione propositiva e normativa, che la struttura della teoria in ultima analisi non gli consentirebbe. La prassi, in questo modo, pur non essendo illuminata dalla teoria, finisce con il risultare sovente carica di presupposti morali, che il lavoro dello storico recupera e porta alla luce. E la libertà diviene, in ultima analisi, un “ideale pratico”. Il compromesso tra l’impossibilità della teoria a sostenere questa linea e la volontà di Croce di difenderla è evidente nella Storia come pensiero e come azione, laddove Croce sostiene con parole famose che la storia come pensiero “prepara”, dove sono da notare tutte le ambiguità legate all’espressione, la storia come azione. Più in generale, per Croce se “l’attività pratica non può nascere senza la teoretica”, il nesso tra le due sfere resta alquanto misterioso.
Dal 1924, tuttavia, emerge un Croce esplicitamente etico-politico, che si contrappone al Croce precedente. Ciò ha due importanti conseguenze. La prima è che più si afferma il primato etico, meno la teoria politica, che resta ancorata al momento dell’utile, e quindi all’economia e al diritto, trova spazio e ha significato. Si forma, così, la curiosa visione, tipica del liberalismo crociano, secondo cui sussiste un primato della libertà eterno e quasi trascendente, cui non corrisponde alcuna forma giuridica ed economica determinata. Con la conseguenza che il liberalismo non può essere soggetto ad alcuna fondazione teorico-politica. Il liberalismo, se ha una dignità filosofica allora non è politico, e proprio per ciò può essere solo definito “meta-politico”. Ancora di più, finisce – in questo paradigma – per risultare sconcertante la sostanziale debolezza istituzionale del liberalismo, da questo punto di vista fondamentalmente “religioso”, di Croce.
Ma se la posizione di Croce sul liberalismo, solleva un vespaio teorico, non c’è alcun dubbio che essa susciti anche un cospicuo imbarazzo pratico. Il punto è che lo storicismo crociano non ci consente di distinguere il giusto dall’ingiusto, ma solo ci permette di riconoscere a posteriori la vittoria del più forte. Proprio per questo, lo storicismo non ci guida a una soluzione che ci consenta di optare per maggiore giustizia o maggiore libertà in accordo con una visione teorica.
A mio avviso, è proprio su questo imbarazzo che molti della mia generazione hanno messo da parte l’eredità filosofica di Croce. La storia che vivevamo tutti i giorni, soprattutto noi italiani meridionali, era popolata di successi che ci apparivano francamente ingiustificabili e di equilibri che solo con una sarcastica litote potremmo definire non-ottimali. Ci sembrava, in altre parole, che – al cospetto di un’età di crisi – noi avessimo bisogno di qualcosa di più che non fosse l’eticità solipsistica, elitistica e spiritualistica, predicata dal maestro di palazzo Filomarino (Croce).
Croce ha scritto un saggio emblematicamente intitolato “Contro la troppa filosofia politica”, che fa da pendant a un altro intitolato “Troppa filosofia” (entrambi sono in Cultura e vita morale). Il problema è che, invece ce n’è troppo poca di filosofia politica in Croce. Manca una filosofia politica liberale, che sarebbe essenziale a tenere insieme l’aspetto cognitivo e quello dell’azione, dando senso etico al progetto politico, e contrapponendo quest’ultimo al mero riconoscimento dovuto al successo effettuale in cui Croce è costretto a confinarla. Certo, dopo i disastri dello stato etico nel Novecento, e alla luce di tutti i problemi posti a qualsiasi visione liberale dal pluralismo e dal multiculturalismo, non possiamo oggi dirci soddisfatti di ogni filosofia politica che presupponga una semplicistica continuità con l’etica. Il punto interrogativo dipende, come vedremo, dalla difficoltà di operare su un progetto etico-politico che sia in grado di tenere conto di questo pluralismo essenziale.
1.2 Hayek
F.A. Hayek è stato un fiero avversario del liberalismo critico, che ha discusso sotto l’etichetta di “costruttivismo sociale”. Il costruttivismo, così come lo legge Hayek, consiste nel partire dall’assunzione secondo cui l’ordine sociale è una creazione umana per poi passare al teorema stando al quale ogni progetto che si confà ai nostri desideri risulta possibile. Ma questa è – sempre per Hayek – una falsa rappresentazione della realtà da cui dipende una vera e propria fallacia in cui incorrerebbe ogni tentativo di costruire un liberalismo critico basato sul consenso ideale al di là delle mere preferenze rivelate degli individui. Un errore teorico questo che avrebbe una pesante conseguenza pratica: l’ordine sociale costruttivistico vincola l’azione umana e in ultima analisi mette a repentaglio la libertà.
Hayek, ispirandosi ai principi tradizionali della scuola austriaca, fa sua una teoria dell’azione che presuppone individualismo metodologico e soggettivismo etico. In questo modo costruisce la sua visione di liberalismo realista. All’interno di questa visione, un ruolo importante è giocato da un modello di spiegazione evoluzionistico sociale che si rifà a David Hume. L’evoluzionismo di Hayek insiste sulla distinzione tra l’insieme di norme che regolano la condotta individuale e l’ordine sociale che risulta dalle azioni umane. Data per invariante la psicologia degli individui, l’ordine dipenderà dall’impatto che le norme di condotta hanno con l’ambiente sociale. In questo modo, si ripete in maniera originale la distinzione di Darwin tra la trasmissione genetica, che va da individuo a individuo, e la selezione naturale, che dipende dalla relativa efficienza dell’ordine di gruppo.
Da questa impostazione generale, dipende il teorema centrale nel pensiero di Hayek: la produzione dell’ordine sociale non è il risultato di azioni umane consapevoli, anche se dipende – alla maniera di Mandeville e Smith – dall’equilibrio derivante dall’aggregazione delle azioni umane. Alla base di questo teorema c’è una vera e propria impossibilità, poiché nessun individuo è in grado di controllare l’ambiente in modo da avere una conoscenza plausibile dell’ordine generale da realizzare. La fallacia costruttivistica consiste nel non comprendere che le azioni umane non derivano solo da regole di condotta razionali ma anche da stimoli ambientali e psicologici. Per cui, l’ordine sociale non dipende da azioni individuali dirette a uno scopo, ma piuttosto dagli effetti imprevedibili di azioni umane prive di regolarità. Questo non vuol dire che tutte le regole di condotta siano tra loro equivalenti. Quelle che funzionano meglio sono state infatti selezionate dal processo evolutivo e tendono a rafforzare le caratteristiche individuali che sono utili alla sopravvivenza del gruppo. Non sono così gli individui a scegliere le proprie norme – come credono erroneamente i liberali critici – ma un processo senza soggetto di selezione.
Hayek ripropone così in maniera originale la classica tesi di Adam Smith, secondo cui l’uomo “è guidato a promuovere un fine che non fa parte delle sue intenzioni”....