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Di quanta moralità ha bisogno la politica? È proprio vero che le mani dei politici debbano sempre restare pulite? E quanta segretezza consente la "ragion di Stato"? Una guida alla teoria (e alla pratica) dell'etica pubblica. Il 16 marzo del 1978, un commando delle Brigate Rosse rapisce Aldo Moro. Dopo tredici giorni dal sequestro, l'allora Presidente DC si fa vivo, con la consegna a Francesco Cossiga delle prima delle sue lettere dalla prigionia, che darà il via a una lunga vicenda mediatica e politica capace di coinvolgere addirittura le più alte sfere vaticane, e che si concluderà con l'assassinio di Moro il 9 maggio dello stesso anno. I contorni mai chiariti della vicenda tornano oggi a scuotere (e inquietare) le coscienze degli italiani. Ma quali sono le implicazioni politiche ed etiche di una simile trattativa? I terroristi sono "nemici di guerra" o criminali comuni? È giusto, doveroso o sbagliato trattare con loro, e farlo in segreto cambia la sostanza delle cose? Quanto serve il "segreto di Stato" a tutelare diritti e vite umane, e quanto invece sottrae elementi importanti al controllo democratico dei cittadini? E la vita stessa di Aldo Moro era una questione privata – dell'uomo, padre di famiglia, professore universitario – o una faccenda pubblica? Gianfranco Pellegrino, docente di Filosofia politica alla LUISS, affronta in questa Piccola introduzione il cuore morale della questione, dedicando all'affaire Moro, ai suoi presupposti e alle sue conseguenze, la parte centrale del suo libro. Il volume affronta, soprattutto nel contesto della storia italiana, dei suoi grandi scandali e misteri, le questioni chiave dell'etica pubblica: la presunta trattativa Stato-mafia dimostra che il fine giustifica i mezzi, oppure il contrario? L'inchiesta "Mani pulite" partiva da giusti presupposti etici oppure 'È proprio per le sue mani sporche che riconosciamo il politico con una morale' (M. Walzer)? Tanti altri esempi potrebbero essere tratti dal libro di Pellegrino, che non ha paura di prendere posizioni non sempre comode sul carattere degli italiani, sul "familismo amorale" e sulla celebre "questione" di Enrico Berlinguer. L'autore, in poche pagine, offre non una verità definitiva, ma gli strumenti adatti a rispondere alle domande di tanti: di quanta moralità ha bisogno la politica? Un leader deve rendere conto ai cittadini della sua vita privata? E quanta segretezza consente la "ragion di Stato"? Una guida alla teoria (e alla pratica) dell'etica pubblica.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788861052154

1. Il paradigma dell’etica pubblica

I re non sono altro che una brutta massa di carogne. […] Dev’essere bello un paese dove non ci sono re.
M. Twain, Huckleberry Finn (1854)
In questo capitolo presento un quadro preliminare dell’etica pubblica e del suo ruolo nella storia italiana recente, soffermandomi su due approcci alternativi all’etica pubblica – il moralismo e il realismo politici (§ 1.1.). Nel farlo discuto brevemente l’idea che in politica il fine giustifichi i mezzi e alcune obiezioni che si possono muovere a questa tesi. Sosterrò che il paradigma dell’etica pubblica è l’unione di tre tesi: i. che i politici sono talvolta esenti da doveri morali che valgono per tutti gli altri; ii. che altre volte invece hanno doveri più stringenti di quelli che la morale imporrebbe ai comuni cittadini; iii. che, tuttavia, i politici non sono per questo immuni dal giudizio morale (§ 1.2.). Presento inoltre alcuni episodi di storia italiana nei quali l’idea dell’etica pubblica è stata discussa in varie maniere (§ 1.3.). Infine, distinguo l’interpretazione della discussione italiana sull’etica pubblica che presenterò più compiutamente nel prossimo capitolo da tre chiavi di lettura della storia italiana recente che richiamano anch’esse l’idea di etica pubblica (§ 1.4.).

1.1. Il fine giustifica i mezzi? Moralismo e realismo politici

Per iniziare, consideriamo una vicenda immaginaria:
La trattativa – Re Giorgio I regna su Cacània da nove anni. È stato costretto a indire nuove elezioni, ad appena due anni dalle ultime. Il governo di coalizione è ormai paralizzato e il paese è turbato da un’ondata di attentati dinamitardi di origine oscura.
In Cacània ci sono tanti partitini minori e due grandi partiti, i Bianchi e i Viola. Anche per altre cose il paese è doppio. A settentrione un’economia disordinata ma attiva, fatta di piccole e medie imprese. A mezzogiorno agricoltura e turismo prevalenti, alti tassi di disoccupazione. Le mafie gestiscono una fiorente economia sommersa, che assicura la sopravvivenza a molti e una certa ricchezza ad alcuni. Da un po’, i boss sono in fermento: la crisi economica e l’inasprirsi della lotta alla criminalità da parte del governo cacàno hanno turbato gli equilibri. A questo si devono probabilmente gli attentati.
Il giovane capo dei Bianchi, Arcibaldo Foro, è un raffinato docente di teologia, il più pulito (o il meno implicato nella corruzione) rimasto dopo la bancarotta morale della vecchia classe dirigente, sommersa dall’indignazione popolare dopo continui scandali. Il segretario dei Viola, Manrico Valadier, è economista d’idee progressiste, cresciuto nella tradizione d’opposizione intransigente del suo partito, storicamente specializzato nella denuncia della corruzione e delle pratiche clientelari dei Bianchi e dei loro alleati. Valadier ha rinnovato la dirigenza del partito all’insegna del progetto di portare al governo i Viola, facendone una forza riformatrice e non solo rivoluzionaria.
I due hanno lo stesso problema. Per andare avanti debbono vincere le elezioni. Per vincerle, debbono prendere i voti del popoloso sud della Cacània – voti saldamente controllati dai boss. Ma Foro non può trattare, perché tutta la sua strategia punta alla moralizzazione del partito (che di trattative ha vissuto fin lì). Invece, Valadier non può non trattare, se vuole portare i suoi al governo. D’altra parte, se Foro non tratta, il suo posto lo perderà presto, e i maggiorenti del partito riprenderanno il sopravvento e riproporranno i vecchi metodi. Ugualmente, se Valadier tratta andrà al governo, ma solo fino al prossimo voto. I puristi del suo elettorato non gli perdoneranno mai d’essersi sporcato le mani.
La contraddizione vale anche per gli elettori. Tanto chi vota per Foro quanto chi preferisce Valadier lo fa perché sono onesti. Ma non c’è ragione di votare per chi non andrà mai al governo. Per cui, tutto sommato, gli elettori dovrebbero volere che i due leader trattino con chi gestisce i voti che servono a fare in modo che nessuna trattativa del genere sia più necessaria. Ma, se lo faranno, Foro e Valadier perderanno il loro status di politici onesti e non c’è ragione di votare chi è disonesto. Insomma, l’onestà dei due è motivo per votarli, ma se l’onestà si spinge fino al punto di perdere le elezioni pur di non sporcarsi le mani, allora meglio votare altri candidati, meno puri.
In questa vicenda ci sono due tipi di ragioni in contrasto – le ragioni dell’onestà e le ragioni dell’opportunità. Trattare con la criminalità sembra la cosa più conveniente – se non altro perché la trattativa parrebbe l’unico mezzo possibile per sconfiggere la mafia, una volta eletti. Si tratta dello strumento migliore per ottenere un fine evidentemente giusto – porre termine al predominio delle bande criminali nel sud della Cacània. Ma trattare con dei criminali, e comprare i voti di cittadini costretti a vendere i propri diritti politici per necessità, non sono certamente le condotte suggerite da ideali di onestà. Le ragioni dell’onestà suggeriscono di non trattare; le ragioni dell’opportunità consigliano di trattare. Che fare?
Di fronte a questo problema alcuni potrebbero dire: «Mantenere la propria integrità personale è inutile in un paese come la Cacània. Salvare il meridione cacàno dalla criminalità è un fine troppo importante per badare all’onestà. È vero che una trattativa coi capi criminali è una manifestazione d’impotenza e, in quanto trattativa segreta, è anche un atto di disonestà. Ma le conseguenze che ne derivano sono buone: molte vite verranno salvate – vite di cittadini comuni e di funzionari dello Stato – e le condizioni generali del paese miglioreranno. Il sud potrà diventare un luogo dove vivere senza criminalità e con uno Stato che assicuri giustizia e un miglioramento del livello economico di tutti, e non solo dei pochi che approfittano dei commerci criminali gestiti dai boss. Un fine del genere giustifica l’uso di qualsiasi mezzo».
Chi la pensa così sta presupponendo la seguente tesi: i mezzi indispensabili (cioè necessari e sufficienti) a realizzare un fine buono o giusto sono anch’essi buoni o giusti (il fine giustifica i mezzi).
Questa tesi suggerisce che non ci sono azioni in sé e per sé cattive o ingiuste – cioè tali una volta e per tutte, indipendentemente dalle loro conseguenze. Questo modo di vedere deriva a sua volta dalla seguente tesi: ciò che rende le nostre azioni giuste o ingiuste è esclusivamente il fatto che esse abbiano conseguenze buone nel complesso, cioè producano più bene che male (conseguenzialismo).
Chi adotta il conseguenzialismo ritiene che non ci siano azioni sempre e necessariamente giuste o ingiuste, cioè giuste o ingiuste in qualsiasi circostanza: che sia giusto compiere un certo atto dipende dalle conseguenze che ne possono derivare – se l’atto produce più bene che male allora è giusto compierlo. Non ci sono azioni, per quanto turpi, che non si debbano compiere, in certe circostanze. Non si può giudicare la trattativa coi boss indipendentemente dalle conseguenze che si avrebbero se non la si tentasse. Se trattare con la mafia serve a evitare altri attentati, allora la trattativa è giusta. Non ha senso dire che si tratta di un atto comunque immorale: sarebbe tale in altre circostanze, non in quelle attuali. La Cacània versa in uno stato d’emergenza e all’emergenza si risponde con mezzi eccezionali. Foro e Valadier non avrebbero nulla da rimproverarsi, se decidessero di trattare. Liberare la Cacània del sud dalla criminalità senza il potere politico di emanare leggi più severe e condurre investigazioni più efficaci sarebbe impossibile. Per avere il potere necessario bisogna vincere le elezioni. Per vincere le elezioni bisogna trattare. Il fine di liberare la Cacània dalla criminalità giustifica la trattativa. I mezzi adottati producono il bene di mettere il governo nelle condizioni di sconfiggere la criminalità mafiosa, causano il male di sporcarsi le mani: il bene è ovviamente più grande del male.
Altri potrebbero disapprovare questo modo di vedere, ragionando così: «Non è vero che il fine giustifichi sempre i mezzi. Ci sono cose che non si debbono fare mai, alleanze troppo indegne per essere anche solo considerate, trattative che niente giustifica. Non c’è fine morale che emendi l’immoralità. E non c’è obiettivo politico che ammetta condotte immorali. Se Valadier non esita a impiegare certi mezzi per ottenere il potere, è meglio che non l’abbia, perché non potrà che farne un uso immorale. Uno che manca di scrupoli a tal punto è meglio non votarlo». Secondo questo modo di pensare, il politico deve sapere che certe cose non si fanno, per nessun fine. Il politico che abbia chiaro tutto questo, pur sconfitto, manterrà la sua integrità e avrà le mani monde da crimini e misfatti.
Chi pensa queste cose lo fa sulla scorta della seguente tesi: non importa quale sia il fine da raggiungere, ci sono azioni che sono sempre e comunque ingiuste. Ci sono condotte assolutamente ingiuste, che nessuno mai può compiere, quali che ne siano le conseguenze. Non c’è male che sia giusto evitare né bene che sia giusto produrre con mezzi malvagi (assolutismo).
L’assolutismo è l’opposto del conseguenzialismo e dell’idea che il fine giustifichi i mezzi. Per chi sostiene questa tesi certe azioni – atti come torturare o uccidere l’innocente, a esempio, o come trattare con i capimafia – sono ovviamente ingiuste, e nessuna delle loro conseguenze può cancellare quest’ingiustizia. Lo Stato non può scendere a patti con i criminali: se lo fa, perde la sua integrità e la sua autorevolezza e cancella la differenza che lo separa da una banda di malfattori. Peggio, se lo fa manca di rispetto a chi i criminali li ha combattuti a viso aperto – alle forze dell’ordine e ai magistrati, principalmente. E questa mancanza di rispetto è intrinsecamente ingiusta – anche quand’essa fosse l’unico mezzo per impedire altre morti fra poliziotti e funzionari dello Stato. I servitori dello Stato hanno diritto che il loro sacrificio sia rispettato – ma per evitare altri sacrifici non si debbono violare i diritti di chi i sacrifici li ha già fatti.
L’assolutismo deriva dalla seguente tesi: ci sono azioni che sono ingiuste sempre e comunque e non vanno compiute neanche se farlo potrebbe evitare grandi mali o produrre ingenti benefici. Fini che sono giusti, come evitare certi mali o fare del bene, non si possono perseguire a tutti i costi – il divieto di compiere certe azioni (per esempio il divieto di infliggere danni a innocenti o di calpestare i diritti di terzi) costituisce un vincolo al perseguimento di fini buoni (deontologia).
Il contrasto fra conseguenzialismo e deontologia attraversa molte discussioni in filosofia morale. I sostenitori della deontologia accusano i conseguenzialisti di aprire un varco all’immoralità – i conseguenzialisti sembrano pronti a tutto, anche alle azioni più turpi, pur di raggiungere certi fini. I conseguenzialisti accusano chi sostiene la deontologia di fanatismo – di rimanere attaccati all’osservanza di certi divieti fino al punto di provocare catastrofi enormi, pur di non trasgredire presunte regole morali assolute.
Ma conseguenzialismo e deontologia condividono una premessa: per entrambe le ragioni pro e contro la trattativa sono dello stesso tipo, cioè ragioni morali. Ma il conseguenzialismo ammette che le ragioni a favore della trattativa siano più forti di quelle contro, mentre la deontologia propende per la posizione opposta. In generale, il conseguenzialismo sostiene che l’unica ragione morale decisiva – cioè la ragione che predomina su tutte le altre – derivi dall’obbligo di promuovere il bene ed evitare il male, laddove la deontologia suggerisce che in certi casi questa ragione sia solo sufficiente – cioè predomini soltanto quando siano assenti ragioni contrarie, derivanti dal divieto di compiere certe azioni – e che certi divieti invece forniscano ragioni decisive – cioè valide sempre e comunque.
Secondo questo modo di vedere, dunque, anche nella sfera della politica valgono esclusivamente ragioni morali. In politica, come nella vita ordinaria, sono i principi morali che stabiliscono quel che si deve fare. La politica fa parte della moralità – non è che moralità applicata a una certa sfera, la sfera delle azioni dei governanti o dei cittadini. Questa visione si chiama moralismo politico (ci tornerò nel cap. 3).
Chi nega il moralismo politico concepisce la politica come una sfera del tutto autonoma rispetto alla moralità. Ciò conduce a pensare in questo modo: «La politica non è che esercizio del potere volto allo scopo di mantenere l’ordine nella società. Che senso avrebbe nella Cacània di oggi, uno Stato sull’orlo della dissoluzione, proporsi certi obiettivi politici, militare in un partito, fare proposte concrete, se poi non ci si impegnasse a fare ciò che serve per ottenere il potere necessario a mettere in pratica le proprie idee? Se non vuole andare al potere, allora è meglio che Foro ritorni ai suoi studi. Se ha tutto questo ritegno a usare i mezzi necessari a vincere le elezioni in democrazia, votare per lui sarebbe uno spreco».
Il politico, secondo chi la pensa così, deve «imparare a potere essere non buono», come consigliava Niccolò Machiavelli (1469-1527) nel Principe (1513) (Machiavelli 2006, 50). E, una volta capito che la scelta di trattare è l’unica che permette di realizzare il fine per cui si sta facendo politica, non ci deve essere rincrescimento alcuno: in queste circostanze, il politico che tratta ha fatto quel che doveva fare, le sue mani e la sua coscienza sono pulite. Questo modo di pensare si chiama realismo politico (ci tornerò nel cap. 3).
Il realismo politico arriva a conclusioni che, almeno in questo caso, sembrano coincidere con il conseguenzialismo. Ma ci arriva con un percorso e su basi diverse. I realisti politici non sostengono che la trattativa si fondi su ragioni morali derivanti dall’obbligo di promuovere il massimo bene. Piuttosto, per loro a favore della trattativa stanno ragioni specificamente politiche – ragioni derivanti dall’essenza della politica in quanto attività volta a mantenere l’ordine e conservare il potere – e queste ragioni – almeno nella sfera politica – sono decisive, cioè sono più forti delle ragioni morali. Può darsi che mantenere l’ordine promuova anche il bene dei cittadini – e quindi il politico, almeno per i conseguenzialisti, è nel giusto. Ma non è questo il punto, per i realisti: anche se mantenere l’ordine e conservare il potere comportasse un costo enorme in termini di vite umane, l’integrità dello Stato rimane l’unico scopo dell’azione politica.

1.2. Il paradigma dell’etica pubblica

Anche se mi occuperò di nuovo del moralismo e del realismo politici (nel cap. 3), in questo libro mi interessa un modo di vedere le cose più complicato, che potrebbe portare a ragionare così: «La politica è esercizio del potere, ma ciò non vuol dire che essa sia immune dal giudizio morale. Certi modi di esercitare il potere possono essere opportuni politicamente, ma sono immorali. È perché bisogna sradicare la criminalità nella Cacània del sud, ed evitare il crollo definitivo dello Stato e il disordine, che bisogna vince...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Premessa
  3. 1. Il paradigma dell'etica pubblica
  4. 2. Da Craxi a Moro: o della difficoltà dell'etica pubblica nel discorso italiano
  5. 3. Etica pubblica: un'analisi concettuale
  6. Conclusione
  7. Per approfondire
  8. Bibliografia dei testi citati