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Putin, Trump e il nuovo ordine mondiale

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Putin, Trump e il nuovo ordine mondiale

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La Casa Bianca ha un nuovo inquilino, la Russia un presidente che raggiunge vette di consenso sempre più alte e Pechino spinge per avere un ruolo di maggiore importanza nella politica internazionale. Partendo dall'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, Antonio Badini analizza i nuovi scenari geopolitici che si stanno delineando, provando a spingere lo sguardo oltre l'immediata attualità attraverso l'occhio critico della sua lunga esperienza diplomatica. Dalle circostanze che hanno favorito l'ascesa di Putin, passando perle problematiche riguardanti ilruolo dell'Unione Europea e le complesse dinamiche economiche in Cina e Medioriente, Badini arriva a ridefinire gli equilibri internazionali e a descrivere il processo, già in itinere, di costituzione di un nuovo ordine mondiale.

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Informazioni

Introduzione

Il discorso di investitura di Donald Trump come 45° Presidente degli Stati Uniti, lungi dal costituire l’occasione, attesa anche per la presenza alla cerimonia di molti ex Presidenti, di riconciliare il linguaggio, optando per una maggiore cautela e una più controllata irruenza, all’azione, che non poteva che restare ferma e risoluta, ha in realtà ribadito le linee di una politica di rottura totale con il passato, dipingendo uno scenario dell’America di oggi a tinte ancora più fosche di quanto non avesse fatto nel corso della sua campagna elettorale. Con toni e parole, in qualche momento, ai liniti della demagogia.
Un discorso, quello del 20 gennaio scorso, nella forma del tutto irrituale. Oggi molti analisti hanno di Donald Trump-Presidente un’idea non dissimile da quella che avevano di Donald Trump-candidato. Ma il fatto che egli abbia riconfermato, in un’occasione tradizionalmente solenne – di afflato con la continuità dei nobili propositi che si formulano nella circostanza sulla grandezza del paese – il suo programma di rottura col passato indica che la svolta da lui annunciata ha già fatto un tratto di strada che la rende irreversibile. Evidentemente poco importava per lui il rischio di essere il presidente meno popolare al momento dell’insediamento e che ci sarebbero state manifestazioni di protesta.
Non restano ormai dubbi sulla assoluta novità del personaggio e sulle sue rimarchevoli capacità di indirizzarsi al paese con un’assoluta fedeltà al suo programma di cambiamento e a un approccio senza remore formali, che è segno di grande sicurezza e autostima. L’America del politically correct e i media che, in maggioranza, fungono da megafono, appaiono allarmati. Si critica come destinato al fallimento l’approccio di Trump di rompere la cappa del consensus dell’establishment e di aver prescelto la creazione di una rete di atti bilaterali con cui creare un diverso pluralismo; quello che è più vicino al suo concetto di new global, che passa cioè per un maggiore ruolo delle nazioni.
Si tratta di una scelta che implica inusuale coraggio e una certa dose di audacia, delineando, come lui ha fatto in quel momento al mondo intero, come intende affrontare una sfida radicale, senza precedenti e in terreno, in gran parte, non conosciuto.
Lo stile e il linguaggio appaiono ormai aver superato una semplice enfasi patriottica e fors’anche, per un presidente della nazione più potente nel mondo, un po’ barricardiera. Resta ora da vedere se il forte senso della nazione – che egli ha voluto riaffermare senza falsi scrupoli, anzi con una venatura di populismo, specie quando ha affermato che il governo del paese passa ora «nelle mani del popolo» – egli voglia considerarlo al di là del tradizionale concetto americano di interesse nazionale, che ingloba un grado più o meno elevato di internazionalismo. E ciò in termini di sicurezza e prosperità.
Nonostante alcuni suoi atti assolutamente criticabili, da attribuire soprattutto ad una certa impulsività del personaggio e all’impazienza che brucia i tempi dell’analisi, non sono pochi coloro che continuano ad aver accolto positivamente la sua ascesa: per loro, al di là dello stile opinabile del personaggio, essa ha significato e continua a significare che il tempo del déjà vu, delle soluzioni provvisorie, se non addirittura scontate e dello sterile politically correct, appare, in una situazione di inquietante disordine internazionale, oramai scaduto, sia per le questioni concernenti l’economia globale, sia per quelle della geopolitica.
L’alternativa sarebbero stati, come accennato, i piccoli passi che avrebbero lasciato agire la macchina del potere con le seconde e terze file a mediare e far filtrare l’essenziale, cioè il quasi nulla. Un esempio? Quando nel 1984 l’allora Presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi volle far passare a Reagan il messaggio che era venuto il tempo di associare gli alleati nel decidere la strategia per far uscire dallo stallo il negoziato di Ginevra sui missili a lungo raggio, egli dovette attendere oltre un mese una risposta chiara e dignitosa. Al suo posto, riceveva apprezzamenti e auspici degli Uffici del Dipartimento di Stato. Decise allora di cambiare tattica; all’uscita da un colloquio con l’allora Primo Ministro portoghese Mario Soares a Lisbona disse alla stampa che il sistema missilistico franco -britannico “non era sulla luna”, volendo intendere una minore intransigenza negoziale degli americani. Dopo le inevitabili critiche da Washington, Londra e Parigi e le polemiche interne al governo, arrivò la risposta di Reagan e la promessa che l’inviato speciale Paul Nitze sarebbe venuto a riferire e raccogliere suggerimenti a Roma almeno una volta al mese.
Trump, decisamente, non è un ideologo e non si preoccuperà di collocare la sua presidenza in una corrente di dottrina politica, sia essa a sfondo liberista o interventista. Farà tutto ciò che per lui sarà funzionale all’impegno preso con gli elettori di “far tornare grande l’America”. “America first” ha insistito enfaticamente più di una volta, ma questo, circostanze e toni a parte, non è un sentimento né raro né negativo per un Capo di stato che ha deciso di parlare con il linguaggio crudo delle sue convinzioni. Saranno gli storici a definire il retaggio del suo passaggio alla Casa Bianca. Al momento, il Presidente Trump è l’«uomo nuovo», con cui occorrerà misurarsi, nel bene e nel male, senza infingimenti. Ed è fortemente auspicabile che la sfida sia accolta da parte di leader occidentali per evitare che il cambiamento pur necessario sia inficiato da false partenze e devii dalla buona rotta. Ma certamente anche Putin e Xi Jinping faranno la loro parte. Dopo il collasso del comunismo sovietico l’Occidente aveva campo libero per affermare e radicare il suo sistema di valori. I risultati del “monopolio” sono stati tutt’altro che esaltanti. Qualcosa allora è giusto che cambi.
Sebbene resti ancora difficile anticipare le sequenze, la forma e la direzione del cambiamento che egli intende promuovere, è comunque da attendersi il ritorno in forza dello stato-nazione e della “politica di potenza”, con quello che ciò potrà comportare; in primis, il rischio di una nuova contrapposione internazionale dai contorni ancora sfuggenti. Ciascun paese, secondo il vento che soffierà da Washington, dovrà assumersi le proprie responsabilità, senza ricorrere ad alibi, fughe in avanti o a discorsi convenzionali o di circostanza. È sulla bontà delle reazioni e sulla autorevolezza degli impegni dell’Occidente che si potrà indurre Trump a rivedere alcune sue posizioni che talvolta stridono con gli stessi obiettivi da lui dichiarati.
Ma ciò presuppone alto senso di responsabilità da parte di ciascuno. I free riders (intentendo quelli che si impegnano in iniziative contando al momento della verità di andare a rimorchio di qualcuno) non avranno molto spazio, così come coloro che non sapranno inserirsi nel cambiamento, che richiede un linguaggio chiaro, assunzione di rischi, e “pesi” equamente ripartiti, senza furbizie e giri di valzer. Altrimenti, i suoi interlocutori potrebbero rischiare, nel tempo, di essere relegati a semplici spettatori. Ciò potrebbe in particolare riferirsi all’Unione europea, quella indecisa e disorientata, che Donald Trump mostra di non stimare troppo, arrivando a compiacersi dell’uscita da essa della Gran Bretagna, a seguito di un referendum popolare.
Più dell’eloquio sull’America dei valori, cui ci aveva abituato Barack Obama, per Trump conteranno i calcoli politici del dare e dell’avere, col rischio che alcuni Paesi, a meno di un rapido cambiamento, potranno partecipare alle trattative internazionali da un back seat. Il popolo di Donald Trump continuerà a far sentire ancora più forte la sua voce perché si producano i presupposti di una migliore condizione sociale, ed egli verosimilmente l’ascolterà anche sfidando le convenzioni e gli accordi internazionali. Lo dimostra lo strabiliante intendimento di riaprire le miniere di carbone, in barba agli impegni assunti dal suo paese nella recente Conferenza di Parigi sull’Ambiente e alle decisioni di chiusura prese dal suo predecessore.
Ma ciò non vuol dire che Trump rifiuti le Convenzioni, anzi egli intende cercare i fresh deals, per usare le sue parole, cosciente che l’impegno pattizio potrà essere il perno della sua azione; solo che, riguardo ai trattati in corso di finalizzazione, non sempre si fida della loro equa osservanza da parte dei grandi beneficiari del commercio mondiale, come la Cina, che è in verità tra i paesi più inadempienti. Fino a che punto le sue parole pungano e producano effetti rapidi e puntuali, lo dimostra la reazione del Presidente Xi Jinping, che si è recato in fretta al World Economic Forum di Davos, che Pechino aveva sempre minimizzato, per rassicurare, lui, il più grande rappresentante mondiale del comunismo, che il suo Paese crede nel mercato aperto e che, in un momento di grande incertezza sul futuro del commercio internazionale, egli era lì per dire che la Cina crede nella globalizzazione.
Quello di Xi Jinping, come si dirà meglio più avanti, è stato un messaggio di “peso”, che deve aver fatto riflettere la Casa Bianca su un ben ponderato corso di azione. Quella in materia ambientale potrebbe comunque non essere l’ultima sorpresa di Trump. Alcune, c’è da attendersi, riguarderanno la geopolitica e saranno volte a rimuovere le cause che, nella sua visione, hanno originato una violenza senza precedenti in Medioriente, con la fuga in cerca di un rifugio in Europa di migliaia e migliaia di persone. I paesi forti e i leader che, come lui avvertono l’esigenza del cambiamento, avranno la precedenza nelle consultazioni di Trump. Non a caso la prima visita alla Casa Bianca l’ha compiuta Theresa May, per la quale Trump aveva avuto parole di stima dopo la Brexit. Tra le sue prime mosse è previsto vi sia la consultazione per costituire un fronte unico contro lo Stato Islamico. Avrà inoltre un occhio di riguardo verso Israele con cui, egli ha detto, si propone di avere un rapporto privilegiato. E questa non sembra una notizia ben accolta nel mondo arabo e nemmeno dall’Europa, che ha voluto credere nella soluzione “dei due Stati”, finita nel binario morto.
L’esigenza del cambiamento vale, dunque, per la politica quanto per l’economia. In entrambi i campi, Donald Trump farà certamente valere, più di quanto non abbia fatto il suo predecessore, l’interesse nazionale, che nel concetto americano, da Trump forse inavvertitamente ignorato nel discorso di investitura, è, come si è detto, comunque più inclusivo e più aperto del significato che il termine assume in Europa e in altri paesi. Il nazionalismo americano, è bene precisare, nonostante quello che pensi Trump, ha tradizionalmente inglobato una quota più o meno grande di internazionalismo, poiché per gli Stati Uniti, sicurezza e sviluppo mondiali sono stati e saranno, piaccia o no a Trump, parti integranti dell’interesse nazionale.
Appaiono perciò quantomeno prematuri gli eccessivi allarmismi sul nuovo isolazionismo americano, manifestati da alcuni osservatori e ampiamente ripresi dalla stampa europea, compresa quella italiana. Ci sarà certamente tempo per il presidente di riappacificarsi con la tradizione del suo grande Paese (prendendone innanzitutto coscienza), a parte il bisticcio di parole che talvolta gli capita, e verosimilmente gli capiterà ancora, di fare.
Si può, infatti, riconoscere che dalle dichiarazioni e affermazioni sinora fatte da Donald Trump emerge di fatto una certa propensione verso un internazionalismo a “somma positiva”, il che in termini pratici comporta un beneficio netto per il suo popolo, anche se, al momento non è dato conoscere, se di tipo immediato e materiale. Ma non sempre sarà possibile prevedere e soppesare le ricadute positive, per cui molto sarà affidato all’intuito della Casa Bianca, che si potrà avvalere di persone assai esperte all’interno dell’amministrazione. Ben diverso e più pericoloso è stato, comunque, il modo in cui il grado di internalizzazione è stato interpretato da George W. Bush, che, a differenza di Donald Trump, si diceva impegnato a esportare urbi et orbi la democrazia “liberale”, che era uno dei pilastri su cui si reggeva il Washington Consensus1.
E, tuttavia, sebbene all’approccio ideologico Trump preferisca quello pragmatico, e a parte alcuni inutili atteggiamenti demagocici, il nuovo inquilino della Casa Bianca non è certo privo di una qualche idealità, che, auspicabilmente, prima o poi emergerà. Vale la pena ricordare che nel corso della sua campagna lui stesso ha evocato la propria sensibilità a un certo idealismo, che non è certamente quello retorico, sganciato, cioè, da precisi o precisabili obiettivi-valori, da perseguire in modo concreto.
Potrebbe essere verosimilmente un idealismo più povero nei principi e nell’eloquio, ma sostenibile, perché basato su risultati concreti che promuovono il sostegno tangibile dei cittadini, anche se non sempre con il consenso della stampa e dell’élite. Permane, tuttavia, il grosso dubbio se, nell’ottica del presidente americano, la incipiente politica di potenza, che prevedibilmente governerà il nuovo ordine mondiale, sia pure in condominio, sarà sostenuta da un accettabile grado di giustizia internazionale.
Coloro che, sia pure comprensibilmente, si chiedono dove possano condurre alcune intenzioni espresse sinora da Trump – da alcuni osservatori interpretate come neo-protezioniste o neo-isolazioniste – dovrebbero, tuttavia, ricordare la lenta deriva della globalizzazione verso la formazione delle “forze” dominanti l’economia e, soprattutto, la finanza. È un fatto che la globalizzazione, che subito dopo la caduta del muro di Berlino aveva creato i presupposti per una prosperità diffusa, abbia poi fatto prevalere le politiche del profitto a scapito dell’equità e della coesione sociale all’interno di molti stati, America inclusa.
Donald Trump ha visto da persona ricca il disagio sociale di migliaia di cittadini americani che avevano perso il lavoro e ha avvertito la loro rabbia verso le istituzioni. E le sue ricette, sebbene descritte in maniera talvolta impulsiva, hanno raffigurato i mali di una globalizzazione mal governata e suscettibile di creare un crescente fossato fra una élite e una moltitudine, con un peggioramento, diffuso in America e nel mondo, delle condizioni della classe media. È vero, la globalizzazione ha strappato alla povertà milioni di persone ma è dubbio, politicamente ed eticamente, poter vantare tale risultato a...

Indice dei contenuti

  1. Disordine mondiale
  2. Indice
  3. Prefazione
  4. Introduzione
  5. Capitolo primo. Verso un nuovo ordine mondiale
  6. Capitolo secondo. L’intreccio tra globalizzazione e geopolitica
  7. Capitolo terzo. L’enigma dell’Europa
  8. Capitolo quarto. Il caos in Medioriente
  9. Conclusioni