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"Chi disse 'Preferisco averfortuna che talento' percepì l'essenza della vita", è l'amara constatazione con cui Woody Allen apriva il suo film Match Point. Secondo il grande regista americano abbiamo paura di riconoscere quanto la buona sorte conti nella vita, al punto da far finta di nulla o, come ha scritto Jean Cocteau, da considerare la fortuna uno strumento utile soltanto a spiegare il successo degli altri. In questo libro Robert H. Frank, economista della CornellUniversity, mostra come non voler vedere gli aiuti che la buona sorte ci elargisce – non solo i piccoli colpi di fortuna quotidiani, ma anche il fatto di essere nati in un paese occidentale, di godere di buona salute o anche solo di averricevuto il supporto della propria famiglia – non rappresenti soltanto una mancanza di umiltà: pensare al proprio benessere come frutto esclusivo del proprio duro lavoro tende infatti a consolidare un pregiudizio cognitivo che disincentiva a condividere con gli altri quell'insieme di fattori che, se messi in circolo, contribuirebbero a creare un ambiente più fortunato, favorevole e ricco di opportunità per tutti.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788861053557
Argomento
Business

Capitolo 1

Parlate di cose che conoscete
Agli scrittori si raccomanda sempre di “parlare di cose che conoscono”, ed è una delle ragioni per cui ho iniziato a trattare il tema della fortuna parecchi anni fa. Mi sono interessato all’argomento anche perché gli eventi casuali hanno assunto un ruolo preponderante nella mia vita.
Il caso più emblematico si è verificato quasi certamente un gelido sabato mattina di novembre del 2007, quando stavo giocando a tennis in un campo al coperto con un mio vecchio amico e collaboratore, lo psicologo della Cornell University Tom Gilovich. Tempo dopo, Tom mi ha raccontato che mentre facevamo una pausa tra un game e l’altro all’inizio del secondo set gli ho detto che avevo un po’ di nausea. Pochi istanti ancora e giacevo immobile sul terreno di gioco.
Quando si è inginocchiato per soccorrermi, ha scoperto che non respiravo e che il polso non mi batteva più. Ha fatto chiamare il 911, poi mi ha girato sulla schiena e ha iniziato a premere ritmicamente sul mio torace – una manovra che aveva visto fare tante volte al cinema ma che non aveva mai messo effettivamente in pratica. Dopo “un’eternità”, ho dato un colpo di tosse e in quel mentre è arrivata l’ambulanza.
Ma se le ambulanze provengono dalla parte opposta della città, a più di cinque miglia di distanza, come aveva fatto quella lì ad arrivare tanto in fretta? Per un caso fortuito, due ore prima che mi sentissi male due ambulanze erano state inviate nei pressi del circolo del tennis per soccorrere le vittime di un paio di incidenti d’auto. Siccome in uno dei due casi le persone coinvolte non si erano fatte quasi nulla, uno dei mezzi ha potuto allontanarsi di poche centinaia di metri per venire da me. I soccorritori mi hanno messo gli elettrodi e mi hanno portato di corsa al pronto soccorso dell’ospedale cittadino; lì mi hanno caricato su un elicottero che mi ha trasportato in un ospedale della Pennsylvania più attrezzato, dove mi hanno messo in coma farmacologico per tutta la notte.
Poi i medici mi hanno detto che ero andato in arresto cardiaco. Mi hanno spiegato che il 98 per cento di coloro a cui capita non ne escono vivi, e che quasi tutti i sopravvissuti restano gravemente menomati, anche sul piano cognitivo. E i miei familiari mi dicono che per tre giorni non ho fatto altro che straparlare a vanvera dal letto d’ospedale. Ma il quarto giorno, quando mi hanno dimesso, ero perfettamente lucido. Due settimane dopo, superato brillantemente il primo elettrocardiogramma sotto sforzo che i miei medici erano riusciti a programmare, giocavo nuovamente a tennis con Tom.
Se quell’ambulanza non fosse stata per caso nei paraggi, non sarei sopravvissuto. Alcuni amici hanno parlato di intervento divino, e non ho motivo di contestare la loro interpretazione, ma per me non è mai stata una visione confortante. Sono convinto che, se sono ancora vivo, lo devo unicamente alla fortuna.
Non tutti gli eventi casuali producono risultati favorevoli, naturalmente. Mike Edwards non è più tra noi solo perché il caso non lo ha aiutato. Era il violoncellista del nucleo originario della Electric Light Orchestra, il celebre gruppo pop britannico. Nel 2010 guidava su una strada della campagna inglese quando una balla di fieno da 1300 libbre è rotolata giù da un pendio e si abbattuta sul suo furgoncino uccidendolo. Quel giorno non aveva infranto nessuna legge. A detta di tutti, era un uomo tranquillo, amato e pacifico. Il fatto che la sua vita sia stata stroncata da una balla di fieno precipitata da un pendio è pura e semplice sfortuna.
La gente non ha problemi a riconoscere che io sono stato fortunato e che Edwards è stato sfortunato. Ma in altri contesti il caso agisce con modalità ben più subdole, spingendo quelle stesse persone a rifiutare le spiegazioni che fanno riferimento alla fortuna. In particolare, molti stentano ad ammettere che il successo commerciale possa dipendere in misura significativa dalla buona sorte.
Alcuni anni fa ho scritto un editoriale in cui spiegavo come certi eventi casuali apparentemente secondari siano molto più decisivi per la vita delle persone di quanto non si creda comunemente.7 Era il primo di una serie di articoli che si sono progressivamente evoluti in questo libro. Sono rimasto sorpreso dai commenti fortemente negativi che il mio editoriale ha generato, soprattutto da parte di persone che spiegavano il successo unicamente con il talento e con lo sforzo. Queste qualità sono importantissime, in effetti. Ma siccome le gare che mettono in palio i premi più ambiti nella nostra società sono oltremodo competitive, il talento e lo sforzo non bastano quasi mai, di per sé, ad assicurare la vittoria. Praticamente in tutti i casi, serve anche una grossa dose di fortuna.
Pochi giorni dopo l’uscita dell’editoriale, sono stato invitato a partecipare a un dibattito su Fox Business News. Il moderatore era Stuart Varney, un uomo profondamente scettico circa l’importanza della sorte. Ottimista come sempre, ho accettato l’invito, nella speranza che lui e i suoi spettatori potessero trovare spunti di riflessione nelle prove che avrei descritto.
Mi sbagliavo di grosso. Varney mi ha contestato ferocemente, dall’inizio alla fine del dibattito.8 “Aspetti un attimo, professore. Sa come mi sono sentito offeso quando l’ho letto? Sono sbarcato in America trentacinque anni fa senza un soldo in tasca. Mi sono fatto da solo, credo, unicamente con il talento, il lavoro e il coraggio di rischiare. E lei ha intenzione di scrivere sul New York Times che è solo fortuna?”
Ho tentato di spiegargli che in realtà il mio messaggio non era quello – avevo scritto che sebbene il successo sia difficile da ottenere senza talento e fatica, ci sono tuttavia tante persone di grande talento e di grandissimo impegno che non ottengono mai grossi risultati pratici. Ma Varney era furibondo. Con la bava alla bocca, mi ha urlato: “Lei sta dicendo che in realtà il sogno americano non esiste!”. Ho cercato di fargli capire che non stavo dicendo nulla di simile. Ecco com’è proseguito il nostro battibecco.
Varney: “Dunque è fortuna se sono quello che sono, e se sono arrivato dove sono arrivato?”.
Io: “Sì, ed è così anche per me!”.
Varney: “Lei sta dicendo un’eresia! Sa cosa vuol dire sbarcare in America senza un soldo in tasca? Sa cosa vuol dire proporsi a una grande rete televisiva americana quando si parla con un accento marcatamente britannico? E si viene da un altro mondo? Sa che rischio si corre per arrivare a questi livelli?”.
Ed è andato avanti così per oltre sei, angosciosi minuti. Solo in taxi, mentre mi allontanavo dallo studio televisivo, mi sono venute in mente tutte le risposte velenose che avrei potuto dargli. Varney era sbarcato in America senza un soldo? Impossibile! La sera prima avevo letto che si era laureato alla London School of Economics, quindi aveva in mano una carta sempre e comunque vincente sul mercato del lavoro americano.
Era penalizzato dal suo accento inglese? Ma per favore! Gli americani amano gli accenti inglesi! Il geologo britannico Frank H.T. Rhodes divenne presidente della Cornell University negli anni Settanta, poco dopo il mio arrivo. Un amico mi ha detto che il suo accento oxfordiano era molto più forte negli ultimi anni trascorsi alla testa della Cornell rispetto a quanto non lo fosse decenni prima, quando era approdato negli Stati Uniti. Certi altri accenti sono socialmente svantaggiosi, naturalmente, e i linguisti hanno scoperto che tendono a corrompersi con il tempo. Ma non l’accento inglese.
Varney si era assunto dei rischi? Se non me ne fossi reso conto durante la corsa di ritorno in taxi, l’implicazione di quell’affermazione mi sarebbe stata ricordata dalle email che mi hanno inviato diversi amici nelle ore immediatamente successive. Assumersi un rischio vuol dire che non c’è la garanzia di un risultato positivo. Se Varney si era assunto dei rischi e aveva avuto successo, era stato fortunato per definizione! Sfortunatamente non avevo avuto la prontezza di farglielo notare durante la nostra conversazione in diretta.
Quante volte avrei voluto avere la prontezza di spirito esibita dai protagonisti dei romanzi di Elmore Leonard, da sempre il mio scrittore preferito! Nel 2013, poco dopo la sua morte, Terry Gross della NPR ha mandato in onda due brani di interviste che le aveva rilasciato in precedenza.9 A un certo punto ha menzionato l’incredibile destrezza verbale dei suoi personaggi, e gli ha chiesto se nella vita reale era veramente in grado di fornire risposte così immediate e taglienti.
Leonard si è schermito: “No… mai…”, spiegando che quando si scrive è diverso: “…chiudi la scena con una battuta, la battuta perfetta… Hai mesi per pensarci”.
La Gross l’ha incalzato, perché voleva sapere se rifletteva a posteriori sulle sue conversazioni, nel tentativo di identificare risposte più brillanti. E senza fare una piega, Leonard le ha citato questo episodio: “Beh, nella vita reale mi è capitato di starmene seduto su una panchina ad Aspen, alle quattro del pomeriggio, stanco morto. Avevo appena finito una discesa. Mi si è avvicinata una sciatrice che poteva avere venticinque o trent’anni meno di me, ha appoggiato uno scarpone sulla panchina e mi ha detto: ‘Non so se mi dia più soddisfazione levarmi gli scarponi o…’ e ha usato un verbo che designa l’atto sessuale”.
“E lei cos’ha detto?”
“Ho balbettato qualcosa… sarà stato almeno quindici anni fa”, aggiungendo che da allora aveva sempre cercato – senza mai riuscirci – di trovare una risposta adeguata, e tantomeno elegante.
È difficile immaginare una risposta più perfetta alla domanda della Gross. Avevano provato quello scambio di battute? Non sembrava proprio, e se non l’avevano fatto Leonard era bravissimo a rispondere a tambur battente. È un talento che mi manca. Il più delle volte, come nella conversazione che avevo avuto con Stuart Varney, il pegno da pagare era stato solo un momentaneo imbarazzo. Ma in certi altri è stato veramente spiacevole, e in una occasione in particolare uscirne vivo è stata una vera fortuna.
Stavo facendo windsurf sul lago Cayuga in un pomeriggio dal tempo estremamente capriccioso, con venti che andavano da zero a più di 40 miglia all’ora. Per facilitare la navigazione in presenza di vento forte, molti windsurfer usano un’imbragatura, un giubbotto salvagente con un gancio frontale che si attacca a un nodo legato saldamente al boma (questo accorgimento scarica tutto il lavoro sul peso del corpo, sgravando le braccia e le mani). Dopo una breve pausa, è arrivata una raffica fortissima che mi ha catapultato oltre il boma e la vela. Poi mi sono ritrovato sott’acqua con la vela sopra, rintronato ma ancora cosciente. Quando ho riordinato le idee, il mio primo impulso è stato quello di aprire il gancio, in modo da poter uscire a nuoto da sotto la vela. Ma siccome il mio corpo aveva effettuato alcune rotazioni prima di entrare in acqua, la corda si era arrotolata eccessivamente intorno al gancio.
Allora ho messo in atto il piano B – premere con tutte le mie forze sulla vela che mi teneva sotto, sperando di creare un po’ di spazio tra essa e la superficie del lago. Siccome non ci riuscivo, ho cercato ancora di liberare il gancio. Niente da fare.
In preda al panico e alla ricerca disperata di un po’ d’aria, ho fatto un altro tentativo inutile con la vela, poi ho cercato ancora una volta di liberare il gancio. Tutto inutile. Con le speranze ormai ridotte al lumicino, ho tentato nuovamente di spingere in su la vela. E quell’ultimo sforzo ha prodotto un risucchio fortissimo nel momento in cui è entrata l’aria. Sono salito in superficie e ho respirato profondamente per alcuni istanti.
Quando mi sono calmato, ho capito quello che avrei dovuto capire subito: non occorreva liberare il gancio dalla corda. Bastava sganciare la lampo del giubbotto salvagente e toglierlo: a quel punto avrei potuto nuotare liberamente. E naturalmente è quello che ho fatto alla fine. Ma non prima di aver rischiato di morire annegato. A volte la sopravvivenza è solo questione di fortuna, e quel giorno mi è andata di lusso.
Stuart Varney e altri continuano a ribadire che chi accumula grandi patrimoni è invariabilmente ricco di talento, lavoratore e socialmente produttivo. È un po’ eccessivo. Pensate alle boyband che cantano in playback, o ai trader che si sono arricchiti enormemente con i derivati prima di mettere in ginocchio l’economia mondiale. Eppure è evidente che quasi tutti i grandi vincitori delle sfide competitive sono estremamente ricchi di talento e dotati di una grandissima capacità lavorativa. Su questo punto, Varney ha sostanzialmente ragione.
Ma cosa possiamo dire delle tante persone talentuose e lavoratrici che non ottengono mai un grosso successo sul piano materiale? Penso spesso a Birkhaman Rai, il giovane membro di una tribù di montagna del Bhutan che mi faceva da cuoco molti anni fa, quand’ero volontario dei Peace Corps in un piccolo villaggi...

Indice dei contenuti

  1. Fortuna e successo
  2. Indice
  3. Prefazione
  4. Capitolo 1. Parlate di cose che conoscete
  5. Capitolo 2. Perché contano anche eventi casuali apparentemente banali
  6. Capitolo 3. Perché i mercati in cui il vincitore prende tutto amplificano il ruolo della fortuna
  7. Capitolo 4. Perché i più grandi vincitori sono quasi sempre fortunati
  8. Capitolo 5. Perché persistono false credenze sulla fortuna e sul talento
  9. Capitolo 6. Il peso delle false credenze
  10. Capitolo 7. Siamo fortunati: abbiamo di fronte un’occasione d’oro
  11. Capitolo 8. Un minimo di gratitudine
  12. Appendice 1. Risultati analitici delle simulazioni illustrate nel capitolo 4
  13. Appendice 2. Domande frequenti in merito all’imposta progressiva sui consumi
  14. Ringraziamenti