Il diavolo
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Steve Bannon e la costruzione del potere

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Steve Bannon e la costruzione del potere

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Nella notte di novembre in cui, stato dopo stato, la presidenza degli Stati Uniti finì nelle mani del più imprevedibile dei candidati, fu subito chiaro che, per assicurarsi la carica di uomo più potente del mondo, Donald Trump aveva fatto l'unica mossa che gli potesse garantire la vittoria: stringere un patto con il diavolo. Il diavolo aveva l'aspetto trasandato e bizzarro di Steve Bannon, fino a quel momento noto in patria soprattutto per dirigere il sito di destra Breitbart, e subentrato alla guida della corsa elettorale di Trump quando mancavano pochi chilometri all'arrivo e lo svantaggio da recuperare sembrava incolmabile. Steve Bannon, con una storia personale tanto avventurosa quanto improbabile e nessuna somiglianza con gli altri spin doctors presidenziali, aveva capito una cosa che nessun altro sembrava comprendere: in un mondo che non riconosce più la validitàdelle regole, seguire le regole non è più importante per vincere

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Informazioni

Capitolo 1

“Servirebbe un miracolo”
“Cazzo, è incredibile!”, pensò Steve Bannon scuotendo la testa. Era disgustato di fronte all’ultim’ora che scorreva in sovrimpressione sugli schermi televisivi della sala operativa della Trump Tower. Erano le sette e ventidue di sera del giorno delle elezioni presidenziali, i seggi non si erano ancora chiusi eppure il giornalista Jim Acosta della CNN già rilanciava con enfasi una maledetta dichiarazione strappata a un importante consigliere di Trump che aveva chiesto di rimanere anonimo: “A noi, per vincere, servirebbe un miracolo”.
Bannon non aveva dubbi su chi fosse il responsabile della dichiarazione. Dava per scontato che a parlare fosse stata Kellyanne Conway, capo della campagna elettorale di Trump. Che poi, si chiedeva Bannon, come diavolo faceva lei a saperlo? Conway era una sondaggista di professione, ferrata nella comunicazione ma non nelle consultazioni elettorali, e la sua campagna si era di fatto interrotta settimane prima perché Trump aveva preferito che lei facesse la trottola fra una trasmissione televisiva e l’altra. Se Bannon lo avesse ritenuto necessario – e in quel momento non lo riteneva – avrebbe potuto vedere il resoconto completo di Acosta e cercare l’Informatore segreto. C’era un dettaglio infatti che ne aveva da sempre tradito l’identità. Poiché Conway era l’unica donna dello staff dirigenziale della campagna elettorale di Trump, i giornalisti ogni volta che la citavano in modo anonimo evitavano di usare pronomi maschili o femminili, per timore che in qualche modo sbucasse un “lei” e ciò svelasse la loro fonte. Utilizzavano invece espressioni strane ma neutrali rispetto al genere come “questo consigliere” o “questa persona”. Alla terza o quarta volta che indicavano la fonte usando espressioni simili, era già piuttosto evidente a chi si riferissero. Ecco dunque chi era l’Informatore per eccellenza. Alcuni dei consiglieri di Trump l’avevano capito da tempo e ormai ci scherzavano sopra.
Ovviamente Acosta aveva citato “un importante consigliere della cerchia ristretta più vicina a Donald Trump”, espressione seguita da una tripletta di “questo consigliere”, senza mai riferirsi a un “lui” o a una “lei”. Ancor prima che il giornalista avesse finito di parlare, la CNN – l’ossessione di Trump e la sua bestia nera – aveva riportato in evidenza, nella barra delle notizie che scorre nella parte inferiore dello schermo, la frase “servirebbe un miracolo”.
Ma Bannon stava già pensando ad altro. Non riusciva a capire perché persone come la Conway s’impegnassero tanto per guadagnarsi la benevolenza dei giornalisti (la maggior parte dei quali, pensava, era composta da idioti senza la più pallida idea di cosa stesse accadendo) o perché si preoccupassero così tanto delle apparenze.
Era sufficiente uno sguardo per capire che Bannon, al contrario, non si prendeva cura delle apparenze, almeno non delle sue. Questo in effetti era uno dei suoi tratti distintivi. Aveva passato la maggior parte della propria vita a indossare l’uniforme delle varie istituzioni alle quali era appartenuto: l’uniforme da cadetto alla Benedectine High School, la scuola militare cattolica per soli maschi che lui e i suoi fratelli avevano frequentato a Richmond, in Virginia; le bianche divise inamidate dell’ufficiale di marina durante i suoi otto anni di esperienza a bordo di un cacciatorpediniere nel Pacifico e nel Golfo Persico; i vestiti costosi del banchiere, anch’essi una tipica uniforme, quando aveva lavorato per Goldman Sachs.
Una volta fatti i soldi veri, Bannon aveva allegramente gettato via le divise imposte dal lavoro e adottato uno stile personale piuttosto singolare: camicie Oxford spiegazzate sopra a svariate magliette polo, bermuda logori con le tasche e infradito ai piedi. Insomma, un modo di vestire che era un dito medio sartoriale indirizzato a tutto il mondo. Anche adesso, a sessantatré anni, dopo aver lasciato la guida di un impero mediatico di destra qualche mese prima per diventare il capo stratega della campagna presidenziale di Trump, Bannon aveva fatto solo una minima concessione allo stile imperante nelle riunioni trumpiane, sostituendo i bermuda con dei pantaloni lunghi, sempre con le tasche, e coprendo con un blazer i suoi numerosi strati di magliette. Sebbene fosse la notte delle elezioni e i camion delle reti televisive fossero parcheggiati lungo molti isolati attorno alla Trump Tower, Bannon non si era preoccupato di radersi o tagliarsi i capelli, e aveva una mezza dozzina di penne attaccate al taschino della camicia, come fossero bizzarre mostrine militari. “A Steve bisogna far conoscere l’acqua e il sapone” disse una volta Roger Stone, consigliere politico di lunga data di Trump. Sembrava una persona che si stesse apprestando a trascorrere la notte sulla panchina di un parco.
Ma Trump aveva bisogno di lui. Bannon, praticamente unico tra i suoi consiglieri, aveva avuto una fede incrollabile nel ritenere che la star miliardaria del reality televisivo potesse prevalere nella corsa per la Casa Bianca, e aveva un piano per portarlo alla vittoria. “Sarà dura” diceva Bannon a chiunque lo ascoltasse nelle settimane di chiusura della campagna. “Ma un modo c’è.”
Trump si era rivolto a Bannon in agosto per salvare la propria campagna presidenziale che era in grande difficoltà, in un momento in cui quasi tutti erano convinti che sarebbe andato incontro a una sconfitta rovinosa. Aveva già bruciato in poco tempo due responsabili della campagna elettorale. Il primo, il mutevole Corey Lewandowski, era uno yes-man pronto a tutto, apprezzato da Trump per la sua cieca devozione e per il fatto che era disposto a difendere qualsiasi porcata. Ma Lewandowski era entrato in contrasto con membri importanti della famiglia, in particolare col genero di Trump, Jared Kushner, e inoltre gli mancava una visione strategica. Fu cacciato a giugno. Dopo di lui arrivò Paul Manafort, un lobbista di Washington di vecchia data che aveva legami poco limpidi con degli autocrati stranieri. Manafort tentò di rimodellare l’immagine di Trump, rendendolo accettabile all’establishment del Partito repubblicano, un tentativo che Trump aveva tuttavia ostacolato ogni volta che era stato possibile. Nel momento in cui, in agosto, emerse che Manafort era stato il destinatario di milioni di dollari in contanti da parte di politici ucraini allineati con la Russia, Trump aveva già di fatto firmato la sua condanna a morte, attribuendogli il terribile epiteto di “moscio” che aveva affibbiato in passato allo sfortunato Jeb Bush. “Mio padre non voleva che qualche distrazione incombesse sulla sua campagna” disse Eric, il figlio di Trump, parlando a Fox News nel giorno in cui Manafort fu messo alla porta.
La nomina a sorpresa di Bannon a capo della campagna elettorale di Trump, avvenuta il 17 agosto, colpì il mondo politico di Washington come un fulmine a ciel sereno e fu considerata, dalla maggior parte degli addetti ai lavori, come una scelta infelice. Bannon non aveva mai lavorato a una campagna elettorale; era disprezzato sia dai democratici sia dai repubblicani per la sua smania di attaccare entrambi e aveva un profilo che per Trump diventava garanzia di titoli di giornale ancora più terribili. Era presidente esecutivo di Breitbart News, il combattivo sito web populista di estrema destra, accusato di razzismo e che nel 2013 aveva contribuito a innescare il blocco parziale dell’amministrazione federale voluto dai repubblicani, lo stesso giornale online che poi aveva bullizzato il presidente della Camera repubblicano John Boehner fino a costringerlo alle dimissioni. Il motto personale di Bannon era: “Il tasso del miele se ne fotte”, un riferimento al temerario predatore africano reso celebre da un video diventato virale su YouTube nel quale era ripetuta in modo ossessivo questa espressione.
Secondo i repubblicani di Washington, Bannon era la scelta peggiore che Trump potesse fare perché indicava che invece di sterzare verso una sconfitta onorevole, che avrebbe potuto salvaguardare i seggi repubblicani alla Camera e al Senato, Trump stava per distruggere tutto andando verso una sconfitta così bruciante che avrebbe annichilito il partito. Perfino nei suoi giorni migliori – su questo i repubblicani erano d’accordo – Trump era sempre a un passo dal distruggere sé stesso, trascinando il partito con sé. Chi aveva conosciuto Bannon o letto Breitbart News non dubitò nemmeno per un momento che quel signore avrebbe incoraggiato le peggiori tendenze di Trump. Bannon era una mina vagante, la versione aggiornata per l’èra di internet di Slim Pickens, che nel film Il Dottor Stranamore cavalca urlando una bomba atomica come fosse un toro da rodeo, fino all’annientamento nucleare. Come disse con ammirazione uno dei suoi dipendenti di Breitbart News, “se c’è un’esplosione o un incendio da qualche parte, Steve è probabilmente nei paraggi con dei fiammiferi”.
Ma Trump, egli stesso un tasso del miele, apprezzava molte cose di quest’uomo. Bannon era una persona decisamente energica, un oratore instancabile che dormiva di rado e possedeva un metabolismo mediatico tale da poter rivaleggiare con quello di Trump. Il suo primo istinto era sempre quello di attaccare. Il linguaggio particolare di Bannon, un miscuglio tra il gergo in uso nei locali caldaia delle navi militari e quello in voga a Wall Street negli anni Ottanta, era un altro fattore di attrazione. Proveniente da una famiglia operaia da sempre legata alla marina, Bannon si compiaceva delle offese e del disprezzo rivolti ai sostenitori di Trump, insistendo con orgoglio sul fatto che gli elitaristi clintoniani li guardavano dall’alto in basso come fossero degli “Hobbit”, dei “Grundoons”, e – per usare lo stesso sconsiderato vocabolo utilizzato da Hillary Clinton – dei “deplorevoli”. Chiunque la pensasse diversamente da lui era un “figlio di puttana” o uno schmendrick, termine yiddish che indica uno “sciocco”. La stessa Clinton era oggetto di un costante flusso di derisione, attentamente adattato ai pregiudizi e alle insicurezze di Trump, espresso con la stessa passione di un allenatore che dall’angolo del ring tenta di motivare il pugile prima di un ultimo estenuante round. La Clinton – insisteva Bannon – era “un bel curriculum vitae”, “una ipocrita totale”, “una presenza ripugnante”, “una tritatutto, secchiona ma non intelligente”, “una buona a nulla che si nasconde dietro media compiacenti”, “una adulatrice che non è stata in grado di superare l’esame di abilitazione all’avvocatura”, “lei pensa che sia il suo turno” ma “non ha mai combinato nulla nella sua vita” e, in buona misura, era “una fottuta lesbica”. A Trump tutto questo piaceva. E gli piaceva anche come Bannon, avido lettore di libri di storia e di biografie militari, inquadrava la campagna dell’outsider Trump in un più ampio contesto storico. Per anni Bannon aveva seguito, e qualche volta incoraggiato, la politica dei movimenti populisti di destra che si erano diffusi in Europa e in Gran Bretagna. Mentre altri avevano interpretato la campagna elettorale di Trump come fosse una buffonata o un’esagerazione frutto del suo ego, Bannon la leggeva come l’inevitabile manifestazione statunitense di quelle stesse forze populiste. Egli riconosceva in Trump l’avatar di un populismo “noi-contro-loro” che avrebbe potuto galvanizzare una maggioranza elettorale, spingendola a sollevarsi e ad annientare un establishment corrotto. Aveva ritagliato un ruolo anche per sé stesso. Sulla parete del suo ufficio era appeso un dipinto a olio che ritraeva Bannon vestito da Napoleone nel suo studio al palazzo delle Tuileries, riprodotto nello stile del famoso pittore neoclassico Jacques-Louis David; era un dono dell’amico nazionalista Nigel Farage.
Nonostante lo scandalo che aveva provocato, la scelta di Bannon non era stata così casuale come poteva sembrare. Anni prima, egli era già stato introdotto nella cerchia di Trump da un attivista repubblicano di lunga data, David Bossie, per fornire consigli informali su un’eventuale corsa per la Casa Bianca. A quel tempo Bannon non credeva molto alle chance di Trump e considerava quegli incontri come un’avventura, una sorta di gioco. Dubitava che Trump volesse davvero correre per le presidenziali, ma ciò non gli aveva impedito di far conoscere la sua visione nazionalista – in particolare la sua ostilità all’immigrazione clandestina – e ben prima che Trump annunciasse la sua candidatura, il miliardario già leggeva gli articoli di Breitbart News segnalati da Bannon e che il suo staff gli consegnava dopo averli stampati (essendo la carta il mezzo preferito da Trump per la lettura).
Non a caso la dichiarazione formale della sua candidatura, pronunciata da Trump il 16 giugno 2015, assunse la forma di un rancoroso peana al nazionalismo americano che degenerò rapidamente in un attacco agli immigrati messicani considerati criminali e “stupratori”. Né fu una coincidenza che una delle sue prime trasferte da aspirante candidato presidenziale diventò un viaggio un po’ folcloristico al confine tra Stati Uniti e Messico nella città di Laredo, in Texas. Bannon, che nel 2013 aveva aperto in Texas una redazione di Breitbart News per occuparsi della questione immigrazione, aveva lavorato per settimane con agenti di frontiera disposti ad aiutarlo nell’organizzazione del viaggio. E mentre gli interventi di Trump erano messi alla berlina dalla stampa e da molti dei suoi stessi colleghi repubblicani (“straordinariamente preoccupanti”, li definì Jeb Bush, mentre il presidente della Camera dei rappresentanti statunitense Paul Ryan si disse “disgustato”), questo non era ciò che stava più a cuore allo stesso candidato. Quando lasciò il Texas, Trump era schizzato al primo posto nei sondaggi tra gli elettori repubblicani delle primarie.
Ma tutto ciò era avvenuto più di un anno prima. Adesso, mentre uscivano i primi risultati dalle urne, Trump, in compagnia della moglie Melania, si trovava nel suo attico dorato alla Trump Tower che si affaccia sulla Fifth Avenue, e stava rimuginando su quanto accaduto, ben consapevole che erano passati mesi dall’ultima volta che aveva superato la Clinton in un sondaggio nazionale considerato affidabile. Quando i pezzi grossi responsabili della sua campagna elettorale si riunirono nella notte delle elezioni, ai piani bassi di quello stesso grattacielo, molti di essi pensavano che il loro capo avesse bisogno di un miracolo per vincere. La squadra di Trump aveva a disposizione tre diverse fonti per i sondaggi: la prima era interna, gestita dalla Conway e da altri tre sondaggisti repubblicani; poi c’erano le rilevazioni demoscopiche su larga scala condotti dalla TargetPoint, società del Partito repubblicano che forniva al comitato nazionale del partito studi mirati per segmenti specifici di utenti; infine un’altra serie di rilevazioni elaborate da Cambridge Analytica, struttura londinese specializzata in data science, arruolata durante la campagna elettorale per fornire un suo originale e sofisticato modello predittivo. Nessuno di loro prevedeva la vittoria.
All’esterno, la squadra di Trump salvava le apparenze attaccando senza pietà la Clinton e insistendo sul fatto che il loro uomo avrebbe vinto. All’interno però, dietro le quinte, alcuni consiglieri avevano già iniziato a posizionarsi per la lotta all’arma bianca che avrebbe immediatamente seguito la sconfitta. Il comitato nazionale repubblicano aveva convocato senza clamore un gruppo di cronisti politici di primo piano per una presentazione privata che avrebbe dovuto mostrare tutto ciò che aveva fatto per conto di Trump. Lo scopo di questo incontro segreto era, nel modo più assoluto, quello di discolparsi. Reince Priebus, il bistrattato presidente del comitato, e Sean Spicer, il suo infaticabile capo stratega, stavano inviando un messaggio fra le righe: “Ehi, la sconfitta di Trump non sarà colpa nostra. Sarà tutta opera sua e della sua squadra”. Nei giorni che precedettero il voto, Spicer incontrò i massimi dirigenti delle principali emittenti per rafforzare in prima persona lo stesso messaggio.
Le notizie di questi incontri giunsero all’orecchio di Trump e dei membri del suo entourage, molti dei quali guardavano con profondo sospetto, perfino con disprezzo, al comitato nazionale repubblicano, considerato la culla dell’establishment conservatore. Sebbene Spicer e Priebus si fossero esposti per difendere e sostenere pubblicamente Trump – a costo di compromettere la loro reputazione personale visto che molti repubblicani ormai li consideravano come dei servili collaborazionisti –, nella sala operativa del quartier generale di Trump si diffuse subito la voce che Priebus e Spicer erano stati visti impacchettare i loro effetti personali all’inizio della notte elettorale, come se già mettessero in conto una netta sconfitta.
In privato, perfino Bannon fu assalito dai dubbi per qualche momento. Al culmine del peggior scandalo che aveva investito Trump, dopo che il Washington Post aveva dato la notizia di una registrazione del programma televisivo Access Hollywood con i suoi commenti osceni sulle donne e su come gli piaceva “afferrarle per la fica”, Bannon aveva ammesso con un amico che Trump forse era finito. Eppure non si era lasciato abbattere, né era sembrato considerare l’eventualità di una sconfitta come una battuta d’arresto fatale per il movimento populista inteso in senso più ampio. “La nostra strategia di riserva” diceva a proposito della Clinton “è di colpirla così duramente che non possa comunque governare. Se prenderà il 43 per cento dei voti, non potrà rivendicare di avere un mandato popolare pieno”. Poi, mentre si autoconvinceva di questo compito, aggiungeva: “Il mio obiettivo è che l’8 novembre a chiunque sentirà il nome della Clinton venga da vomitare”.
Nelle settimane successive, Trump eseguì rigorosamente il suo compito, arrivando addirittura a definire la Clinton “corrotta” in sua presenza, in occasione di un pranzo di beneficenza bipartisan tenuto il 21 ottobre al quale partecipavano entrambi. Una settimana dopo, la decisione del direttore dell’FBI James Comey di riaprire l’indagine sul server personale di posta elettronica della candidata democratica le inferse un colpo perfino più grave. Passando da un comizio all’altro, Trump accentuò le sue critiche alla Clinton fino a raggiungere un livello quasi inaudito: “Un voto per Hillary è un voto per consegnare il nostro Paese alla corruzione pubblica, alle bustarelle e al clientelismo che minacciano la sopravvivenza del nostro stesso sistema costituzionale” tuonò in un raduno del 29 ottobre in Arizona. “Ciò che ci rende eccezionali è che siamo una nazione regolata da leggi e che siamo tutti uguali al cospetto di quelle leggi. La corruzione di Hillary distrugge il principio su cui è stata fondata la nostra nazione.” E Trump non si fermò qui. Nei discorsi e negli spot elettorali, veicolò la visione complottista del mondo propria di Bannon, lasciando intendere che la Clinton fosse parte di una rete oscura di corruzione morale e intellettuale che comprendeva l’intera struttura del potere globale: le banche, lo Stato, i media, i guardiani della cultura secolare, così come i giganti della finanza, compresi l’investitore miliardario George Soros, la presidente della Federal Reserve Janet Yellen e l’amministratore delegato di Goldman Sachs Lloyd Blankfein. “Si tratta di una struttura di potere globale che è responsabile delle decisioni economiche che hanno rapinato la nostra classe lavoratrice, hanno spogliato il nostro Paese della sua ricchezza, e messo quel denaro nelle tasche di una manciata di grandi società private e entità politiche” disse Trump in un controverso spot pubblicitario che la sua squadra tenne in serbo per l’immediata vigilia del voto. “L’unica cosa che può fermare questa macchina corrotta sei tu.” Le sinistre allusioni ai complotti finanziari internazionali, e il fatto che Soros, Yellen e Blankfein fossero tutti ebrei, fecero scattare un campanello d’allarme presso la Anti-Defamation League, il cui capo, Jonathan Greenblatt...

Indice dei contenuti

  1. Il diavolo
  2. Indice
  3. “Stiamo arrivando.” Steve Bannon e l’insurrezione europea. Prefazione all’edizione italiana
  4. Prefazione alla prima edizione
  5. Capitolo 1. “Servirebbe un miracolo”
  6. Capitolo 2. “Dov’è il mio Steve?”
  7. Capitolo 3. Bildungsroman
  8. Capitolo 4. “Un modo pericoloso di concepire il mondo”
  9. Capitolo 5. Nessuno costruisce muri come Trump
  10. Capitolo 6. L’alternativa (estremista) ai fratelli Koch
  11. Capitolo 7. Una valanga di inconscio maschile ferito e di aggressività
  12. Capitolo 8. “Il traffico [web] è una cosa assolutamente oscena!”
  13. Capitolo 9. “Populismo onesto”
  14. Capitolo 10. Bruciare tutto
  15. Capitolo 11. “L’FBI è venuta a conoscenza dell’esistenza di…”
  16. KALI YUGA. Post scriptum
  17. Ringraziamenti
  18. Il problema di cavalcare la tigre. Postfazione di Giovanni Orsina
  19. Note