Sulla strada per Trouville
3 giugno
Mio caro amico, caro Pécuchet,
Ecco Bouvard e Pécuchet! Eccoci sotto le sembianze di Monsieur Bouvard e Monsieur Pécuchet. Eccoci impicciati in una vicenda che non ha né principio né fine per noi che nascemmo senza poter conoscere l’epilogo dell’avventura che Monsieur Gustave Flaubert aveva inventato per noi. Nascemmo è vero, nascemmo comunque all’insegna della stupidità se nostro padre Gustave ci volle in carne e ossa quali protagonisti di una storia in cui egli pretese di evidenziare la stupidità del genere umano da cui era ineluttabilmente affascinato grazie alla sua arguta immoralità, all’impossibilità di asservirla alla ragione e all’intelletto, alla sua presenza soverchiante, arrogante e perentoria.
Mi chiedo sovente perché mai Gustave prese a ingannarci se sin dalla giovinezza era assai propenso a dar vita a personaggi come noi che fossero attorniati e sommersi dalle insulsaggini fra balorde idee correnti e frivole idee chic? Ricorda Pécuchet, ricorda quante volte le ho rammentato la lettera che Gustave scrisse al suo amico Ernest Chevalier il 1° gennaio 1831? Diceva la missiva: “Se vuoi associarti con me nello scrivere: bene!… e siccome c’è una signora che viene da papà e ci racconta sempre delle stupidaggini, io le scriverò”. Dunque bestialità infami sicché il padre nostro Gustave ebbe presto in animo di concederci lustro in uno dei suoi libri che doveva essere una vera e propria enciclopedia della stupidità moderna. Noi, invece e con certezza una volta creati, abbiamo voluto e vogliamo dar senso al semplice tentativo di abbracciare, attraverso le nostre investigazioni, le analisi e le scoperte, tutto lo scibile umano e tentare di allontanare la genia umana dalla stoltezza e dalla insulsaggine. Ci siamo riusciti?
Nostro padre Gustave coltivò, da sempre, la pretesa e la tenacia di osservare da vicino la stupidità, analizzarla e studiarla nei suoi aspetti più appariscenti, di giudicarla nelle sue manifestazioni più ambigue, di sbeffeggiarla al meglio e nelle opportunità più deprecabili allorché nulla poteva e avrebbe mai potuto contro il suo impavido imperversare. E prese così a frequentarla, con compiaciuto sarcasmo e umoristico dileggio, attraverso due poveri ma sconosciuti copisti come noi, due bischeri creati all’uopo, due onischi, due porcellini di terra indifesi ma infidi come scrisse a Monsieur Jules Duplan il 2 aprile del 1863?
Eccoci dunque, mio caro amico, sotto le sembianze di Monsieur Bouvard e Monsieur Pécuchet quali possibili investigatori in un’equivoca vicenda che potrebbe stupire per la propria insipida incongruenza se, da personaggi dimezzati perché mai definiti appieno, siamo obbligati, per ripagare un debito, a battere strade infide che devono attraversare romanzi già scritti e completati o meno, irti però di insoliti inganni e oscure macchinazioni dovute all’invidia per un certo nostro ragionevole ingegno e la contegnosa suscettibilità di altri personaggi: figli anch’essi di Gustave e dei suoi scritti, ma affatto dimezzati come noi.
È vero però, caro amico che, volendo, avremmo potuto disconoscere segni e attributi della nostra apparenza e disinteressarci di solleciti e d’ingiunzioni affinché ci impelagassimo in un’accurata investigazione in quanto la nostra è un’apparenza fittizia per cui le certezze del nostro appartenere alla realtà sono assai scarse se si escludono quelle concessaci dal tepore confortante di pagine sapidamente segnate e rimuginate dal tempo e da nostro padre Gustave.
Ci ritroviamo così, d’acchito e per prima cosa, a considerare il nostro destino, sfregiati e feriti da un futuro incerto. E poiché Gustave ci ha abbandonati in una avventura non rappresentata sino in fondo, ci pesano, oggigiorno e a ragione, il desiderio e la volontà di cercare uffici e caratteri adeguati alle nostre attese una volta compiuta la missione affidataci da Madame Caroline Commanville, nata Hamard e nipote scriteriata di Monsieur Gustave Flaubert. Pur anche per poter continuare a vivere, definitivamente e al meglio, nel silenzio di una campagna normanna, quella che attualmente ci ospita a Chavignolles, e qui rinnovare riti e notifiche quotidiane fors’anche per seguitare a compiacere lettori, editori e attori dei diritti d’autore. E guadagnarci così il nostro pane quotidiano sia pur in una realtà romanzata.
Ricorda come arrivammo a Chavignolles? Fu Gustave a scegliere il luogo come ebbe a scrivere a sua nipote Caroline il 24 giugno del 1874: farò dimorare Bouvard e Pécuchet tra la valle dell’Orne e quella dell’Auge, su un altopiano stupido, tra Caen e Falais: a Chavignolles appunto, in un podere di 38 ettari, in una casa con una grande cucina che comunica con una saletta, quindi un’anticamera e un salone al piano terra. Al primo piano quattro stanze che s’aprirono su un corridoio che si affaccia su un cortile. Accanto alla casa una rimessa, le cantine, la legnaia e il forno. Una casa bianca con balze gialle in rilievo circondata da un viale di carpini con le sue belle chiome allungate, le foglie ovali e appuntite con i margini seghettati, che in autunno, prima di staccarsi dai rami, assumono una colorazione giallo acceso, quasi un arancione. L’intera proprietà ci è costata, ricorda Pécuchet?, ben centoquantatremila franchi.
Da allora, da quando prendemmo possesso del casale a Chavignolles, molte cose sono cambiate e avremmo oggi da recriminare non poco sul nostro passato, sui segni lasciati dal nostro passaggio nel tempo. Ricorda il nostro giardino Pécuchet ? Noi ordimmo orribili cose, mio caro amico. Edificammo un giardino fra trame di generi e cose oscene: una tomba etrusca a rappresentare la melanconia accanto a un posticcio ponte di Rialto che doveva raffigurare il romanticismo, quindi una pagoda quale simbolo di ricercato esotismo, poi rocce e alberi divelti come manifestazione di un insulso catastrofismo. A completare poi quel nostro stravagante museo ecco una accozzaglia di minutaglie bislacche: da una trave da forca a un beverino, da un catino a un’alabarda e ancora e ancora senza sosta o pausa a inventarci ragioni per possedere miscellanee di eterogenei assortimenti e avanzi d’ogni genere.
Alla fine siamo riusciti, bazzicando il determinismo volteriano con slancio e risolutezza, a sviluppare una facoltà degna di maliziosa compassione: riconoscere la nostra trascorsa stupidità e quella del genere umano, e ribadire così la volontà di non volerla e doverla sopportare. Rinsavimmo? Io credo che ci siamo soltanto dati un contegno in attesa che Gustave desse una svolta alla nostra vita. Nulla è accaduto. Nulla accadrà ormai. Cogliamo dunque ciò che ci si offre e prendiamo a praticare, con buona lena e auspici favorevoli, questa nuova arte che Madame Caroline ci invita a frequentare.
Dunque adoperiamoci al meglio per portare avanti una missione investigativa come ci notifica e intima Madame Caroline: una mandante impertinente di un inusuale manoscritto e di un beduino latore del manoscritto medesimo su cui abbiamo il compito di indagare. È vero: Madame ci induce a compiere atti e gesti alquanto riprovevoli, e ci rende partecipe di vicende personali allorché ha avuto l’impudenza e la determinazione di concederci, in lettura e a esami sinottici uno scritto di dubbia fattura e di controversa veridicità.
Non so in realtà, mio caro amico, come considerare le perentorie istanze di Madame Commanville. O meglio: non tanto le istanze quanto Madame medesima. Ho il sospetto, dunque, che quella stupidità di cui voleva farsi beffa Gustave lo aveva irrimediabilmente serrato e quasi sedotto se aveva da intrattenersi, con continuità e affetto, con Madame la nipote. Madame Caroline, a interpretare il suo agire riguardo questo tal manoscritto, è stata, a scrupolo e coscienza, di futile arroganza mancando, credo, di una certa intelligenza creativa. Appare inoltre appiattita in una stupidità corrente e assai diffusa: la stessa di cui Gustave percepiva come insania della società. Un giudizio spietato e malvagio, mio caro Pécuchet? La stupidità, a sentire il padre nostro Gustave e condividendone l’asserto, assai consueta fra quella borghesia ferita da una stolta e biasimevole alterigia, da un crogiolante e passato benessere, da una frastornante eredità intellettuale: affatto meritata.
Madame Caroline Commanville, nata Hamard e nipote scriteriata di Monsieur Gustave Flaubert ci intima, dunque, di rispettare codici e condotte or che le dobbiamo le nostre nuove partiture esistenziali, or che le dobbiamo crediti per inedite responsabilità che ci ha commissionato e affidato. I percorsi di vita, in tali frangenti e tempi, sono verifiche affatto aleatorie, sono in vero ingiunzioni che possiamo e dobbiamo adempiere a nostro modo, a nostro beneficio, a nostra discrezione.
Devo confessarglielo, amico mio: ho diffidato di Madame Caroline e, sin da principio, del manoscritto che ci ha inviato, del beduino che lo ha accompagnato: un beduino, tal Harel Bey, che, pur nel disagio snaturato di una menomazione così affliggente qual’è la cecità, ha preso sollecito e irriguardoso a spadroneggiare nella nostra casa sino all’impertinenza, alla sconvenienza, all’arbitrio. Soprattutto con lei, gentile amico, che è cedevole in carità, ingenuità e pigrizia.
Per tale dire credo di aver opportunamente agito nell’imporle la mia perentoria risolutezza nel contravvenire impunemente le memorie di Madame, nel disegnare questo viaggio della sconvenienza, della finzione, delle cerimonie e delle litanie in compagnia di questo beduino che, pur offertosi a noi con credenziali da ambasciatore, sembrava persona partorita dal remoto silenzio di un’ispirazione insensata, dalle idee bislacche di uno scrittore o meglio dall’insipienza dello scritto lacunoso e incompiuto di uno scribacchino mendace, e che Madame ci chiedeva di lasciarlo alle sue preziose cure.
Devo lecitamente riscontrare che l’arabo mi ha affascinato, è vero, con i suoi abiti variopinti, con il suo odore da uomo del basso Nilo, con la sua cecità da Argo e da guardiano mentore, con i suoi racconti perduti in ricordi di memorie apparentemente inesistenti, appuntate qua e là in note approssimative che rivelavano la mano di qualche scriteriato narratore che, ormai alla fine dei suoi giorni, aveva creduto di poter liberare dal giogo di una pagina o di un rigo personaggi che aveva solo tratteggiato in fretta, in immagini sfocate e approssimative.
D’acchito però, per alcuni aspetti e trasporti, mi sono convinto che il beduino fosse ...