Breve storia di Venezia
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Breve storia di Venezia

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La storia di Venezia come città-stato è lunga quasi mille anni. Questo libro, che continua la tradizione delle Brevi storie delle città italiane, rappresenta una breve ma completa sintesi delle sue vicende storiche, dalle antichissime origini ai giorni nostri.
Il volume, che ha raggiunto la quinta ristampa, appena realizzata, è stato rinnovato anche nella veste grafica presentando una nuova copertina.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788863153798
Argomento
Historia
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breve
storia
di venezia
Gherardo Ortalli
Giovanni scarabello
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4
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© Copyright 1990 by Pacini Editore S.p.A.
ISBN 978-88-6315-379-8
In copertina:
Veduta del Cortile del Vescovato, disegno di Jean Louis Des Préz 1780 circa (Archivio Congedo, Galatina)
Realizzazione eBook:
Hello Book - http://www.hellobook.it
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e-mail [email protected] e sito web http://www.aidro.org
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La «Venetia» prima di Venezia
Per tutti noi oggi Venezia si associa con forza all’idea stessa di città, e si tende a vedervi l’espressione forse più alta di quanto può avvicinarsi a un modello di struttura urbana ideale. Ma nonostante questo, nonostante i nostri convincimenti correnti e le sue qualità intrinseche, quella di Venezia rimane per lungo tempo la storia di una città che non c’è. «Venetia», infatti, insieme all’Istria era soltanto una delle regioni (la decima) in cui l’imperatore Augusto aveva diviso il territorio italico. Da quella grande unità veneta originaria, compresa tra le Alpi e il mare Adriatico, tra l’Istria e il fiume Oglio (e poi addirittura l’Adda) si sarebbe venuta distinguendo una seconda Venezia, non più terrafermiera ma lagunare, composta specialmente da isole e lidi sparsi tra le foci dell’Isonso e del Po: da Grado a Cavarzere, come avrebbero poi precisato per lunghi secoli i documenti della Serenissima Repubblica.
Ad avviare il processo per cui dall’antica «Venetia» continentale veniva differenziandosi la nuova «Venetia» marittima erano stati fattori esterni, legati alle drammatiche vicende seguite all’invasione longobarda rovesciatasi nel 569 su un’Italia bizantina impreparata a contenerla. Già attorno alla metà del secolo V, con le scorrerie degli Unni guidati da Attila (e prima ancora ai tempi delle incursioni visigote), le lagune avevano offerto un rifugio passabilmente sicuro alle popolazioni di terraferma che fuggivano di fronte ad un inarrestabile nemico.
In quelle congiunture, tuttavia, non si era verificato un effettivo cambiamento degli equilibri nell’area e, soprattutto, le lagune non avevano conosciuto uno stabile incremento di popolazioni e funzioni. In fondo, la stessa tempesta attilana era passata abbastanza rapidamente e le tragiche distruzioni o le razzie non si accompagnarono a cambiamenti duraturi nella zona. Le genti profughe in laguna, infatti, avevano potuto rientrare alle sedi di partenza, senza che fosse davvero impedita la ripresa dei vecchi modi di vita.
Le cose sarebbero andate diversamente con i Longobardi. Stavolta si trattava della migrazione violenta di un intero popolo che veniva in Italia ben deciso a restarci, sicché per le genti che dalle città di terraferma- da Padova o da Altino, fino a Oderzo, Concordia o Aquileia- si ritiravano in laguna in attesa che la burrasca finisse, non si sarebbe riaperta la via del ritorno. Il primo passo nella costruzione di una diversa Venezia, i primi atti fondativi di una situazione nuova, destinata a rivoluzionare gli equilibri di tutta l’area sui tempi lunghi, ebbero dunque luogo con l’animo del profugo, ossia con la mente rivolta ad un passato che non si ritiene finito e a cui si intende tornare non appena trascorsa l’emergenza. In sostanza, la difesa del vecchio, del mondo prelongobardo che ci si ostinò a considerare un modello plausibile anche quando era ormai morto, divenne motivo per la nascita del nuovo: la civiltà e lo stato veneziano, con quanto di eversivo e innovatore avrebbe comportato. Del resto non si tratta di certo del solo apparente paradosso che la vicenda di Venezia saprà proporci.
La presenza longobarda, che anziché indebolirsi veniva a poco a poco erodendo l’area rimasta in mano bizantina, avrebbe finito col tempo per giungere ai margini delle lagune completando la trasformazione dell’antica Venezia di terraferma. Ma questa seconda, nuova Venezia marittima non era ancora una città e si sarebbe dovuto attendere il secolo IX perché si potesse finalmente individuarla nei suoi primi essenziali connotati.
La leggenda della nascita dal nulla
Quale fosse la situazione di partenza e come si presentassero le zone in cui avrebbe preso corpo la nuova Venezia, ce lo ricorda la lettera che nel 537-538 il prefetto del pretorio, Cassiodoro, inviava ai tribuni marittimi locali. Bisognava organizzare un rapido trasporto di derrate dall’Istria alla capitale Ravenna, ma l’altissimo funzionario (in Italia regnava allora il goto Vitige) non si limitava ad una secca nota di carattere burocratico; costruiva invece un testo di notevole qualità letteraria, dilungandosi in un’accurata descrizione che per certi versi rimane ancora attuale.
Ci dice di uomini abituati a spazi infiniti, in grado di muoversi anche mentre la tempesta imperversa sul mare, utilizzando quella rete di percorsi lagunari per cui le imbarcazioni sembrano quasi scivolare sui prati quando isole e barene nascondono, a chi guarda, l’alveo dei canali ma non lo scafo che naviga. L’alternarsi delle maree sommerge e poi scopre continuamente il suolo. Le case, sparse, costruite su un terreno consolidato da fascine di flessibili vimini, sembrano quasi i nidi di uccelli palustri, e alle pareti sono legate le barche, quasi fossero animali domestici. La povertà convive in uguaglianza alla ricchezza: un identico cibo le nutre; una simile casa le ospita; non c’è l’invidia per le glorie familiari altrui. L’unica abbondanza è il pesce e, senza falci ed aratri, con il sale ci si procura quanto d’altro non si produce.
La descrizione di Cassiodoro indubbiamente paga il pedaggio di una studiata retorica. Il clima di virtuosa uguaglianza e di pace sociale, l’esaltazione di ritmi di vita semplici ed operosi rispondono a modelli stereotipi correnti, ma dietro vi cogliamo le realtà del tempo. Su terreni che richiedono un costante sforzo di consolidamento, in abitazioni vallive in genere piuttosto semplici e sparse, si era venuta organizzando una presenza operosa di persone impegnate nell’attività marinara, nella pesca e nello sfruttamento delle saline. L’organizzazione sociale doveva essere nel complesso abbastanza omogenea su livelli piuttosto bassi, senza che ciò impedisse, tuttavia, presenze di più alta qualità. In ogni caso l’area era pienamente inserita nel sistema organizzativo (politico e territoriale) di tradizione romana e non era affatto disabitata o deserta, come avrebbe poi preteso il mito delle origini di Venezia.
Che fosse nata dal nulla, come Venere dalle acque del mare, ad opera di libere genti che fuggivano dai barbari invasori su isole vuote e selvagge, è un’invenzione costruita per ragioni molto concrete, con un’abilità tale per cui ancora oggi quella leggenda è correntemente accettata come la verità. Ma i Veneziani (fino ai massimi vertici dello stato) avevano ogni interesse ad accreditare un racconto del genere. Sostenere che i luoghi in cui Venezia era nata non conoscevano alcuna precedente forma di insediamento e di vita sociale equivaleva ad affermarne l’originaria indipendenza. Se non c’era nulla, non c’erano nemmeno subordinazioni e servitù, sicché il mito delle origini dal nulla rende plausibile e porta con sé quello, politicamente assai più rilevante, dell’originaria libertà di Venezia.
Il racconto leggendario era, dunque, la base e il riflesso di un programma ideologico e politico destinato a impedire ogni pretesa o rivendicazione da parte di qualsiasi autorità esterna.
Le basi della nuova Venezia
Anche se gli spazi lagunari non erano deserti e selvaggi, come pretende il mito delle origini dal nulla, il processo avviato dall’invasione longobarda risultava comunque profondamente innovativo, destinato a sconvolgere gli assetti di tutto lo scacchiere alto-adriatico, e quell’area di lagune, sicuramente periferica e marginale in età romana (e che fosse poveramente oppure splendidamente marginale non cambia la sostanza delle cose), avrebbe assunto una sua peculiare centralità. In altre parole, al di fuori del mito, la vera nascita di Venezia è l’esito di un percorso plurisecolare di lento progresso verso nuovi equilibri, avviatosi, come si è già detto, nel 569 con il passaggio in laguna di genti che fuggivano dal pericolo longobardo.
Il trasferimento interessava allora tutte le fasce della società terrafermiera e lo spostamento avveniva conservando l’articolazione propria delle zone di partenza. Non erano dunque profughi senza nulla che si trasportavano su terre nuove per costruire una nuova società; erano invece persone di diverso grado che si portavano dietro diritti, funzioni, ruoli sociali. E anzitutto c’erano gli esponenti della gerarchia ecclesiastica, a partire dal suo massimo rappresentante, il patriarca di Aquileia rifugiatosi a Grado recando con sé i tesori della sua Chiesa, non soltanto quelli materiali ma anche quelli spirituali, cominciando in primo luogo dalle preziose reliquie.
Il flusso migratorio si sarebbe mantenuto a lungo, rinnovandosi a mano a mano che i Longobardi toglievano ai Bizantini nuove fasce di territorio: fino al 639, quando con la caduta di Oderzo, sede fino ad allora dell’amministrazione civile e militare della provincia, il vecchio sistema difensivo bizantino si sfasciava e quasi tutta la terraferma veneta era ormai perduta per l’impero. Siamo allora ad un passaggio decisivo nell’individuazione della nuova Venezia marittima. La funzione di capitale dell’area passava adesso a Cittanova/Eraclea, ai margini della laguna, mentre gli antichi centri municipali romani (come Aquileia o Concordia o Altino) cadevano in una crisi gravissima, fino a sparire.
Quali fossero i mutamenti in atto può testimoniarcelo la lapide incisa a memoria della dedicazione della nuova chiesa di Santa Maria di Torcello, ancora oggi visibile nella basilica: è datata a quel 639 in cui cadeva Oderzo e come fondatori vi sono nominate le massime autorità dell’Italia bizantina, ossia l’esarco, poi il «magister militum» che comandava per conto dell’impero sulla Venezia e, infine, quel vescovo Mauro che, fuggito da Altino in laguna, è ricordato dalla tradizione come primo vescovo torcellano. L’autorità laica e quella ecclesiastica erano impegnate insieme in un atto, di grande significato morale, che potenziava la riorganizzazione della vita in area lagunare proprio negli stessi mesi in cui cadevano gli ultimi baluardi effettivi in terraferma.
Nel segno di Bisanzio, verso l’autonomia
Imprendibile per i Longobardi, la nuova Venezia marittima continuava a far parte dell’impero bizantino come provincia dipendente dall’esarco insediato a Ravenna che, a sua volta, faceva capo direttamente a Costantinopoli. Nel «magister militum», posto alla testa della provincia lagunare, si raccoglievano le funzioni tanto civili che militari, con una preminenza di queste ultime, e da lui dipendevano i funzionari a cui erano delegati i poteri in ambito locale, ossia i tribuni. Proprio il ceto tribunizio, al quale la base patrimoniale (specialmente con i possedimenti fondiari) assicurava una preminenza sociale e l’accesso alle cariche pubbliche più prestigiose, costituiva un’aristocrazia di fatto che, insieme alla gerarchia ecclesiastica, avrebbe a lungo fornito l’impalcatura portante dell’organizzazione pubblica della Venezia.
Tutto naturalmente procedeva nel segno di Bisanzio, a cui ci si conservava ostinatamente fedeli. Peraltro la congiuntura assai difficile aveva introdotto alcuni elementi di forte novità. Se, infatti, i bisogni della guerra mai risolta con i Longobardi avevano fissato la predominanza del ruolo militare sul civile, al punto che si può correttamente parlare di una sorta di militarizzazione della società lagunare, contestualmente le difficoltà che l’impero- pressato su tanti fronti- trovava nell’intervenire direttamente in aree che si facevano sempre più lontane, inducevano Bisanzio a contare in modo crescente sulle capacità operative locali. Ma il fatto che, per esempio, in difesa della laguna non si potessero inviare contingenti di truppe dalla capitale e si dovesse invece favorire l’iniziativa dei sudditi, incoraggiava lo sviluppo di tendenze autonomistiche sempre più robuste.
Si è voluto vedere, spesso ingenuamente, nella figura del doge il simbolo dell’indipendenza da Bisanzio, partendo da quel mitico primo doge Paulicio che circa nel 713-716 avrebbe preso il posto dei «magistri militum» bizantini. In realtà anche quella del doge (ossia del «dux» o duca) è una carica bizantina e non sta di per sé a comprovare nessuna acquisita indipendenza. Piuttosto, un passo significativo sulla strada dell’autonomia sarebbe stato compiuto al tempo della contesa iconoclastica, quando cioè l’imperatore bizantino Leone III Isaurico condannò il culto delle immagini, prendendo, in materia religiosa, posizioni duramente contestate dal papa. Nel conflitto che perciò si apriva fra Roma e Bisanzio, nel 726-727, i contraccolpi in Italia furono seri e anche le truppe della Venezia e della Pentapoli (circa le odierne Marche) insorgevano, schierandosi a fianco del pontefice e rifiutando l’autorità esarcale, e si ponevano, in quella evenienza, sotto l’autorità di duchi scelti senza alcun intervento del potere centrale. Allora, con quel pronunciamento militare e l’elezione del duca Orso, Venezia indicava per la prima volta autonomamente chi dovesse guidarla, ma ciò non significava affatto un’uscita dalla sfera bizantina. Anzi. Passata la congiuntura e ritrovato l’accordo, Orso manteneva la propria funzione col riconoscimento superiore e, del resto, con il re longobardo Liutprando che premeva minaccioso ai confini, non ci si potevano permettere rotture pericolose. Ma da quel momento in poi (a parte il breve ritorno ai «magistri militum» dal 737 al 742 circa) il doge verrà in pratica ad essere espresso localmente, sia pure fatto salvo il riconoscimento della sua carica da parte della sovrana Costantinopoli.
Che poi Venezia stesse sempre più allentando i vincoli della sua dipendenza politica non era un problema troppo grosso per l’impero orientale. In fondo la cosa andava bene per gli uni e per gli altri. Per la società lagunare dipendere da un alto signore sempre più lontano e sempre meno in grado di interferire concretamente nella vita locale voleva dire porsi al riparo da altre dipendenze, più vicine e ben altrimenti pericolose (si trattasse dei Longobardi o, più tardi, dei Franchi o degli imperatori Sassoni); voleva dire anche restare parte integrante di un sistema economico come quello bizantino, ricco di straordinarie opportunità e aperture rispetto ad un occidente europeo che, a paragone, risultava a tutti gli effetti depresso e sottosviluppato. Quanto a Bisanzio, il particolare legame tenuto in vita con le lagune garantiva una presenza in zone di grande rilievo economico e strategico (si ricordi: l’alto Adriatico è il punto in cui le acque del bacino mediterraneo si spingono più a nord verso il cuore dell’Europa continentale); in sostanza, assicurava un ruolo politico altrimenti impossibile per i Bizantini, pressati da più urgenti necessità su altri scacchieri.
Tutto ciò si sarebbe reso più evidente dopo il 751, quando re Astolfo con i suoi Longobardi entrava in Ravenna conquistata. L’esarco era fatto prigioniero e tutto il sistema di potere bizantino in Italia centro-settentrionale crollava senza speranze di rivincita; a quel punto il cammino di Venezia verso l’autonomia subiva un’inevitabile accelerazione, ma i problemi non erano affatto finiti. Si affacciavano altri pericolosi attori.
Dopo i Longobardi, i Franchi
Caduto l’esarcato, di fronte ai Longobardi, le cui pretese egemoniche sull’Italia erano ormai vicine a realizzarsi, il pontefice, valutando realisticamente l’inutilità di contare su una ripresa bizantina, aveva istituito una nuova salda alleanza, collegandosi con il regno dei Franchi, e nel 7...

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  1. La «Venetia» prima di Venezia
  2. La leggenda della nascita dal nulla