L'anello dal paradiso
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L'anello dal Paradiso" è la prima opera di Luca Piero Melani ed è molto liberamente ispirata a vicende autobiografiche. Il personaggio di Gianni è tratto dalla reale figura dello zio materno disgraziatamente annegato a Marina di Pisa nel primo Dopoguerra; mentre la voce narrante è proprio quella di un giovane "medico condotto" di provincia alle prime armi, che si trova travolto, tramite i suoi stessi pazienti, nel caleidoscopico, misterioso e a volte tragico sentire e agire umano. La malattia del corpo diventa una finestra da cui l'autore osserva e descrive l'animo dei suoi personaggi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788863156942
Capitolo 1
«Ah. Giampaolo non c’è?» esclamò delusa la signora affacciandosi alla porta dell’ambulatorio.
«No, signora, mi dispiace. Il dott. Di Dio sarà assente per diverso tempo e la Asl ha nominato me come suo sostituto. Se posso esserle utile, dica pure» risposi io con una frase che avrei poi dovuto ripetere mille volte in quei giorni. La piccola signora, dimessa e ben curata, non volle offendermi ed entrò, ma si capiva chiaramente quanto avesse preferito trattare col suo abituale medico di famiglia, ricoverato invece per un brutto guaio polmonare. «Beh, lei dottore non mi conosce, ma Giampaolo lo sa: io soffro di pressione e prendo queste medicine» – cominciò appoggiando sulla scrivania un paio di scatoline vuote – «Se intanto me le potesse segnare poi un giorno che ho tempo vengo con calma e le spiego tutti i miei mali». Sfoderai uno dei miei migliori sorrisi e le prescrissi i farmaci, convinto però che la mancanza di tempo fosse una scusa: una donna anziana e pensionata trova sempre il tempo che vuole, soprattutto quando deve elencare le sue malattie. Evidentemente doveva ancora metabolizzare l’idea di dover interfacciarsi con un nuovo dottore. Un aspetto che avevo largamente preventivato al momento di accettare l’incarico. La telefonata del funzionario Asl, una settimana prima, mi aveva messo in agitazione: «Dottor Meoni, la chiamo dall’Ufficio Convenzioni: sarebbe disposto ad accettare un incarico di Medicina Generale nel comune di Montesanto per un periodo non inferiore ai sei mesi?. Il titolare, dott. Giampaolo Di Dio, dovrà operarsi e ha già mandato il certificato di malattia. Lei inizierebbe lunedì prossimo, due dicembre».
«Posso risponderle tra un paio di giorni?» avevo provato a temporeggiare, sapendo che un eventuale sì avrebbe reso incompatibile l’altra mia attuale occupazione in un centro d’analisi, lavoro poco gratificante e poco remunerato ma fisso. «Domattina al massimo, dottore» – aveva risposto il funzionario – «Sa, i giorni passano e se lei rifiuta devo continuare a scorrere la graduatoria dei suoi colleghi per coprire la zona: non possiamo certo lasciare millecinquecento pazienti senza medico!» Già; non potevamo! Dopo una notte insonne e tormentata ad uso Innominato di Manzoni, avevo accettato. Per tre ragioni: fuggire dalla noia dei prelievi di sangue, provare a diventare medico di famiglia, il miraggio per cui avevo scelto medicina, e infine tornare nel paese natale di mia madre, Montesanto della Croce.
Adesso la signora Maria seduta di fronte a me somigliava a mamma: stessa permanente, stessi occhiali a mezzaluna, stessa sagacia contadina. «Grazie, dottor Meoni» – concluse leggendo il mio nome sulla ricetta. Poi si toccò la tempia con l’indice – «Andrea Meoni? Mi scusi dottore, ma lei non è per caso il bimbo di Lorenza e Antonio?». Mi parve inutile negarglielo: «Non mi faccia tanta pubblicità però, signora, mi raccomando». Le risposi, certo che non mi avrebbe dato retta. Il terzo motivo del mio sì, rivedere dopo tanti anni il paese di mamma, era sinceramente ingombrante: nonno Cecco era stato il quarto di sei fratelli e nonna Daria la seconda di quattro, per cui mezza Montesanto pullulava di miei parenti; l’altra mezza di conoscenti e affini. Di Lorenza Chiti, terzogenita dei furono Francesco detto Cecco e Daria, di come si fosse sposata con Antonio Meoni nei primi anni ’60, uno dei pochi medici di allora, di come avessero vissuto da ricchi nella vicina città e di quanti figli avessero avuto, ogni Montino era oggi perfettamente edotto. Figuriamoci la signora Maria Pardossi, vecchia parrucchiera del paese con un innato talento per il gossip, raffinato da tanti anni di onorati chiacchiericci in salone. «Sicché te sei Andrea, il figliolo di mezzo. Sei nato mi pare nel ’65» sciorinò la vecchietta, per niente frettolosa adesso. «Nel ’66. Ma di gennaio. Ha sbagliato di poco, Maria». Ribattei sempre sorridendo; capii che il mio piano di passare inosservato sarebbe tragicamente fallito e che avrei dovuto render conto ad ogni prossimo paziente degli ultimi venti anni di vita di mia madre trascorsi lontano da lì. Proprio ciò che fino al giorno prima avevo giurato e spergiurato di voler evitare: «Laddove non si vuole andare si corre, ragazzi, ricordatevelo!» ci ammoniva sempre il professore di lettere al liceo. Parole sante! Mi strinsi nelle spalle e presi a raccontare con dovizia di particolari tutto il raccontabile su mamma, babbo, sui miei fratelli e su di me: vite, morti e miracoli di tutti. Se avessi spifferato ogni dettaglio a Maria, una delle Montine più pettegole di sempre, forse ci avrebbe pensato lei a ragguagliare il resto del paese, sperai, e mi sarei risparmiato di dover ricominciare daccapo ad ogni visita. Mi illudevo: addestrata da anni di negozio a centellinare le notizie per invogliare le sue clienti a ritornare, la ex pettinatrice sparpagliò sì la voce della mia presenza a Montesanto, ma a piccole dosi, a sorsi, cosicché piuttosto che placare la sete di curiosità la alimentò e almeno un rappresentante a famiglia si prefisse di farmi visita appena possibile, sia per informarsi e mandare i saluti alla cara Lorenza, sia, già che c’era, per farsi misurare la pressione. I giorni seguenti videro un tripudio di folla in sala d’attesa, come non se n’era mai vista nello studio del Di Dio, nemmeno ai tempi dell’influenza cinese dell’85.
Finito l’ambulatorio iniziavo il giro delle visite domiciliari, secondo la lista giornaliera che la signora Luciana, moglie di Giampaolo, mi preparava accuratamente con numeri di telefono ed indirizzi particolareggiati, lavoro indispensabile per orientarmi nei meandri di un territorio vasto e rurale, metà in piano e metà sulle pendici del monte, dove la nomenclatura ufficiale delle strade risultava assai confusa. I tom tom nel 1992 erano appannaggio di pochi facoltosi eletti e i familiari del malato, gentilissimi, si offrivano spesso di accompagnarmi con la loro auto o di venirmi incontro per mostrarmi la via, ma le indicazioni della Luciana bastavano quasi sempre a raggiungere la casa senza ulteriori aiuti. In debito per avermi chiamato a domicilio in zone così disagiate e nascoste, i parenti si sentivano allora in dovere di offrirmi mai denaro, ma sempre prodotti della terra insieme all’immancabile bicchierino di liquore o di caffè corretto. Così la sera tornavo a casa rintontito dai mille grappini che non potevo rifiutare e che accettavo volentieri anche per sciogliere la tensione: fino alla soglia della pensione la paura di sbagliare affianca il medico sul letto di ogni paziente e in quel dicembre 1992 mi attanagliava da togliermi il fiato, fresco di laurea com’ero. Guidando a stento sulla via del ritorno tra i fumi dell’alcool e della stanchezza ripassavo i casi più difficili e i volti di quanti avessero mandato i saluti a mamma. «Che meraviglia di cavoli»; «Perbacco quante uova»; «Mamma mia, un coniglio intero!» e con esclamazioni simili mi accoglieva lei ogni sera, querula di notizie su chi fosse stato a omaggiarmi così e sulla sorte dei propri congiunti, completamente inutile nel darmi una mano a trasportare tutti quei colli. Anzi, d’intralcio: «Mamma, fammi scaricare e dammi il tempo di una doccia, poi ti spiego tutto!» Sbottavo immancabilmente ogni giorno, piuttosto scocciato.
Mia madre, Lorenza Chiti, era nata a Montesanto della Croce il 10 agosto del 1931, assumendo direttamente il nome del santo del giorno, Lorenzo appunto. Ultima di tre figli, aveva seguito il padre, trasferitosi in città nel primo dopoguerra come titolare di una piccola ditta edile allora convenzionata con la Sovrintendenza ai Beni Culturali, ma non se l’era passata per niente bene; le commesse per l’impresa di mio nonno scarseggiavano e le bocche da sfamare reclamavano tanto pane, soprattutto quelle dei due figli maschi. La tragica perdita del fratello più piccolo, Giovanni, annegato in mare poco più che ventenne, e la conseguente angoscia di mia nonna che lo pianse due anni per poi morirne anch’essa, segnarono l’adolescenza di Lorenza cui fu imposto il lutto e il divieto di svagarsi fino alla maggiore età, all’epoca fissata a 21 anni. Finalmente autorizzata a lasciare la camera e le lezioni di cucito, unica occupazione permessa, conobbe mio padre, nato umile, da un meccanico di auto, ma laureatosi medico tra i pochi degli anni Sessanta. Lo sposò la notte di Natale del 1962 e gli partorì prima mio fratello Giovanni, così chiamato in onore dello zio scomparso, poi me e per ultima mia sorella Teresa, alla nascita della quale decise di dedicarsi completamente alla cura della famiglia e di accantonare le sue belle speranze di ergersi a rinomata stilista di moda. In quelle ultime settimane del ’92 Lorenza, ultra sessantenne, andava rivivendo le sue radici attraverso i nomi e i racconti che io le riportavo dalla sua terra natale. Sparecchiata la tavola, assicuratasi del sonno degli altri, non vedeva l’ora di rimanere sola con me a rinverdire i suoi ricordi, costringendomi puntualmente a fare le ore piccole tra storie, facce e aneddoti che dovevo riferirle e che lei mi arricchiva con particolari e sfumature impensabili, patrimonio culturale privato di una Montina D.O.C. La notte del 13 dicembre la nostra ennesima conversazione notturna si interruppe troppo bruscamente per essere veramente colpa del sonno, come sostenne lei. Un nome l’aveva turbata: «Pierluigi Coli? Ma non abitava all’estero?» – sobbalzò quando lo menzionai – «Quando è tornato? Dove l’hai visto?» aveva incalzato. Ma subito dopo, scrollata la testa come per scacciare un pensiero fastidioso, non aveva atteso risposte e si era subito congedata, insolitamente presto rispetto all’ora usuale. «Beh, si è fatto tardi e stasera ho parecchio sonno, Andreino. Vado a letto. Mi racconterai poi. Buonanotte amore». Mi chiama “amore” ancora adesso che ho cinquant’anni, figuriamoci allora a venticinque! Fatto sta che quella sua fretta di troncare m’insospettì sebbene, con gli elementi in mio possesso, non riuscissi a motivarla: non mi pareva che il signor Pierluigi potesse nascondere misteri o segreti particolarmente fastidiosi per mia madre. Lo avevo incontrato poco prima: un settantenne molto elegante e benestante a giudicare dalle firme sui vestiti. Quel giorno ansimavo più in ritardo del solito, visto che avevo voluto a tutti i costi non perdermi l’annuale saluto accademico che il Magnifico Rettore porge a tutti i laureati il giorno di Santa Lucia: la mattina era filata via nel cortile dell’Ospedale tra saluti con gli amici-colleghi e il buffet. Così l’ambulatorio era slittato di un’oretta e mi ero attardato fino a sera. Lui sembrava che mi avesse spiato: era apparso improvvisamente, con un tempismo eccezionale, sul finire dell’orario, verso le 20, proprio quando l’ultima signora se n’era andata e io ormai stavo chiudendo la porta dello studio. Si era presentato con una cassa di cachi rossi lucenti e profumati, da acquolina, me li aveva porti e: «Mi scusi, dottore» – aveva mormorato timidissimo – «sono Pierluigi Coli e … beh vedo che sta uscendo e non la importunerò con i miei banali malanni. Intanto vorrei che accettasse questi frutti; sa, sono dei miei alberi migliori». Con le braccia occupate dalla cassetta avevo cercato di non apparire scortese e mi ero offerto di visitarlo comunque, ma lui si era fermamente rifiutato: «No, no, no. Non se ne parla. Tornerò domani, oppure un altro giorno. Mi interessava solo offrirle i cachi: ricordo quanto Lorenza ne fosse ghiotta, una volta; spero che lei, dottore, somigli nei gusti a sua madre. Me la saluti. Davvero di cuore. Buonasera». Aveva concluso, andandosene via così in fretta da impedirmi di replicare. Al fatto che i Montini gareggiassero tra loro nel mostrarsi profondi conoscitori miei e di tutto il mio parentado ormai ero abituato; ma quell’intervento, riletto alla luce della reazione infastidita di mamma, mi dette da pensare. Perché il Coli aveva sentito il bisogno di presentarsi a fine giornata, “a luci spente”, quasi in segreto, solamente per consegnare i frutti preferiti di mia madre? Perché lei se ne era stizzita? La soluzione più ovvia era quella più semplice e cioè che tra loro ci fosse stato del tenero in giovane età. Però differivano di otto anni, forse troppi per un proto-adolescenziale. Non mi risultava inoltre che mamma avesse avuto altri fidanzatini prima di conoscere babbo; anzi, spesso lamentava di come ai suoi tempi le ragazze non potessero vivere esperienze prima del matrimonio, bollate altrimenti quali donne di malaffare. Che il Coli rientrasse nel novero dei suoi tanti “corteggiatori”, come mamma chiama i vari pretendenti che vanta numerosi? Ma altri ne aveva re-incontrati, anche con me presente, e mai l’avevo vista turbata come quella notte al nome di Pierluigi Coli. Dunque non poteva essere uno dei soliti spasimanti: chi era allora? Me ne dimenticai per un bel po’ di tempo, distratto dall’epidemia di influenza che da metà dicembre a fine febbraio falcidiò la popolazione e le mie energie, già peraltro minate dall’insicurezza delle prime armi e dalla carenza di sonno. Mi capitò di incontrare il Coli un paio di volte, durante le quali però non ebbi modo né voglia di approfondire la questione; la prima volta lo rividi all’ambulatorio, poco dopo la sera dei cachi, quando venne a farsi prescrivere psicofarmaci antidepressivi che assumeva fin «dall’autunno del ’48, dopo la disgrazia» mi confessò. Pensai a un incidente, vista la leggera zoppia che lo affliggeva, e non feci domande; la sala d’attesa era gremita e risuonavano tanti colpi di tosse e starnuti quanti alla Messa in Duomo la notte di Natale, per cui fui contento di sbrigarmi. La seconda volta cadde anche lui vittima del virus e mi toccò fargli visita a casa, in via Statale del Valico numero 143. Abitava in un vecchio cascinale enorme che era stato ben ristrutturato e abbellito con arredamento rustico e infissi in rovere scuro. Dalla cucina, quadrata, con piano cottura e acquaio in marmo di Carrara, si accedeva al tinello, dove un grande camino acceso riscaldava e affumicava l’ambiente. «Permesso?» – chiesi entrando – «Sono il dott. Meoni; la porta era aperta». Si alzò una bella signora anziana, in ottima figura, i capelli candidi raccolti in un elegante chignon sulla nuca, che mi rispose con accento straniero: «Buongiorno, dottore. Venire di sopra, da Pierluigi» e si avviò nell’ingresso e poi su per le scale al “reparto notte”, il piano superiore che prevedeva tre ampie camere ciascuna con bagno, nella maggiore delle quali giaceva febbricitante il povero Coli, bollente e dolorante ormai da più di ventiquattr’ore senza che nessun medicinale riuscisse a lenirne le pene. Parlammo solo dei suoi sintomi, della prognosi e della terapia antibiotica da iniziare assolutamente, ma non potei fare a meno di capire come il Coli avesse fatto fortuna all’estero, come sempre all’estero si fosse unito con quella raffinata signora, dalla quale aveva avuto due figli rimasti nella loro patria e infine come dall’estero fosse rientrato a Montesanto da soli tre anni, raggiunta la pensione. Riattraversando in uscita il giardino mi accorsi degli alberi di cachi.
Capitolo 2
L’ondata influenzale si placò a metà febbraio e alla fine dello stesso mese fui in grado di dedicare ai pazienti non solo il tempo ristretto di una visita con ricetta, ma anche quello necessario a conoscerne abitudini e situazioni familiari, seppur molte di queste ultime le padroneggiassi già abbastanza grazie a mia madre. Reso più smaliziato da quei primi mesi di medicina di famiglia avevo cominciato a capire che, quando avessi voluto informazioni sulla vita segreta di qualcuno, non avrei dovuto chiederle direttamente all’interessato o ai suoi parenti prossimi: loro, per senso di protezione, non mi avrebbero mai rivelato niente. Se avessi invece solo pronunciato il nome dell’indagato conversando con un vicino di casa, un conoscente o meglio ancora con un suo nemico, avrei certamente avuto “spiattellate” una serie di verità altrimenti inaccessibili. Spesso in casa celiamo ai parenti quei segreti più intimi che gli estranei, purtroppo, tirando a indovinare, azzeccano e palesano in piazza. Mi accorsi poi che per ottenere il massimo del pettegolezzo dovevo mostrare indifferenza e far credere che il nome pronunciato fosse sopraggiunto per caso, fosse un inciso. Si può star sicuri che in risposta a un semplice: «Lei abita nella stessa strada di Tizio, vero?» l’interlocutore Caio sfogherà tutti i suoi risentimenti o malumori accumulati contro Tizio e che, se Tizio ha un orribile segreto nascosto, Caio lo ha intuito e ce lo rivelerà. Così un bel giorno d’inizio Marzo alla signora Annamaria Landi, ottuagenaria ex maestra di Montesanto, colonna e memoria storica del paese, claudicante per una brutta febbre maltese in età giovanile, consigliai l’acquisto di un tutore: «Sa, signora, tipo quello che indossa il Sig. Coli» soggiunsi. Lei rimase perplessa: «Pierluigi!» Incalzai davanti al suo dubbio: «Non si rammenta, Signora Anna? Quello che ha il suo stesso problema alla gamba ma causato da una disgrazia!» finii. La donna strabuzzò gli occhi come fosse ipertiroidea o un pesce di profondità tirato a galla troppo velocemente: «Disgrazia?» – cadde dalle nuvole – «Ma quale disgrazia. Il Coli c’è nato zoppo!» La crudeltà tra infelici è maggiore che ovunque e la Landi continuò su questa scia: «Me lo ricordo bene. L’ho avuto alunno a scuola! I compagni lo chiamavano ‘Scianchetto’, che vuol dire ‘sciancato’, ma lui non se n’è mai preoccupato troppo. Anzi, la menomazione gli forniva la scusa per lavorare il meno possibile: un gran vagabondo, ecco quel che è sempre stato. Agli esami di seconda elementare fui tentata di bocciarlo, ma poi, per rispetto più dei genitori che suo, lo promossi fino in quinta. Il babbo, pover’uomo, s’è mangiato tutta la fattoria a suon di parcelle per i migliori professori, ma non c’è stato niente da fare: più che cresceva e più che la gamba s’accorciava. La mamma, Lina, con l’assottigliarsi del patrimonio fu costretta a adattarsi alle pulizie ma lei, pensi dottore, aveva il diploma magistrale, come me! Soltanto che non aveva mai fatto concorsi nella scuola per aiutare l’azienda del marito: gli teneva i conti, ne diventò quel che oggi si direbbe la commercialista. Invece le spese per la malattia del figlio la costrinsero a umiliarsi a ore come serva altrui». La maestra Anna ormai viaggiava spedita sulla vena della rivelazione e non si fermò che quando l’ebbe esaurita: «Con la morte del vecchio Coli sul fronte Russo, nel ’43, la situazione della vedova peggiorò drasticamente: per fortuna trovò impiego nelle terre del Barone, il quale sulle prime la sfruttò e angariò al pari degli altri operai, ma poi si comportò con lei come e forse più d’un padre: la passò dal lavoro rurale al ruolo di cuoca, cosicché le fu possibile vivere con il figlio al terzo piano del palazzo insieme alla servitù e inoltre si prese carico di Pierluigi pagando tutte le cure necessarie fino all’operazione in Francia, a Marsiglia, che lo ha reso quasi sano come vedete oggi». Le visite domiciliari le avevo già concluse e la sala d’attesa rimaneva stranamente vuota, così non congedai subito la loquace signora maestra: per saperne di più senza espormi troppo, simulai disinteresse ma rimasi in argomento: «Meno male, povera signora. Mi sembra strano però che il Barone Acquafresca fosse così perfido e malevolo coi dipendenti. L’ho intravisto una mezza volta ma mi ha dato l’impressione di essere una brava persona». Buttai là questa frase provocatoriamente, sapendo di scatenare la reazione inviperita della Landi: ogni Montino conosceva appieno la rinomata durezza del Barone Marcaldo Umberto Leone Acquafresca De’ Gigli. Tutti lo definivano soltanto “il Barone”, quasi il titolo risuonasse come spregiativo; segno di una lotta di classe e di un’acredine tipiche di questi centri rurali, è vero, ma che in questo specifico caso il personaggio non aveva fatto niente per smussare, anzi, che aveva alimentato con un comportamento davvero sprezzante e talora crudele nei confronti dei propri operai. Come si spiegava allora la bontà verso la vedova e l’orfano Coli? Perché quel repentino intenerimento per Lina da parte del nobile? Erano diventati amanti? Oppure l’Acquafresca si era sentito in debito verso la donna e il ragazzo per qualche diverso motivo? La mia provocazione comunque sortì l’effetto voluto mandando in bestia l’ex maestra che vuotò inconsciamente il sacco: «Una brava persona!? Ma che dice, dottore? Forse oggi, rincitrullito com’è dall’età! Ma da giovane il Barone è stato cattivo, tanto cattivo! Glielo posso assicurare, guardi. Le uniche persone di sangue non blu cui abbia apparentemente fatto del bene sono state proprio Lina e Pierluigi» – vomitò e poi rispose spontanea ed esaustiva alle domande che non le avevo posto – «E lo sa il vero perché di tutta questa gentilezza, dottore? » – scossi la testa in segno di no, sicuro che mi avrebbe rivelato la tresca tra Barone e cameriera. Invece – «Perché con i favori elargiti si comprò l’onestà di Pierluigi!» affermò la vecchia signora puntandomi l’indice. Aggrottai le ciglia in una smorfia di stupore: «Che significa?» le chiesi senza aver davvero capito. Anna a quel punto si alzò in piedi e si appoggiò sulla scrivania per avvicinarsi, poi: «Significa che da dopo l’operazione i...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo 1
  2. Capitolo 2
  3. Capitolo 3
  4. Capitolo 4
  5. Capitolo 5
  6. Capitolo 6
  7. Capitolo 7
  8. Capitolo 8
  9. Capitolo 9
  10. Capitolo 10
  11. Capitolo 11
  12. Capitolo 12
  13. Capitolo 13
  14. Capitolo 14
  15. Capitolo 15
  16. Capitolo 16Epilogo