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Habermas è divenuto uno dei più influenti pensatori della seconda metà del Novecento con la svolta comunicativa della sua teoria della società. A partire da questa constatazione, Hauke Brunkhorst offre un'agile ma completa biografia intellettuale di Habermas, dalla famosa critica a Heidegger nel 1953, attraverso la Francoforte degli anni '60 e '70, sino all'imporsi delle sue tesi nei più recenti dibattiti sulle prassi eugenetiche, sul conflitto tra stato laico e religione, sul problema della politica globale e sul rapporto tra diritto e costituzione. Secondo Brunkhorst, la svolta comunicativa habermasiana, se presa sul serio, implica un ideale di radicale inclusione democratica, che si rivela indispensabile sia per garantire legittimità alle istituzioni che per assicurare loro stabilità. Nell'ultima parte del libro, tale tesi è discussa alla luce del problema della globalizzazione della politica e dell'internazionalizzazione del diritto. Hauke Brunkhorst è professore di sociologia all'Università di Flensburg e coordinatore del master internazionale 'European Studies' delle Università di Flensburg e Süd-Dänemak. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: '"Der 18. Brumaire des Louis Bonaparte" von Karl Marx', Frankfurt/M 2007; 'Solidarität. Von der Bürgerfreundschaft zur "globalen Rechtsgenossenschaft"' Frankfurt/M 2002 (apparso anche in traduzione inglese con il titolo: Solidarity. From Civic Friendship to a Global Legal Community, Cambridge, Mass. 2005). Tra le sue curatele: 'The European Union as a Model for the Development of Mercosur? Transnational Order between Economic Efficiency and Political Legitimacy' (con W. Matiaske, G. Grözinger e M. Neves), München 2007 e 'Verrechtlichung der Souveränität. Hans Kelsens Rechts- und Staatsverständnis' (con R. Voigt), Baden-Baden 2007. In italiano è stato pubblicato il volume 'Marcuse', Bolsena (Vt) 2002. Leonardo Ceppa ha insegnato filosofia teoretica all'Università di Torino. Ha tradotto testi della vecchia e nuova Scuola di Francoforte (tra cui Horkheimer, 'Taccuini 1950-1969', Marietti 1988; Habermas, 'Fatti e norme', Guerini 1996). Autore di 'Schopenhauer diseducatore' (Marietti 1983) e 'Dispense habermasiane' (Trauben 2001), ha scritto la prefazione ai 'Minima moralia' di Adorno (Einaudi 1991) e la postfazione a 'L'inclusione dell'altro' di Habermas (Feltrinelli 1998).

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788864532165

Capitolo 1.
Storia e politica

Jürgen Habermas (classe 1929) e quelli della sua generazione, nati tra il 1926 e il 1931, hanno tra i dodici e i diciotto anni quando crolla il Reich nazista. Troppo giovani per essere arruolati nella Wehrmacht o nel partito. Grandi abbastanza per capire, in prima persona, cosa sia il nazionalsocialismo. Habermas ha dieci anni allo scoppio della guerra, quasi sedici alla sua fine. La guerra dura complessivamente sei anni, dalla vittoriosa conquista nazista dell’intera Europa fino alla resa incondizionata e ai processi di Norimberga. Su ordine del Führer, nell’agosto del 1939, Ribbentrop, Göring, Hess, Dönitz, Seyss-Inquart, Ley, Frank, Neurath, Keitel, Kaltenbrunner, Sauckel ecc. aggrediscono e saccheggiano la Polonia, costruendo campi di lavoro e di sterminio, deportando, schiavizzando e trucidando milioni di persone. Per cinque anni l’aggressione si abbatte su tutta l’Europa, a partire dai paesi dell’Est. Nell’ottobre 1945 quei capi nazisti sono processati a Norimberga e un anno dopo impiccati. La generazione che durante la guerra può essere ancora arruolata nella Hitlerjugend (e nell’ultimissimo anno di guerra nelle brigate contraeree e nella milizia popolare) – dunque intellettuali come Luhmann, Lübbe, Habermas, Dahrendorf, Enzensberger, Wehler, Marquard, Alexander Kluge, i fratelli Mommsen o Günter Grass, ma anche politici come Helmut Kohl o Johannes Rau – vivono la loro socializzazione primaria e secondaria, fanciullezza e prima scolarità, pubertà e adolescenza, nel Reich nazista, e la loro socializzazione terziaria, ossìa il forzato prolungamento della giovinezza degli anni universitari, nella Germania divisa della occupazione postbellica. Al sorgere della Bundesrepublik (1949) essi hanno spesso già terminato gli studi o erano postgraduates.
Gli sconvolgenti rivolgimenti del 1945 – crollo del Reich, scomparsa dello Stato, denuncia dei crimini nazisti, improvvisa consapevolezza (come si esprime Habermas in una intervista) di avere convissuto con un regime assolutamente criminale e, da ultimo, istituzione della Repubblica federale nella parte occidentale del territorio nazionale – insomma la repentina e quasi integrale rivoluzione del sistema istituzionale, e il trasformarsi della dittatura più criminale della storia in una democrazia parlamentare di taglio occidentale, tutto ciò influenza profondamente le biografie di questa generazione. Intellettuali come Habermas, Enzensberger, Lübbe, Dahrendorf, Kluge oppure Luhmann prendono le posizioni più diverse nei confronti del passato nazista. Tuttavia non hanno nessuna possibilità di rimuovere, negare o addirittura giustificare il fascismo nazional-socialista, nessuna possibilità, insomma, di mettere elusivamente tra parentesi il passaggio da Hitler ad Adenauer, dallo stato autoritario degli anni Trenta al benevolo paternalismo degli anni Cinquanta, dallo stato dei nazisti allo stato dei cristiano-democratici. Di fronte a questo passaggio essi devono reagire e prendere posizione. Non occupano ancora nessuna carica: così non possono restare in servizio conservando semplicemente il loro posto, come fa gran parte del personale burocratico, universitario ed economico della nazione. Rimozione del nazismo e anticomunismo viscerale degli anni Cinquanta sono da loro o denunciati come effetto derivato del regime nazista (è quanto fecero Habermas o Enzensberger), oppure benevolmente giustificati come «omissione comunicativa» del proprio passato nazista (è quanto fece Hermann Lübbe). Il mantenimento in ruolo del personale nazista nella nuova Germania federale viene visto da Habermas come una «catastrofe igienico-sociale» e da Lübbe, invece, come una benedizione funzionalmente necessaria alla integrazione sociale (per quanto problematica e «asimmetrica» sul piano morale). Dal canto suo, Luhmann può inquadrare nella prospettiva consapevolmente disimpegnata della «equivalenza funzionale» il passaggio dal regime nazista – spesso già odiato dagli stessi giovani arruolati nella Hitlerjugend e nella milizia contraerea – al regime di occupazione postbellica.
Solo una cosa gli appartenenti a questa generazione non possono concedersi. Essi non possono evitare di reagire e di prendere chiaramente posizione rispetto al regime nazista. Devono, in altre parole, pensare la loro biografia a partire dallo spartiacque discriminante del 1945. Il periodo precedente resta certo un pezzo della loro vita. E tuttavia la generazione dei quindicenni o ventenni non può essere ritenuta responsabile – sul piano morale e personale – delle malefatte di un regime nelle cui dimensioni pubbliche e private (nelle cui famiglie, scuole materne ed elementari, organizzazioni giovanili, caserme ecc.) essi sono venuti crescendo. È ciò che negli anni Ottanta Helmut Kohl (oppure il ghost-writer che gli redigeva i discorsi) chiamò la «grazia della nàscita tardiva». Con questa espressione egli voleva soffocare una volta per tutte, in senso apologetico, la questione del «passato tedesco» che si era di nuovo riaccesa. E tuttavia quella espressione non mancava di una sua verità oggettiva. Che si trattasse oppure no di «grazia», certo è che la casualità dell’anno di nascita consentì – a quella generazione – di misurare tutto l’abisso che contrapponeva il trascorso regime nazista alla democrazia di stampo occidentale sui cui princìpi la Bundesrepublik andava istituendo la sua Legge fondamentale. Insomma, la generazione nata intorno al 1930 nutrì sempre un rapporto positivo – di consenso e di difesa – quanto meno nei confronti della costituzione repubblicana in quanto tale: un atteggiamento che si fece sentire non solo nei casi in cui la costituzione venne grossolanamente violata (come per esempio in occasione dello Spiegel-Affäre, dello scandalo-Spiegel del 1962[1]), ma anche quando la Bundesrepublik venne attaccata e diffamata da gruppetti della sinistra radicale – alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta – quasi che essa fosse un regime di tipo fascistico o tendenzialmente fascistico. Nonostante l’influenza di intellettuali di destra come Heidegger, Ernst Jünger o Carl Schmitt, e nonostante tutte le polarizzazioni politiche degli anni Settanta e Ottanta, possiamo dire che – complessivamente – questa generazione si schierò a difesa della Repubblica federale nel nome di un consenso antifascista. Pochissime furono le figure intellettuali che scivolarono decisamente a destra come Rohrmoser, Maurer o Willms.
Intellettuali di questa generazione come Wehler, Habermas, Enzensberger, Luhmann, Kluge, Grass o Dahrendorf, furono tutti profondamente segnati – anche sul piano personale, politico e letterario – dal rivolgimento storico e dalla liberazione del 1945. Una cosa avvertibile in quasi tutte le pagine scritte da Habermas. Il fascismo vissuto sulla propria pelle resta ancora un dato incancellabile. Si può dire lo stesso persino di un Luhmann, benché egli sia stato un pensatore molto meno impegnato politicamente e benché, nella sua scrittura, il rapporto con il passato nazista traspaia in forma assai più sublimata. Insomma, sia che lo abbiano esplicitamente riconosciuto oppure no, l’anno 1945 dovette essere percepito dagli intellettuali di questa generazione come un evento liberatorio.
A differenza del cameratismo discreto e complice dei loro maestri, ch’erano stati per lo più simpatizzanti col regime, questa generazione fu agitata da accese discussioni sul nazismo. E queste discussioni non miravano più a relativizzare i crimini di massa, a giustificare sul piano del diritto internazionale la guerra di aggressione, o a mettere in dubbio la legittimità dei processi di Norimberga. Ora il problema era quello di spiegare la natura più o meno fascistico-totalitaria (già questi concetti sono controversi) dell’orrore nazionalsocialista, ipotizzando una sua comparabilità o incomparabilità con il comunismo stalinistico. L’idea di un «nesso causale» tra rivoluzione russa e crimini hitleriani – idea su cui si scatenò negli anni Ottanta l’Historikerstreit, la «diatriba degli storici» – venne dapprima in mente a Ernst Nolte, cioè (non a caso) a un rappresentante della generazione entrata in guerra in un’età già relativamente adulta. L’idea del «nesso causale» viene poi ripresa da storici più giovani di tendenza neoconservatrice. Ma è solo nella generazione dei nati dopo il 1945 che vediamo sorgere gli apologeti più destrorsi e radicali di un (già destrorso e radicale) Ernst Nolte: storici come Zittelmann e Weissmann, giornalisti come Lorenz Jäger.
La generazione della guerra e quella dell’anteguerra – sia quelli la cui socializzazione terziaria era ancora ricaduta negli anni del nazismo sia quelli che fin dal 1933 avevano attivamente appoggiato il nazionalsocialismo – espressero quasi sempre una ripulsa totale delle idee, entrate in Germania dall’occidente, di autonomia politica e di libertà egualitaria. Il disprezzo del liberalismo e del democratismo occidentale restava pervicace. Presso la più antica generazione di intellettuali politicamente e professionalmente attivi, per esempio Martin Heidegger, Carl Schmitt, Hans Freyer, Ernst Jünger o Arnold Gehlen, così come presso la successiva generazione di Erich Rothacker, Helmut Schelsky, Ernst Forsthoff o Joachim Ritter, regnava una sorta di eloquente silenzio, rimozione, negazione, cocciuta autogiustificazione. Per quest’ultima, basti pensare ai casi paradigmatici di Heidegger o di Carl Schmitt.
I soli appartenenti a queste due generazioni che non avevano nulla da rimuovere o da negare erano i combattenti illegali della resistenza di sinistra – per esempio quel Wolfgang Abendroth che, scoperto nel 1937, restò in carcere fino al 1941 per poi venir destinato alla famigerata Strafdivision 999 – oppure quei pochi oppositori del nazismo – come Karl Jaspers – che erano rimasti in patria senza entrare in clandestinità, oppure quelli che, cacciati in esilio – come Hannah Arendt, Leo Strauss, Thomas Mann, Karl Löwith, Franz Neumann, Ernst Fraenkel e Max Horkheimer – dovettero abbandonare non solo la Germania ma anche l’Europa; oppure, ancora, i pochi superstiti che come Eugen Kogon poterono essere liberati nel 1945 dall’internamento nel lager. Furono loro a scrivere – già durante la guerra o immediatamente dopo – i libri tuttora più importanti sul nazionalsocialismo e sull’epoca fascista, il Behemoth (Neumann), il Doppelstaat (Fraenkel, che segretamente lo redasse ancora in Germania, alla metà degli anni Trenta), le Origins of Totalitarianism (Arendt), la Dialektik der Aufklärung (Horkheimer-Adorno), lo SS-Staat (Kogon). Ma la loro voce non trovò ascolto nella Germania di Adenauer e venne riscoperta soltanto negli anni Sessanta. Konrad Adenauer, statista di centro e antinazista, puntò tutto sulla «omissione comunicativa» (kommunikatives Beschweigen), come dimostrò il suo circondarsi di personaggi del vecchio regime, per esempio Heinrich Globke, coautore delle leggi naziste di Norimberga.
In senso opposto stanno le cose per quella generazione del Sessantotto che è successiva alla generazione di Habermas, Luhmann, Dahrendorf, Grass, Lübbe, Mommsen. Si tratta di persone nate alla fine del regime hitleriano, oppure senz’altro dopo quella fine, dunque della prima generazione interamente segnata dalla Repubblica Federale e dall’Occidente, dalla Europa e dall’America. Reagendo al nazismo, essi non dovevano più prendere posizione nei confronti di una loro personale vita precedente: il nazionalsocialismo lo conoscevano soltanto attraverso giornali, libri, film e testimonianze esterne. Le esperienze chiave della loro vita politica furono lo «scandalo Spiegel» e il processo su Auschwitz. Ai loro occhi il nazionalsocialismo era, per certi versi, un passato ancora presente, per altri versi, però, qualcosa di definitivamente trascorso e irrecuperabile sul piano biografico, qualcosa che poteva essere riattualizzato non più nel proprio vissuto, ma solo attraverso testimonianze storiche, letterarie, artistiche, oppure attraverso la fantasia. Tutto ciò facilitò certo la percezione degli elementi fascistici latenti nella quotidianità della Bundesrepublik e nel sempre risorgente imperialismo delle nazioni alleate (specie nella guerra al Vietnam). Tuttavia facilitò anche, per altri versi, l’esagerazione smisurata, lo scimmiottamento pseudo-rivoluzionario d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Titolo
  3. Colophon
  4. Sommario
  5. Abbreviazioni
  6. Capitolo 1. Storia e politica
  7. Capitolo 2. Il farsi sociale della ragione
  8. Capitolo 3. Continuità e rottura. Dalla dialettica dell’illuminismo alla critica della ragione funzionalistica
  9. Capitolo 4. Cambio di paradigmi. Dall’antropologia filosofica alla teoria comunicativa della società
  10. Glossario
  11. Postfazione. Zur entlastung des menschen, un excursus sul ruolo della democrazia: «sgravio» funzionale o libertà responsabile?
  12. Bibliografia