Il pensiero della poesia
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Da Leopardi ai contemporanei. Letture dal mondo di poeti italiani

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Da Leopardi ai contemporanei. Letture dal mondo di poeti italiani

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Cosa hanno in comune gli studi raccolti in questo volume, su autori così disparati come Conte, Palazzeschi, Zanzotto, Caproni, Rosselli, Biagini, alcuni poeti crepuscolari, Leopardi, Annovi, Giuliani, e perfino certe traduzioni novecentesche di R.M. Rilke? La convinzione che la parola poetica – etimologicamente 'creatrice' – generi prospettive cognitive che alterano la nostra percezione del mondo. La lettura della poesia non ha un effetto confinato alla pagina e al momento, ma incide sul nostro rapporto con la realtà, lo cambia e lo arricchisce in maniera spesso insospettabile e sorprendente. In questa raccolta, si cerca dunque di far emergere una sorta di epistemologia della poesia, di chiarire insomma come essa contribuisca ad illuminare la nostra esperienza del mondo e di noi stessi. Il lettore è allora invitato a guardare al di fuori dei confini tradizionalmente stabiliti dalle diverse discipline, in una direzione che è quella della contaminazione reciproca e dell'apertura a suggestioni innovative ed inedite. Cristina Caracchini è docente di italiano e letteratura comparata alla University of Western Ontario. Ha pubblicato il volume Cognizione e discorso poetico. A dialogo con Dante, Pessoa, Guillén, Caproni e Ashbery (Cadmo 2009).
Enrico Minardi insegna italiano e francese alla Arizona State University. Al suo attivo ha diversi volumi dedicati alla letteratura italiana del ventesimo secolo, ed una traduzione in inglese delle poesie di Ferruccio Benzoni (con Taylor Corse).

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Informazioni

Il pensiero della poesia : da Leopardi ai contemporanei. Letture dal mondo di poeti italiani / a cura di Cristina Caracchini, Enrico Minardi. – Firenze : Firenze University Press, 2017.
(Studi e saggi; 172)
http://digital.casalini.it/9788864534800
ISBN 978-88-6453-479-4 (print)
ISBN 978-88-6453-480-0 (online PDF)
ISBN 978-88-6453-481-7 (online EPUB)
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Il pensiero della poesia:
preliminari per un’esplorazione
Cristina Caracchini
Forse è possibile che questo ci appaia:
ogni meditante pensare è un poetare,
ogni poetare è un pensare. Pensiero e poesia si coappartengono.
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio
Mi viene in mente un’esperienza recente. Mi trovo a dover trascorrere del tempo inquieto in una città non mia, Trieste. La conosco già bene, in passato vi ho soggiornato per lunghi periodi. Ho letto di tutto su Trieste, articoli sulle assicurazioni o sulle questioni di immigrazione, saggi sulle vicissitudini storiche della città, narrativa, e soprattutto Svevo. Posso anche cantarne le canzoni dialettali. Eppure, mentre giro la sera d’estate nelle vie affollatissime del centro, tra le mille tavole che i ristoratori hanno approntato per chi vuole godersi, fra schiamazzi e risate, la bella stagione fuori, in testa mi risuonano e non mi abbandonano quei versi, ripescati in una parte remota della memoria, con cui Umberto Saba raccontava la sua città dall’«aria strana, un’aria tormentosa», una città che «da ogni parte viva» aveva il «cantuccio a [lui] fatto, alla [sua] vita / pensosa schiva». Allora Trieste si sdoppia, e insieme a quella estiva e chiassosa che vedo, so che c’è quella molto diversa, e altrettanto vera per me in quel momento, fissata da Saba in versi che ne distillano un altro spirito. Ma perché Saba e non Svevo? Su Svevo ho appena tenuto una lunga conferenza. È fresco nella memoria. E allora perché, per esempio, non mi viene in mente lo Zeno della Coscienza, come me inquieto dopo che la passeggiata di un amico l’ha colto in flagrante accanto alla sua giovane amante, su una panchina dei giardini pubblici che forse è la stessa su cui ora mi sono seduta a guardare la movida serale? Ci sono versi che diventano concreti come cose e ammobiliano il nostro mondo, anzi, sono magnetici ricettacoli di esperienze e incidono sulla nostra percezione e relazione con le cose e, tra le cose, anche con il sapere.
Il pensiero della poesia è il titolo dato a questa raccolta di saggi. Come pensa, che cosa pensa, e che cosa fa pensare la poesia? È necessario fin da subito circoscrivere il campo e definire a che cosa ci si riferisca, per gli scopi di questo studio, con la parola ‘poesia’. Per questioni di economia intellettuale, intendiamo concentrarci sulla poesia moderna e contemporanea in cui, a prezzo di un’estrema semplificazione (e senza che questo significhi porre un limite cronologico), si può riconoscere un tenore baudeleriano in testi lirici di preponderante soggettività (che ha fatto parlare Mazzoni di «genere egocentrico») (2005, 37); così come una matrice mallarmeiana, per componimenti che lasciano alla parola e alle sue reazioni chimiche il primo piano, come fa molta poesia sperimentale.
Parlare di pensiero della poesia significa porre l’accento sulla specificità riconosciuta del discorso poetico, la quale viene modulata di volta in volta secondo diverse accezioni. Può intendersi, infatti, nel senso di pensare in poesia, come fa il poeta quando compone. «Chi scrive versi», sostiene Magrelli, lo fa per «cercare qualcosa che non potrebbe trovare altrove» (2015, 13). Può intendersi poi nel senso di pensare la poesia, come nel caso dei testi che tematizzano la poesia stessa; o anche pensare con la poesia, come fa il lettore la cui enciclopedia semiotica (o orizzonte d’attesa, o bagaglio di erudizione che sia) entra in contatto con un insieme di segni e/o con la manifestazione di una coscienza altra (secondo gli approcci) nel processo ermeneutico che prende forma nell’atto del pensare e che conduce alla creazione del senso.
È il 1933, e Croce sceglie Difesa della poesia come titolo di una conferenza che deve tenere a Oxford. È un titolo che gli permette di stabilire un ponte tra il suo lavoro e la cultura inglese: il riferimento al notissimo saggio di Shelley Defence of Poetry è patente. E infatti, fin già dall’apertura, Croce chiama in causa Shelley, ricordando come avesse composto quelle pagine, nel 1821, per combattere l’idea che si fosse arrivati alla fine della poesia o almeno al suo superamento nel mondo moderno, «nella civiltà matura o, come avrebbe detto il Vico, nella mente tutta spiegata». Si trattava di un’idea – dice Croce – che aveva avuto vasta diffusione all’inizio del XIX secolo e aveva trovato la sua più articolata elaborazione nel sistema hegeliano (Croce 1934, 1). Quello della «morte dell’arte» è un concetto che si presta a essere posto in relazione con la costatazione della fioritura di poetiche romantiche in cui la poesia riflette su se stessa, sul proprio statuto, «sul significato dell’arte» (Vattimo 2008, 49) che non va più sans dire. E d’altra parte, può essere visto come stimolo a tale riflessione, perché nell’acquisizione dell’autoconsapevolezza, l’arte «condannata a morte perché non era filosofia» potesse trovare la propria salvezza (Vattimo 2008, 50). Il Novecento, lo sappiamo, sarà disseminato di poetiche e programmi. Di fatto, Shelley – spiega Croce – aveva già preso una posizione decisa con A Defence of Poetry, riconoscendo alla poesia la capacità di rimediare ai mali di quei suoi tempi, che il filosofo con trasporto descrive come
[…] splendidi di cultura, ma nei quali gli pareva che troppo si esaltasse l’intelletto e che un pericoloso disquilibrio stesse per prodursi tra l’accrescimento e accumulamento delle cognizioni, morali storiche politiche ed economiche da una parte, e, dall’altra, la potenza dell’immaginazione col congiunto impeto generoso, che sola può convertire quelle astratte cognizioni in opera feconda di bene. (1934, 1)
Il discorso di Croce si snoda intorno ad alcuni interrogativi, con il primo dei quali si domanda se i tempi siano tali da giustificare un’ulteriore richiesta di soccorso alla poesia, anche considerando che è lamentato da tutti il fatto che
[…] unica ragione di vita sia diventata l’acquisto della ricchezza […]; unico godimento, il godimento fisico; unico spettacolo, che […] esalti nell’ammirazione, le mirabili e ardimentose prove della fisica prestanza; unica gara la ferocia delle nazioni a prepotere l’una sull’altra, delle classi a soppiantarsi […]. (1934, 2)
Ho trascritto il passaggio perché come ben sapeva il suo autore, è facile riconoscere in questa descrizione ogni epoca, e si è tentati di veder...

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