Marina Gazzini
Storie di vita e di malavita.
Criminali, poveri e altri miserabili nelle carceri di Milano alla fine del medioevo
Firenze University Press
2017
Introduzione
«Periferie esistenziali»: con questa suggestiva metafora i carcerati sono stati indicati da papa Francesco fra quanti, in nome della misericordia e delle sue opere, si auspicherebbero destinatari di una giustizia che nell’applicazione del dettato della legge si dimostrasse non solo rigorosa, ma anche equa e non dimentica della dignità delle persone, ma che invece vivono per lo più nella sofferenza, nella precarietà e nell’indifferenza1. La liminalità della condizione dei carcerati – una liminalità fatta di marginalizzazione ma anche di emarginazione2 – trova un riflesso nel fatto che, per lo meno in Italia, di carceri e carcerati si parla e si scrive poco. Scarsa è difatti l’attenzione che, al di là di episodi sensazionalistici, carta stampata e programmi televisivi dedicano alla vita quotidiana nelle prigioni, specchio di una società che tende a rimuovere quanto accade “dietro le sbarre”, stereotipando i ruoli sia di chi è detenuto sia di chi è preposto alla sua sorveglianza3. Da “dentro” vi è invece un forte desiderio di comunicazione che, quando trova spazi consentiti, si esprime in maniera ricca e articolata, servendosi delle modalità tradizionali di scrittura – di cui sono nobili testimoni, tra gli altri, Silvio Pellico e Antonio Gramsci – e, in maniera via via crescente, anche dei nuovi media4.
La storiografia medievistica italiana, per venire al contesto che è oggetto del presente studio, non ha fatto eccezione a questo generale disinteresse. Il tema carcerario è stato infatti a lungo poco praticato per l’età medievale, con il risultato che la voce di quegli uomini e di quelle donne che trascorsero periodi più o meno lunghi della loro esistenza nel carcere di un comune o di un signore è rimasta spesso inascoltata. E non solo da parte di chi, al tempo, era stato preposto ad accoglierla, ma anche da parte di chi, in seguito, è andato a indagare sulla società dei secoli di mezzo. Che i carcerati siano un soggetto marginale per lo storico del medioevo è però una convinzione tutta da rivedere. Sono molteplici infatti le testimonianze anche non strettamente giudiziarie – dalle opere letterarie composte in prigione5, alle vite di santi liberatori di carcerati6, alla documentazione dell’attività di confraternite e di ordini religiosi dediti alla cura, alla liberazione e al conforto dei prigionieri e dei condannati a morte7 – che dimostrano come l’esperienza della prigione fosse frequente e condivisa da categorie diverse di persone: prigionieri di guerra ma anche avversari politici, delinquenti comuni e debitori, individui incorsi in reati contro l’ortodossia e la morale che, per statuto personale o ratione materiae, finivano sotto la competenza tanto della giustizia pubblica quanto dei tribunali ecclesiastici. A questi si affiancava poi la vasta pletora di inservienti, guardiani, ufficiali, avvocati, procuratori, medici, giusdicenti e frati che vivevano il carcere per professione, e di quanti, amici, parenti, fornitori di servizi, vi accedevano in casi determinati.
Studiare le prigioni e i loro abitanti apre quindi una finestra importante sulla società medievale. Fare storia della prigione medievale non significa infatti occuparsi solo dell’istituzione penale e contenitiva, ma fare una «storia sociale» a tutto tondo8, ovvero indagare «l’expérience physique et mentale de la captivité, la manière dont elle est racontée, ses traductions dans l’espace, les populations qui y sont soumises, celles qui l’exercent et y participent, les buts qu’elle sert, les objectifs et valeurs qui y sont associés»9.
Milano è un case-study significativo in merito a una storia delle carceri e dei carcerati medievali intesa in tal modo, e quindi finalizzata a interrogarsi non tanto sugli aspetti giuridici e penali dell’imprigionamento, ma piuttosto sui tempi, sui modi, sulle ragioni e sulle figure che l’incarceramento coinvolgeva. Milano ospitò difatti una società complessa, dinamica e conflittuale10, su ampia scala per di più, visto che insieme a Parigi, Venezia e Firenze fu una delle quattro metropoli europee attestate, pur con alcune oscillazioni dovute alle crisi demografiche, sopra i 100.000 abitanti11. La medaglia della grande città presentava però due facce e significava la compresenza di situazioni di successo e ricchezza accanto ad altre di devianza e povertà. La società milanese mostrò infatti i contraccolpi degli effetti derivanti dalle difficoltà economiche, dalle crisi demografiche e dal consolidamento di nuovi assetti politici e territoriali fra Trecento e Quattrocento: una società in cui il problema del pauperismo e dei fenomeni annessi di marginalità e devianza si pose con una urgenza e con una coscienza nuova, sollecitando risposte diverse promananti dal pubblico come dal privato12. La Milano quattrocentesca suscitava così ammirazione in chi veniva da fuori, ed era quindi meno soggetto a visioni autoapologetiche, ma provocava anche giudizi tranchants, come quello di Leonardo da Vinci che, giunto nel 1482 e incaricato di una ristrutturazione urbanistica della città, sottolineava l’esistenza, accanto a grandi e lussuosi palazzi, di luoghi «derelicti (…) pieni di ogni immundia et spelunche di assassini» e di «angoli delle strade dove sono reducti de li zotti et altre persone povere mendice»13. Sul finire del medioevo Milano, pur rimanendo sostanzialmente una realtà economica e demografica in espansione, pativa dunque le conseguenze di crisi interne acuite dal flusso immigratorio di poveri e vagabondi forestieri, alla ricerca di lavoro e di elemosine.
Qual è allora la storia, quali sono le storie di vita e di malavita che possiamo raccontare intorno al mondo delle prigioni milanesi, e come possiamo farlo? In primo luogo si è ritenuto opportuno descrivere i percorsi della storiografia medievistica in merito al tema carcerario, affinché potesse chiarirsi subito il significato che assume uno studio incentrato sul complesso e variegato sistema che ruotava attorno alle prigioni di Milano nel medioevo e perché, in parallelo, emergessero le peculiarità del quadro istituzionale locale, capace di produrre e conservare determinate categorie di fonti legate all’amministrazione carceraria. Affrontate le doverose premesse storiografiche e documentarie, siamo entrati più nel vivo dell’argomento trattato. Anzitutto abbiamo cercato di inquadrare i contesti, materiali e normativi, della vita carceraria, distinguendoli tra pubblici, privati ed ecclesiastici. Considerare, accanto alla portata della giustizia pubblica, gli ambiti fisici e giurisdizionali di esercizio di quella vescovile, ad esempio, consente di aggiungere un ulteriore tassello alla questione dei rapporti tra strutture politiche e istituzioni ecclesiastiche nel tardo medioevo. Dopo avere illustrato i luoghi e gli spazi deputati all’imprigionamento, siamo passati a una ricostruzione della popolazione carceraria precisando, grazie al rinvenimento di preziose liste di carcerati e di giustiziati, quali persone, di quale sesso e di quale età, finivano in prigione, per quali ragioni e con quali prospettive. Dalla prigione infatti si usciva – se si usciva, perché molti morivano prima – per tre fondamentali motivi: tornare liberi, permutare la reclusione con un’altra pena (pecuniaria, afflittiva o comunque restrittiva della libertà)14, affrontare il patibolo. Dall’analisi sono emerse importanti informazioni di carattere sociale di cui lo storico della giustizia medievale deve tenere conto: il nesso tra prigionia e povertà, o meglio tra prigionia e inferiorità sociale e conseguente debolezza processuale, risulta infatti evidente e preponderante. L’alta criminalità – dove per “alta” ci si riferisce sia alla tipologia del reato sia al livello sociale di chi lo commetteva – trova spazio più nelle carte processuali che negli elenchi di carcerati della Milano medievale: cercheremo di capirne le ragioni.
L’indagine si è quindi spostata sulle figure con le quali i prigionieri entravano in contatto: i carcerieri, anzitutto, ovvero gli altri abitanti stabili delle prigioni, e poi i frequentatori di queste ultime, come amici, familiari, professionisti ma soprattutto, trattandosi di carcerati e dunque di pauperes, tutte quelle figure che si prendevano carico delle loro necessità, aiutandoli materialmente con erogazioni di cibo e con il rifornimento di vesti e masserizie, tutelandoli dal punto di vista legale, rivedendo processi, scrivendo suppliche, curando i loro interessi economici, e infine sostenendoli psicologicamente e spiritualmente, celebrando messe, pregando, accompagnandoli al patibolo, provvedendo alla loro sepoltura. L’i...