II. Il chi dell’azione, imputazione e responsabilità
«Azione e discorso sono così strettamente connessi
perché l’atto primordiale e specificatamente umano
deve nello stesso tempo contenere la risposta
alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei?”.
[…] Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono,
rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale,
e fanno così la loro apparizione nel mondo umano…».
(H. Arendt, Vita activa)
L’idea di giustizia richiede tutta una serie di chiarimenti riguardanti l’azione, l’agire umano, il chi dell’azione, l’ascrizione, l’imputazione dell’azione all’agente con le sue aporie, la responsabilità. La giustizia è una virtù della vita pratica che si lega con la capacità-potere dell’uomo di agire, di essere capace di certe realizzazioni e di mettere le proprie azioni sul proprio conto. Ma attraverso quali vie è possibile giungere alla comprensione di aspetti dell’esperienza umana che trovano espressione nel linguaggio e che permettono di riferire l’azione al suo agente? Si tratta di rispondere a domande del tipo: Che cos’è un’azione? Come è possibile descriverla? In base a quali aspetti o caratteristiche l’azione umana si distingue da un’azione prodotta da oggetti fisici inanimati? Che relazione c’è tra l’azione e l’agente che la compie? Dove comincia e dove finisce l’essere responsabile delle proprie azioni?
Come in altri contesti d’indagine, Ricoeur muove le sue riflessioni partendo dal linguaggio attraverso il quale l’uomo dice, esprime, racconta il suo agire e soffrire nel tempo. È allora dalla semantica dell’azione che egli muove la sua indagine intorno all’azione e al chi dell’azione.
1. Cos’è l’azione? Le risposte della filosofia analitica
Uno studio attento e particolareggiato dell’azione proviene dalla filosofia analitica di lingua inglese che procede attraverso l’analisi del linguaggio ordinario. Con essa la spiegazione dell’azione è effettuata mediante l’analisi degli enunciati che descrivono l’agire e le azioni dell’uomo. Diciamo subito che l’analisi offerta dai filosofi analitici non soddisfa in pieno la richiesta di Ricoeur di far luce sull’agente e sul chi dell’azione. Questo perché, come vedremo tra poco, quella degli analitici è una semantica «senza agente» che orienta il lavoro sul rapporto che cosa? e perché? senza considerare o mettere in questione il chi? dell’azione. Se l’azione non viene riferita al chi, se non si considera l’azione in rapporto all’agente, non è possibile prendere in considerazione l’ascrizione-imputabilità dell’azione all’agente e non si può vedere l’azione alla luce della responsabilità di chi compie, di chi ha compiuto o di chi compirà l’azione. Per considerare queste problematiche per Ricoeur occorre muoversi in un contesto diverso rispetto a quello della teoria dell’azione di derivazione anglosassone. Rimane comunque che questo passaggio risulta fondamentale per fare importanti chiarimenti sull’azione stessa. Per la teoria dell’azione di derivazione analitica occorre, in primo luogo, capire il «che cosa» dell’azione e, in secondo luogo, il rapporto tra il «che cosa» e il «perché».
Per quanto concerne il primo punto, la teoria dell’azione ha pensato di conservare la specificità dell’agire umano distinguendolo all’evento. L’evento «accade semplicemente», l’azione «è ciò che fa accadere». Tra accadere e far accadere vi è una grande differenza di ordine logico: «ciò che accade è oggetto di una osservazione, dunque di un enunciato constatativo che può essere vero o falso; ciò che si fa accadere non è né vero né falso, ma rende vera o falsa l’asserzione di una certa occorrenza, e cioè l’azione una volta fatta». Ne consegue che l’osservazione interiore non può essere spiegata mediante il ricorso ai concetti derivati dall’osservazione esteriore; questo approccio elimina la possibilità di dare luogo a una osservazione della propria interiorità prendendo come modello e riferimento l’osservazione esterna.
A questo punto torna utile la spiegazione relativa alla distinzione tra «far accadere» e «accadere» di Elisabeth Anscombe. In Intention, la filosofa fa corrispondere questa distinzione a quella tra saper-come e sapere-che. Il sapere-come, spiega Anscombe, tratta degli eventi che sono noti senza osservazione, a tale proposito si può parlare di «conoscenza pratica».
Gli argomenti da lei apportati a riguardo della conoscenza pratica hanno il difetto di concentrarsi sul che cosa dell’azione senza prendere in esame il suo rapporto al chi. Il che cosa dell’azione viene invece rapportato al perché? Così, dire cos’è un’azione significa dire perché l’ha fatta. Posso dire cosa sto facendo spiegandone il perché. Il perché costituisce il motivo dell’azione. La relazione di una azione con il suo motivo è irriducibile alla relazione causale intesa in senso humeano. La relazione causale è una relazione contingente. Ciò significa che causa ed effetto possono essere identificati separatamente e la causa può essere compresa senza che si prenda in considerazione la sua capacità di produrre effetti. Con in mente questa assunzione, i filosofi dell’analisi linguistica osservano che «un motivo è un motivo di»; ne consegue che la connessione intima e costituita dalla motivazione esclude la connessione contingente della causalità. Il motivo non rientra nell’ambito della nozione di causa humeana in quanto un motivo non è un avvenimento distinto dalla stessa intenzionalità. Ciò significa che il motivo di una azione è valutabile secondo il nostro giudizio. Da questo pun...