Le inquietudini della fede
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Dialoghi sulla fede e sugli interrogativi cui l'intelligenza della fede è chiamata a dare risposta. Che cos'è il trascendente per l'uomo del duemila? Come pensare il rapporto tra la fede e la ragione? L'uomo è libero o predestinato? Perché il male? Intervistati da Salvatore Nocita, illustri teologi, filosofi ed esponenti di rilievo della cultura contemporanea, invitano il lettore ad una pacata ma profonda riflessione su temi e domande cui nessuno può ultimamente sottrarsi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865123607
Categoria
Religion

Angelo Scola

La domanda ultima che spalanca alla fede

ANGELO SCOLA, ordinato sacerdote nel 1970, dottore in Filosofia e in Teologia, professore di Antropologia teologica dal 1982 al 1995 presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense, nel 1991 è nominato Vescovo di Grosseto. Dal 1995 al 2002 è Rettore della Pontificia Università Lateranense e Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo. Patriarca di Venezia dal 5 gennaio 2002, Cardinale dal 21 ottobre 2003, è nominato Arcivescovo di Milano il 28 giugno 2011.
Tra gli scritti segnaliamo: Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, 1991; Questioni di antropologia teologica, PUL – Mursia, 1997; Il mistero nuziale. 1. Uomo-Donna, PUL – Mursia, 1998; Il mistero nuziale. 2. Matrimonio-Famiglia, PUL – Mursia, 2000; La persona umana. Antropologia teologica, in collaborazione con G. Marengo e J. Prades López, Jaca Book, 2000; “Se vuoi, puoi guarirmi”. La salute tra speranza ed utopia, Cantagalli, 2001; Uomo-donna. Il “caso serio” dell’amore, Marietti, 2002; Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologia, Queriniana, 2005; Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, 2007; Come nasce e come vive una comunità cristiana, Marcianum Press, 2007; Buone ragioni per la vita in comune. Religioni, politica, economia, Mondadori, 2010.


Eminenza, per l’uomo del duemila che cos’è il trascendente? Non dico come lo immagina, ma come lo vive?
Innanzitutto vorrei premettere che, quando introduciamo questa parola, trascendente, ci riferiamo a un dato che è proprio dell’uomo come tale, del cuore dell’uomo di ogni tempo. Ovviamente, la modalità con cui questo proprium viene percepito muta a seconda del clima culturale in cui l’uomo vive e agisce.
Io credo che l’uomo di oggi sia chiamato a guardare fino in fondo ai tratti fondamentali dell’esperienza umana. Il primo, il più importante, è la capacità dell’uomo di cogliere il senso della realtà: la realtà è intelligibile e chiede di essere ospitata dalla nostra intelligenza. Già questo implica una tra-scendenza, cioè un andare oltre l’immediato.
Io posso “possedere” questo tavolo – lo dicevano già i grandi classici – e cioè posso ospitarlo dentro di me conoscendolo; è chiaro, quindi, che non lo “possiedo” nel senso che posso introdurlo materialmente nel mio io, però, con la mia intelligenza, posso dire che “questo è un tavolo” e con ciò guadagno un certo livello di verità ossia di corrispondenza tra l’intelligenza della realtà di cui sono capace e la cosa. Questo è il primo, il più elementare modo con cui noi, quotidianamente, facciamo una certa esperienza del trascendente.
Il secondo modo, che pure è decisivo ed è, in un certo senso, più decisivo del primo, è la relazione, il rapporto. Che cosa dice il sorriso di un bimbo alla mamma o il sorriso della mamma al bambino? Dice che c’è qualcosa che va oltre il proprio io. La relazione buona e positiva mi induce ad uscire da me e diventa, allo stesso tempo, decisiva e costitutiva per il mio benessere. L’essere in relazione è quindi il secondo modo costitutivo attraverso il quale io esco da me e vado verso il trascendente.
C’e poi almeno un terzo modo, che è di capitale importanza, di cui incominciamo a renderci conto più chiaramente quando entriamo nella fase della maturità. È il modo legato alla percezione della nostra finitudine. Siamo capaci di infinito e tuttavia, quando agiamo, siamo sempre prigionieri della finitudine. L’uomo ha sempre dato espressione a questo paradosso che lo costituisce con una parola – “salvezza” – che è presente in tutte le religioni e che è come l’invocazione di essere liberati da questo limite che ha, soprattutto nella morte, la sua barriera principale.
Sono capace di infinito, ma sono costretto alla finitudine. Chi mi libererà da questa condizione? Questa è la salita verticale nella scoperta del trascendente.
Dall’interno della concretezza della vita di tutti i giorni, l’uomo ha quindi mille segni per accorgersi del trascendente. In una cultura in cui la relazione buona non è coltivata, in cui si dice che la verità non esiste o si dice che la verità non è raggiungibile, questo sarà più difficile. In una cultura in cui uno pensa di potersi salvare da solo o pensa di potersi accomodare tranquillamente nella finitudine, è inevitabile – lo diceva il grande Nietzsche già più di un secolo fa – che ci accontentiamo di “una vogliuzza per il giorno”, di “una vogliuzza per la notte”. Ci togliamo di dosso le speranze elevate e ne diventiamo facilmente calunniatori. Arriviamo a tarparci le ali.
Il punto è quindi costruire, in questa società, relazioni buone e pratiche virtuose che lascino emergere, dall’esperienza di tutti i giorni, i mille segni che indicano questo Quid misterioso, questo Quid con la “q” maiuscola che la grande tradizione di tutti i popoli chiama Dio.

Ad un certo momento, però, l’uomo incontra un mistero, quello della fede. Due grandi, Paolo e Pietro, sono uomini che hanno esplicato una vita di fede ma in diverse modalità: uno è stato chiamato, l’altro si è convertito. Che differenza c’è, per gli uomini, tra essere chiamati ed essere convertiti? Sono esperienze profondamente diverse? Ci vuole una chiamata?
Per tutti ci vuole una chiamata. Anche la conversione è una chiamata. Tra l’altro, giustamente, oggi si rileva il fatto che Paolo non parla del suo radicale cambiamento usando la parola “conversione”, ma piuttosto come la scoperta di una continuità tra la sua esperienza –, che pur l’aveva portato ad essere persecutore dei cristiani per cattiva conoscenza –, e la sequela radicale di Cristo che lo conduce fino al punto di dare la propria vita per Lui.
Ma prima lei ha detto una cosa molto importante, che descrive l’esperienza di ogni uomo e cioè che la vita, la nostra vita, proprio per quella esperienza elementare di cui abbiamo parlato poco fa, è sempre vocazione. Non esiste uomo il quale non faccia ogni giorno l’esperienza di come, attraverso ogni circostanza, attraverso ogni rapporto, il mistero di Dio lo chiama a coinvolgersi con sé. Ed è il caso di ogni uomo, che uno lo sappia o non lo sappia: agendo, affrontando le circostanze della vita, quelle belle e quelle meno belle, quelle favorevoli e quelle sfavorevoli, vivendo i rapporti quotidiani, risponde ad una chiamata di Dio.
Che cos’è la fede in Gesù che fu (differente nei modi, ma la stessa nella sostanza) di Pietro e di Paolo, se non il compimento gratuito di questa natura vocazionale della vita? Sant’Agostino dice che Gesù è venuto per essere la via alla verità e alla vita. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che Gesù ci aiuta a dare un nome proprio, un nome preciso, all’esperienza umana che noi compiamo. Per fare questo, ci rivela il Padre, lo Spirito Santo e ci mette a disposizione tutti i bellissimi misteri, le meraviglie dei misteri della vita cristiana, per aiutarci ad essere uomini compiuti.
La fede non solo non uccide ma esalta la personalità, il tratto personale di Pietro. A noi quest’uomo appare certe volte burbero, integrale, deciso: dà consigli a Gesù fino a farsi da Lui riprendere con molta energia – «tu mi consigli cose che sono tipiche del maligno» (cfr. Mt 16,23) –, va dietro a Gesù e poi arriva al tradimento, quindi al pianto. In questo apostolo vediamo un amore carico di profonda semplicità, nel senso nobile della parola, ed è per questo che Gesù lo ha posto a fondamento del corpo dei suoi apostoli: lo ha posto come pietra angolare dentro la Chiesa.
Con Paolo vediamo l’uomo che, in forza della scoperta che solo nell’appartenenza a Gesù il suo destino si compie – è molto importante, nella descrizione della “caduta da cavallo”, quel «mi perseguiti» (cfr. At 9,4) –, dedica l’intera sua vita, come voi mostrerete nel vostro film, valorizzando tutte le opere che prima i greci, Alessandro Magno e poi i romani, avevano creato, per comunicare la pienezza di vita umana che la sequela di Gesù garantisce. Per annunciare Cristo, San Paolo attraversa tutto il mondo allora conosciuto.
In ognuno dei due casi cogliamo un dato molto impressionante. Chi di noi si ricorderebbe di Pietro se non avessimo conosciuto, tramite i Vangeli, la sua missione? Chi si ricorderebbe di Paolo se non avessimo conosciuto la sua missione? Quindi è la missione che personalizza la vocazione. Lo spiega bene la Lettera agli Ebrei che, là dove definisce Gesù come “il mandato” in senso assoluto: in Lui la persona coincide con la missione e la missione è l’In car - nazione, l’abbassamento totale del Figlio di Dio che arriva ad accettare di lasciarsi illividire sul palo di ignominia che è la croce.
Allora in Gesù ogni cristiano può vivere questa esperienza vocazionale che è permanente conversione attraverso ogni circostanza, ogni rapporto. Se Gesù mi chiama a coinvolgermi con Lui e io rispondo, allora cambio, cresco: ecco il nesso tra vocazione e conversione.

La ricerca della fede è un atto di volontà o un segno provvidenziale?
La fede è sempre un dono, tanto è vero che la fede nasce sempre da un incontro. In forza di che cosa gli uomini della nostra generazione sono stati battezzati due o tre giorni dopo la nascita? In forza del rapporto buono con i loro genitori, della fede dei genitori e a partire dal loro incontro stupendo con la nascita del figlio. Un incontro che i nostri genitori non sentivano compiuto finché non fosse stato anche l’incontro con Gesù, con Maria Vergine, con tutti i santi e quindi con Dio.
In taluni casi questo incontro avviene da adulti, come succede in molti convertiti, pensiamo al travaglio di Agostino per citarne uno, ma si potrebbero citare anche i tanti casi contemporanei di conversione: pensiamo ai più recenti, a quella figura assolutamente singolare che è lo scrittore inglese Evelyn Waugh, per non dire del card. Newman, che aveva cominciato a vivere l’esperienza di Cristo già nella Chiesa anglicana.
Anche in questi casi si tratta sempre di un incontro e quindi, anzitutto, di un dono: la fede è un dono di grazia perché non nasce al di fuori di un rapporto, uno non se la dà da sé. Quando però questo incontro si produce, siccome è della realtà profonda che si tratta –, perché Gesù è il fondamento della realtà – è la realtà profonda che mi interpella e domanda la mia risposta. Ed è qui che allora scatta l’elemento di libertà in cammino.
E allora la sintesi tra il dono della fede, la grazia della fede e la mia risposta spiega perché la fede sia una virtù teologale: perché implica, nello stesso tempo, una grazia che mi viene incontro dall’alto in modo umanissimo, ma che domanda anche una risposta dalla mia ragione e della mia libertà e quindi con il passare degli anni diventa un “abito”, cioè un atteggiamento virtuoso come i santi ci dimostrano nella loro stupenda varietà. Pensiamo alla bellezza della santità di Maria Goretti oppure al travaglio della santità di Agostino, pensiamo a Tommaso Moro oppure ai grandi mistici con i loro tormenti, come Santa Teresa o San Giovanni della Croce. Secondo questa forma variegata, vediamo che la santità mostra che la fede è virtù in progressiva crescita: l’uomo che vive, attraverso l’incontro, il dono della fede e vi aderisce.
I Salmi insistono costantemente su questo bisogno di rispondere all’iniziativa di Dio nonostante tutti i nostri peccati, i nostri limiti, rinnovando l’energia di un’adesione. In questa luce la vita viene giudicata in tutti i suoi aspetti, negli affetti, nel lavoro, nel riposo, nell’assunzione delle proprie fragilità di salute e soprattutto nel riconoscimento del proprio male: viene affrontata in tutti gli aspetti secondo un principio di ordine.
La fede diventa un principio di ordine della vita, dà ordine alla mia esistenza e questo principio di ordine, che scaturisce dalla fede, si chiama amore: è l’esperienza dell’amore, è l’esperienza della carità.

Fede e ragione… Quali sono i limiti della ragione?
Bisogna superare questa impostazione. L’ho sempre detto ai miei studenti: non possiamo pensare alla fede e alla ragione come se fossero parte di un elastico di modo che, se tiro il capo della ragione, accorcio quello della fede e, se tiro quella della fede, accorcio quello della ragione.
Dobbiamo invece riflettere bene su che cos’è la ragione e capire che la ragione in sé stessa, e nel suo momento culminante, implica sempre un atto di fede. Non è possibile concepire la fede come qualche cosa che viene dopo la ragione, come è successo nell’epoca moderna per cui, alla fine, la ragione ha occupato tutto il campo, ha tirato tutto l’elastico dalla sua parte con il risultato che la fede è rimasta, per principio, fuori dalla ragione – come qualcosa di irrazionale. Questo è profondamente sbagliato, basta riflettere su quel dato fondamentale che viene chiamato “credenza”. Noi ce ne stiamo qui, tranquilli, a discutere in questa stanza, nonostante i pavimenti veneziani ballino molto, perché ci fidiamo, abbiamo fede nell’architetto che li ha costruiti: abbiamo una certa credenza in questo.
Quando la ragione indaga fino in fondo il perché ultimo delle cose, quello che Leopardi identificava con la domanda profonda del pastore errante dell’Asia: «Ed io che sono?», la ragione si spalanca al Mistero. Soprattutto, se questa domanda viene declinata nella sua dimensione più esistenziale, per cui ci chiediamo: «Chi si prende cura di me in modo definitivo così da assicurarmi per tutta la vita, da permettermi di vivere nonostante l’incombenza della morte, da permettermi di superare il terrore della morte?». Da questo punto di vista diciamo che la dimensione della fede diventa la dimensione più elevata della ragione. Così, quando per grazia noi conosciamo Gesù, la fede soprannaturale in Gesù, che non è deducibile dalla ragione, incontra un terreno già pronto. Ecco perché il Santo Padre, anche nel suo recente viaggio in Inghilterra, proprio lavorando su un uomo che tanto ha riflettuto su questo problema come il beato card. Newman, ha mostrato un’altra volta che il problema del nostro tempo è allargare la ragione, cioè vivere tutti i significati possibili della ragione, compreso quello della domanda ultima a cui abbiamo fatto riferimento adesso. Perché la domanda ultima, per sua natura, spalanca alla fede.
La fede cristiana quindi non è qualcosa che si aggiunge dall’esterno, viene dall’alto, ma trova un terreno che è già pronto. Bisogna sempre fare riferimento a questo dato: che Gesù venendo, come dice il Concilio Vaticano II nel n. 22 di Gaudium et spes, ha svelato pienamente l’uomo all’uomo. Non c’è prima l’uomo e poi, alla domenica, il cristiano. Non c’è prima la ragione e poi la fede ma, per chi ha il dono della fede (ecco perché il battesimo degli infanti è molto importante anche se esige l’educazione), quella che si fa innanzi è realmente l’esperienza di un’umanità che si dispiega in tutta la sua pienezza.

Passiamo al tema della “parola”. Va intesa come verbo o come metafora?
La parola è “Verbo”, perché è parola vivente e personale. A me, personalmente, piacerebbe che si usasse sempre, anche in italiano, “Verbo”, perché questo ci eviterebbe di trasformare l’avvenimento salvifico dell’incarnazione del Logos, del Verbo appunto, in un discorso, fosse pure un discorso sublime e supremo.
Nel Vangelo di Giovanni si dice che al principio sta il Verbo. Ma questo vuol dire che “sta al principio” non solo nel senso che sta “all’inizio”. Sta al principio del nostro discorrere adesso, sta al principio dell’incontrarsi tra gli uomini, … Perché Dio ci crea nel Verbo, nel Figlio suo, per la potenza dello Spirito, non soltanto quando all’atto del concepimento ci dona la vita, ma ci crea accompagnandoci lungo tutta la nostra esistenza. La sua è una cura misericordiosa che, in Cristo Gesù, è diventata la ricerca dell’unica pecorella smarrita, una ricerca sovrabbondante di amore e di dono. Il Pastore che non fa nessun calcolo, che rischia di perdere novantanove pecorelle pur di trovare quella che doveva trovare.
Poi la parola è certamente anche metafora, come ci ha insegnato il grande Agostino il quale diceva che in fondo, se noi guardiamo bene come stanno le cose, la realtà in senso totale e pieno è una sola, è la Trinità, la Res diceva lui. Tutto il resto sono signa, sono segni della Trinità, perché la verità del nostro parlare, della sua persona, della mia persona sta nel fatto che rinvia, per sua natura, alla Trinità. La realtà non mi può catturare, così come io non catturo lei. Ma essa è un rinvio alla grande realtà dell’amore della Trinità che ci ha aperto alla vita e che ci attende nell’abbraccio dell’eternità, nella sua casa dalle porte aperte in cui ogni uomo, che non si rifiuti, è chiamato ad entrare. Da questo punto di vista, se tutto è segno, possiamo dire, bruciando un po’ le tappe, che tutto è metafora e quindi la parola stessa è metafora. E l’uso che Gesù fa dei simboli, l’uso che fa d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le inquietudini della fede
  3. Indice dei contenuti
  4. Introduzione
  5. INTERVISTE
  6. Angelo Scola
  7. Salvatore Natoli
  8. Gianfranco Ravasi
  9. Lucetta Scaraffia
  10. Roberto Vecchioni
  11. Postfazione