Venezia città aperta
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Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec.

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Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec.

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Venezia "porta d'Oriente" seppe nella sua plurisecolare storia gestire rapporti e scambi con i diversi popoli del Mediterraneo e in generale relazioni positive con genti, culture e religioni diverse. Questo libro racconta come il governo della Serenissima seppe in particolare organizzare e regolare la presenza degli stranieri nella città. Nell'offrire un quadro concreto di popoli e fedi presenti, illustra ambiti, luoghi e modi con cui si articolava l'azione amministrativa verso gli stranieri residenti, che operavano dalle professioni più umili sino alle specializzazioni di nicchia. La concretezza, lasciataci come insegnamento dai veneziani della Serenissima, può servire a disegnare il nostro presente coinvolto nel processo di globalizzazione.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865123867
Le nationes e la città
Nel mondo romano con il termine natio (dal verbo nascor, nascere) si indicava in primo luogo un gruppo di persone legate da vincoli di nascita o di discendenza comune e quindi una popolazione, una tribù o una stirpe omogenee per origine, sangue o lingua. In età medievale questo secondo significato si caricò di ulteriori valenze etniche e socioculturali, senza tuttavia acquisire alcuna precisa connotazione politica. Nationes, ad esempio, erano le comunità di studenti universitari intese in termini assai generici, prive cioè di quei caratteri geografici e politici che si aggiunsero nel corso del XIX secolo: a Pa -dova, a metà Quattrocento, le nazioni citramontane erano ben ventidue mentre quelle ultramontane, cioè di studenti provenienti dal di là delle Alpi, sei. Se, dunque, nel corso dei secoli il termine “nazione” avrebbe acquisito il senso implicito di un’unione, un’associazione legata da qualcosa di comune, nell’età medievale e nella prima età moderna esso sottolineava piuttosto la differenziazione, se non la separazione.
Il termine natio era usato a Venezia prevalentemente per le comunità di stranieri: si usava dire «natio theutonica» per la comunità tedesca, «natione turchesca» per quella turca, e così via. Quando, però, si intendeva sottolineare il carattere chiuso o corporato di una qualsiasi comunità di sudditi, anche costoro venivano indicati come nazione; si giungeva così a parlare, ad esempio, di «natione bergamasca» per i sudditi della grande provincia lombarda.
I tedeschi
Una delle principali comunità cittadine era quella dei tedeschi immigrati o in transito in laguna, che avevano nel Fondaco dei Tedeschi il loro centro di aggregazione. A testimonianza della rilevanza economica del commercio con il bacino dell’Europa centrale, verso il quale defluivano i prodotti e i manufatti caricati dalle navi veneziane nel Mediterraneo orientale e da dove proveniva soprattutto il metallo pregiato indispensabile per il commercio in Levante, nel 1228 venne assegnato ai soli mercanti tedeschi il fondaco pubblico di San Bor to lo -meo, sull’esempio dei corrispondenti fondaci veneziani a Bisanzio e nei paesi islamici. Dall’arabo funduq (magazzino), e riconducibile al greco pandokéion (albergo), il fondaco era un edificio che conteneva le merci e disponeva di alloggi per i mercanti e il loro seguito; mentre però nei fondaci in Levante i veneziani godevano del privilegio di governare l’amministrazione interna a loro piacimento, quello veneziano assegnato ai tedeschi venne presto soggetto al controllo statale del comune.
Nel 1268 fu infatti istituita la magistratura dei Visdo -mini del Fondaco dei Tedeschi con il compito di sorvegliare tutta l’attività interna e la sua consistente comunità straniera. Il fondaco funzionava in base ad alcune regole severe, che rimasero in vigore fino alla caduta della Se -re nissima. In primo luogo vigeva il domicilio coatto dei mercanti tedeschi al suo interno, dove dovevano consegnare le armi e il denaro in loro possesso; per ogni affare costoro erano poi tenuti a usufruire della mediazione obbligatoria di appositi sensali e ogni traffico era controllato dai funzionari pubblici, che sovrintendevano allaregistrazione e allo sdoganamento delle merci. I venti sensali impiegati a tempo pieno nel Duecento furono integrati agli inizi del secolo successivo con altri dieci mediatori, a causa del numero crescente di operatori commerciali coinvolti nei traffici. Erano vietati i contatti tra i mercanti tedeschi e gli stranieri e per evitare che i primi colludessero con i sensali per frodare il dazio, il nome del mediatore incaricato di seguire un affare veniva estratto a sorte. Nel Trecento venne addirittura vietato a chiunque in città di tenere a pensione o nella propria bottega un mercante o un giovane tedesco che non fosse prima passato per il fondaco. Lo straniero era, insomma, accolto ma anche sospettato e controllato: non per un pregiudizio etnico, morale o religioso, come avverrà dopo la Riforma luterana, ma a causa della sua rilevanza economica.
Dentro al fondaco risiedevano in permanenza dai 100 ai 120 mercanti a cui si accompagnavano uomini di servizio, facchini, imballatori per un totale di circa 200 persone stabilmente residenti. Costoro avevano le proprie scuole devozionali: associazioni a carattere religioso i cui membri si ritrovavano per celebrare il santo patrono o per le funzioni di sepoltura e suffragio dei confratelli defunti, e che erano collegate alle corporazioni di mestiere. I bastasi (facchini) del fondaco ottennero nel 1413 di poter utilizzare il primo altare a sinistra della chiesa di San Bartolomeo per le funzioni in onore del patrono San Nicolò; i ligadori (imballatori) celebravano le loro funzioni nella cappella della Santissima Trinità della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, dove avevano un altare da loro eretto e un’arca di sepoltura.
Al di là della comunità mercantile che risiedeva e operava nel fondaco, la presenza di immigrati di lingua tedesca era cospicua e si distribuiva in numerose attività economiche. Da un elenco dei pistori (fornai) veneziani del 1471 si deduce che 32 dei 39 maestri erano tedeschi. Costoro ottennero nel 1422 la facoltà di mantenere una scuola devozionale intestata alla Vergine nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, nonostante il Consiglio dei dieci avesse già deciso di unificare le tre corporazioni allora esistenti di fornai veneti, lombardi e tedeschi.
A Santo Stefano avevano un’arca e un altare i calzolai tedeschi che erano stati riconosciuti in corporazione dal Consiglio dei dieci già nel 1383 e che avevano un proprio edificio a San Samuele destinato a “ospedale”, cioè ad alloggio per gli artigiani di passaggio a Venezia. Molti tedeschi erano inseriti nel comparto tessile (tessitori di lana e fustagno): quelli provenienti dall’«Alemagna Alta» si consociarono in una scuola di devozione nel 1424 presso la chiesa dei Carmini, mentre quelli dell’«Alemagna Bas -sa» chiesero di essere iscritti alla scuola dei testori (tessitori)di panni esistente nella chiesa di San Simeon Piccolo. Una specializzazione tipica dell’area tedesca era quella nei servizi ricettivi: Felix Faber, un frate di Ulm, che nel 1483 era in viaggio verso la Terra Santa e si fermò in un albergo tedesco a Venezia, annotò che tutti, dal padrone all’ultimo servo, parlavano tedesco e non si sentiva una sola parola di italiano. Si deve poi a un maestro tedesco, Giovanni da Spira, l’introduzione della stampa in città negli anni ’60 del Quattrocento, che favorì l’afflusso di molti stampatori, che risultano presenti soprattutto nel decennio 1470-80.
Nel Trecento fu particolarmente significativa la presenza nell’Arte della lana di lavoratori tedeschi, che mostrarono una turbolenza singolare, non riscontrabile in altri comparti del tessile. Essi si ritrovavano periodicamente in raduni (se ne ricordano otto fra 1375 e 1418) che degeneravano spesso in scontri con le forze dell’ordine o assalti alle case dei maestri tessitori, come nel 1408. Alla base di questi episodi di insofferenza, hanno riflettuto Luca Molà e Reinhold C. Mueller che se ne sono interessati, vi dovevano essere rivendicazioni salariali ma anche modalità di organizzazione estranee alla tradizione veneziana e tipiche della cultura del lavoro del l’Europa settentrionale. Molti di costoro erano infatti lavoranti tessitori, a metà strada tra lo status di apprendisti e quello di maestri, e dovevano probabilmente avvertire con insofferenza la rigida gerarchia di ruoli delle arti veneziane. Il governo veneziano agì con la consueta cautela, alternando clemenza e punizioni esemplari.
L’attenzione delle autorità era in primo luogo rivolta affinché nelle corporazioni la componente straniera (o una singola “nazione”) non giungesse a conquistare una posizione preponderante, in grado di esercitare un controllo su tutta l’arte. Esemplare in questo senso fu l’intervento nell’Arte della seta a fine Quattrocento, com -posta per massima parte di forestieri, tra i quali i sudditi bergamaschi erano in maggioranza. Nel 1491 le autorità limitarono l’accesso alle dieci cariche principali dell’arte a un massimo di tre rappresentanti per ogni provincia; i bergamaschi, allora, aggirarono la disposizione eleggendo i propri figli nati in Venezia, «dicendo esser viniziani». Il braccio di ferro con le autorità proseguì per almeno tre decenni, tra disposizioni restrittive e ricorsi della natione bergamasca che nel 1520 contava ancora un ruolo preponderante nell’arte, costringendo la magistratura di controllo a intervenire nuovamente. Si trattò, come hanno sostenuto sempre Molà e Mueller, di un caso esemplare di un gruppo di immigrati che si inserirono in un settore economico in cui non vantavano alcuna specifica tradizione, si impadronirono delle capacità tecniche e conquistarono così un proprio spazio politico-istituzionale, sostituendo una presenza prima egemone, quella dei lucchesi, e finendo per acquisire una posizione predominante.
Tornando alla comunità tedesca in laguna, secondo Philippe Braunstein i tedeschi in laguna formavano una «nebulosa» di cui sfuggono i confini e la consistenza. Lo stesso termine “tedesco” (teutonicus o alemanus) si rivela considerevolmente fluido. Se agli inizi del XIV secolo è indubbio che furono soprattutto i mercanti viennesi e carinziani a dare il proprio nome al Fondaco dei Tedeschi, nel Quattrocento con il termine «Alemania» si indicava un’area ancora più ampia, che andava da Bruges a Cra -covia. Solo con la fine del Quattrocento comparirà una comunità di mercanti fiamminghi che si autodefinirà tale. Per non dire, poi, del fatto che fino al 1420, cioè alla conquista veneta della Patria del Friuli, sul piano del diritto commerciale i friulani erano equiparati ai tedeschi del fondaco, e quindi molti tra di essi venivano semplicemente registrati come germanici.
Il problema di come identificare nei documenti un soggetto straniero è una questione centrale nello studio della mobilità delle persone nelle età passate. Per i secoli medievali, e per le classi sociali più basse, i patronimici erano rari. In molti casi si osserva che mentre la prima generazione degli immigrati poneva attenzione a dichiarare in ogni occasione ufficiale, accanto al nome proprio, la propria provenienza, la seconda tendeva a omettere tale informazione, ricorrendo a espressioni del tipo «Gio -vanni di Antonio». Viceversa, alcune famiglie mantenevano il patronimico originario – o la provenienza originaria trasformata in cognome – anche dopo la loro definitiva assimilazione in città. Non sempre il percorso migratorio consisteva in un unico trasferimento, ma aveva luogo per tappe intermedie delle quali poteva magari restare traccia nel cognome. Molti tedeschi, prima di giungere a Venezia, trascorrevano qualche periodo a Co ne -gliano, Serravalle, Bassano e soprattutto Treviso, e presentandosi a Venezia non di rado si dichiaravano provenienti da una di queste città, facendo di conseguenza smarrire la loro origine.
Per tutti questi motivi, è assai difficile ricostruire il profilo di una comunità di stranieri in una grande città. Senza poi tener conto che etichettare una persona come straniero solo da un labile accenno onomastico è un’operazione quasi sempre arbitraria. Nel 1519 lo stampatore ed editore tedesco Nikolaus von Frankfurt stendeva di suo pugno il testamento; dopo quarant’anni passati in laguna, dove aveva sposato una friulana, possedeva un palazzo in città e una casa con giardino a Murano, egli si firmò «Nicolò Francoforte» mascherando, o attenuando, la sua origine: «si sentiva veneziano», secondo Braun -stein, che conclude riflettendo come la nozione di straniero sia, in qualunque comunità, assai più complessa di quanto tendano a riprodurre le norme.
L’identificazione di sé come straniero o come abitante del posto passa attraverso complessi meccanismi di autodefinizione, di reputazione generale, di collocazione economica e sociale spesso slegati dalla durata della residenza. Fino al paradosso di ricercare come condizione più ambita una situazione spuria a cavallo tra naturalizzazione e l’estraneità, come dimostra il caso di quel tedesco che nel 1361 «ora si fa passare per tedesco, ora per veneziano, e ha dei figli a Venezia» e approfitta di tale situazione ambigua per frodare gli ufficiali del Fondaco.
I greci
A parte casi singoli di emigrazione familiare o individuale, solo a partire dal Duecento si trovano tracce concrete di immigrazione greca a Venezia, dovuta peraltro a ragioni politiche e non economiche. Come ha scritto David Jacoby in una recente ricostruzione della prima immigrazione greca a Venezia, la riconquista bizantina nel 1261 provocò la fuga di circa 3 mila latini, tra cui molti veneziani, che rientrarono nella madrepatria o si stabilirono nelle colonie di Levante, e anche di molte famiglie greche che scelsero come meta Venezia.
Il numero di greci che sceglievano Venezia come tappa migratoria intermedia o finale aumentò progressivamente nel corso del secolo, nonostante l’ostacolo costituito dalla religione: nell’XI secolo, infatti, si era consumato lo scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costan tinopoli, autodefinitasi da quel momento ortodossa. I greci provenivano in buon numero dalle colonie veneziane, soprattutto da Creta, ma anche dai territori sotto dominio latino o bizantino. I rapporti con le colonie non furono sempre idilliaci come gli storiografi della Re pub blica in seguito raccontarono: nel 1363 i nobili feudatari cretesi di origine veneziana si posero alla testa di una rivolta contro la madrepatria che fu duramente repressa con mercenari inviati dalla capitale. Molti di questi feudatari sarebbero stati in epoche successive riaccolti in laguna e nel corpo del patriziato di governo. Nel 1423, ad esempio, a Nicolò Dandolo e a sua moglie Marchesina fu permesso di rientrare in città e di acquistarvi immobili. Nella loro supplica giustificavano la loro scelta «per la dolcezza e giocondità che si trovano in questa città di Venezia».
Sono state ritrovate testimonianze di immigrati greci qualificati professionalmente – medici o decoratori di vetro che portarono a Murano le tecniche e i motivi ricorrenti in Levante, scrivani o notai che lavoravano nell’amministrazione pubblica ecc. – ma anche di soggetti di basso o nessun mestiere. Tra i condannati per furto compaiono prostitute, domestici liberi e vagabondi. Si ritrovano greci impiegati in varie attività artigianali e manifatturiere, ad esempio nell’Arte della seta e soprattutto nelle costruzioni navali, sia negli squeri privati che nel -l’Arsenale, ma ne risultano soprattutto di impiegati nei lavori in mare e quelli domestici: tra questi numerosi erano condotti a Venezia in schiavitù.
Creta era un importante mercato di schiavi. A Venezia si importavano perlopiù schiave, che venivano utilizzate nelle abitazioni come massare, balie o governanti. Spesso venivano emancipate per testamento e rimanevano all’interno della comunità greca di Venezia. Ma i greci lavoravano anche come servi domestici liberi, come operai e marinai. Le navi commerciali veneziane o greche che operavano in Levante avevano quasi sempre ciurme composte da greci; quando queste navi sbarcavano a Venezia, capitava che i marinai si fermassero in città, in attesa di un imbarco, magari statale. Soprattutto dopo la peste del 1348, la flotta veneziana scarseggiava paurosamente di equipaggi sia civili che militari: nel 1350, un terzo circa delle galere armate per la guerra contro Genova aveva equipaggi greci reclutati nelle colonie veneziane in Levante. Ingaggiati prima come balestrieri e arcieri sulla flotta da guerra, i greci cominciarono anche a essere utilizzati nelle operazioni belliche che portarono alla conquista della Terraferma. Gli stratioti o stradioti, erano mercenari greci o albanesi che formavano unità di cavalleria leggera e che vennero utilizzati dalla Repubblica nei Balcani e in Levante tra XV e XVI secolo.
Ovviamente vi erano non pochi greci che esercitavano la mercanzia, anche grazie alle norme che sin dal Tre -cento consentivano ai sudditi orientali di trafficare liberamente all’intero del «Golfo», cioè dell’Adriatico. La fa -miglia Filomati (in greco Philommates) appare tra le più cospicue del XV secolo. Oriundo di Candia, Andrea Filomati abitava a San Cassiano e trasportava da Creta a Venezia su proprie navi vino malvasia, riesportandolo fin nelle Fiandre e in Inghilterra. Il fratello Antonio vantava addirittura la qualifica di cittadino originario e poté, grazie a questo, candidarsi al prestigioso ufficio di notaio del -l’Avogaria di Comun, una delle più importanti magistrature marciane. Altri due fratelli, Giorgio e Demetrio, si alternarono nella carica di console veneziano a Salo nic co, prima e dopo la breve occupazione veneziana della città. Altri membri della famiglia della generazione successiva appaiono dediti all’esportazione di grano dalla Puglia a Creta. Questi diversi incarichi consentivano ai Filomati di allargare la rete dei loro traffici, che verso metà secolo si estendevano tra Costantinopoli, Creta, Ales sandra e, ovviamente, Venezia: a tale strategia era funzionale la dispersione dei vari membri della famiglia nei punti nevralgici della rete internazionale dei commerci.
Una componente rilevante dell’immigrazione greca era quella intellettuale. Sin dalla prima espansione nel Mediterraneo orientale a Venezia vi era stata richiesta di traduttori, interpreti, copisti e insegnanti di greco per il personale dell’amministrazione marciana. Man mano che l’umanesimo avanzò nella riscoperta della cultura classica, ne risultò stimolata la scoperta e lo studio dei testi classici. Fondamentale in tal senso fu il concilio di Ferrara-Firenze, che si tenne nel 1438-39 per sostenere il tentativo, appoggiato anche dall’imperatore, di riunire Chiesa bizantina e Chiesa romana nella prospettiva di una lotta congiunta contro gli ottomani. Al concilio ebbero modo di partecipare circa 700 fra prelati, dotti e umanisti bizantini, che sbarcarono a Venezia ed ebbero modo di soggiornare in città. Giorgio Fedalto ha scritto che «costituirono una specie di cassa di risonanza della sua ospitalità e delle sue meraviglie».
Il più famoso tra costoro fu senza dubbio il cardinale Bessarione (1408-1472) che, esule in Italia dopo la conquista musulmana di Costantinopoli, donò alla Re pub -blica la sua preziosa collezione di volumi, destinata a costituire il nucleo originario della Biblioteca Marciana. Nel 1468, per esternare i sentimenti di riconoscenza verso la città, che lo portavano a disporre che la sua eredità a favore di Venezia, così scriveva al doge:
Come tutti i popoli di quasi tutto il mondo si raccolgono nella vostra città, così specialmente i Greci. Arrivando per mare dalla loro patria essi sbarcano primieramente a Venezia, costretti dalla necessità a venire nella vostra città e abitare tra voi, e qui sembra loro di entrare in una seconda Bisanzio.
La conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453 e la crescente, successiva aggressività turca accelerarono la diaspora dei greci dai territori orientali; molti si stabilirono prima a Creta o a Negroponte, e quindi passarono in un secondo momento nella «seconda Bisanzio». Il pericolo costante dell’espansione ottomana favorì anche l’espatrio da tutti i territori sotto minaccia: il Pelo pon -neso, Atene, le isole Ionie e quelle dell’Egeo.
Al culmine della scala sociale degli immigrati greci è possibile collocare coloro che giunsero a sedere nel Maggior Consiglio lagunare, i ricchi mercanti di cui si è già detto, prestigiosi prelati e altri che arrivarono ad acquisire l’ambito titolo di cittadino originario: ovviamente elencarli anche solo sommariamente è impossibile, prima che inutile. Di esempio basti il caso dei Lippomano. Quan do a fine Trecento la Signoria fece sapere che avrebbe cooptato trenta famiglie nel patriziato per ricompensarle del sostegno economico dato nella guerra contro Genova, tra le sessanta famiglie che presero parte alla competizione per entrare nel patriziato la «storia più veloce di mobilità verticale» (R.C. Mueller) fu quella dei Lippomano, originari di Negroponte e che sembrano essersi trasferiti in città appena prima dell’inizio della guerra. Le loro fortune economiche sarebbero continuate per tutto il secolo successivo, fino alla fondazione di una delle principali banche di Rialto (che tuttavia fallì nel 1499).
Sul gradino opposto della scala sociale degli immigrati greci vi erano ovviamente ladri, truffatori, prostitute, vagabondi, dropout e altre categorie della popolazione marginale. Anche costoro avevano una propria “aristocrazia”, alla quale va ascritto di merito quello Stamati Crasioti di Creta che nel 1449 riuscì a rubare gioielli, gemme e pietre preziose del tesoro di San Marco con un’impresa che lasciò ammirati anche i giudici che lo interrogarono e condannarono. Significativo anche il modo in cui un tale professionista venne preso, tradito da un povero nobile candioto, cioè rientrato da Creta, al quale il ladro aveva mostrato la refurtiva. Il Crasioti venne giustiziato «tra le colonne» e al delatore che aveva permesso alla giustizia di recuperare un tesoro così prezioso venne data una pensione, una ricompensa e terre in Candia.
Come si è detto, l’ostacolo maggiore all’immigrazione dei greci a Venezia, e all’assimilazione nella comunità cittadina delle seconde e terze generazioni, era dato dalla ques...

Indice dei contenuti

  1. Venezia città aperta
  2. Titolo
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Presentazione di Paolo Costa
  6. Prefazione di Giuseppe del Torre
  7. Immigrazione e integrazione in una metropoli del passato
  8. L’impero coloniale veneziano e la costruzione dello Stato repubblicano
  9. Le politiche di immigrazione tra Tre e Quattrocento
  10. Le nationes e la città
  11. Prestatori ebraici, setaioli lucchesi e mercanti fiorentini alla fine del medioevo
  12. Infedeli, ebrei ed eretici nelle guerre del primo Cinquecento
  13. Aprire ai forestieri? Religione e commerci nel secondo Cinquecento
  14. Turchi, ebrei e armeni tra Sei e Settecento
  15. Immigrazione e mondo del lavoro
  16. Abitare a Venezia
  17. Emarginati e mendicanti, visitatori e grantouristi
  18. Conclusioni
  19. Bibliografia