Anche la preghiera accoglie e trasmette la luce, ma trattiene pure un po’ di tenebra, un po’ dell’oscurità che ogni epoca porta con sé. La facciata della basilica (TAV. 1) ne è un esempio. Bisogna osservarla bene. E per poterlo fare basta collocarsi nel posto giusto: nell’unico luogo che a Venezia si chiama Piazza (non vi sono altre piazze ma soltanto campi, campielli e corti) e che si prolunga in due Piazzette, l’una che si allarga a sud verso il bacino, l’altra a nord denominata «dei Leoncini» e recentemente intitolata a papa Giovanni XXIII, che per cinque anni, durante il suo ministero veneziano, vi si affacciò spesso dal balcone del suo palazzo patriarcale. In Piazza basta alzare gli occhi e fissare lo sguardo sulla facciata principale.
Ci si accorge, subito, che essa invita a pregare: l’immagine della croce cosmica che svetta sulle cinque cupole, proclama alto nel cielo la salvezza universale grazie alla redenzione operata da Gesù Cristo.
Presenta, poi, sulla sommità del coronamento gotico costruito nel primo Quattrocento, una statua – opera di Niccolò Lamberti – che poggia su una base, che ha la forma di un fiore, sostenuta ai lati da due leoni. Si riteneva generalmente che rappresentasse il titolare, san Marco. Recenti ricerche hanno, invece, appurato che si tratta dell’immagine di Gesù Cristo: con una mano benedice, con l’altra tiene il libro, proprio come lo si vede, sulla stessa facciata, nel semicatino musivo, all’ingresso della porta di Sant’Alipio, e, all’interno della basilica, nella Deesis sulla controfacciata, oltre che nel Pantocrator dell’abside.
Ai due lati del medesimo coronamento, abbellito da fiori e foglie d’acanto, tre coppie di angeli si dispongono in atteggiamenti diversi: quelli collocati più in alto tengono il turibolo, quasi per invitare a far salire verso il Salvatore il profumo dell’incenso, considerato nei testi biblici simbolo della preghiera (cfr. Sal 141,2; Ap 5,8; 8,3-4); seguono altri due che con l’aspersorio e il secchiello dell’acqua rappresentano la risposta della benedizione divina sullo Stato veneziano; gli ultimi due con il loro atteggiamento devoto, le braccia incrociate sul petto, tendono a coinvolgere i fedeli nell’adorazione.
La figura di san Marco, pur ridimensionata in quest’ordine gerarchico dalla critica, è evocata, subito al disotto, nello spazio di un cielo azzurro e stellato, dall’immagine simbolica del leone alato che ostenta il libro aperto con l’augurio di pace che, secondo la nota leggenda, l’evangelista avrebbe ricevuto da Gesù Cristo, mentre si trovava in prigione ad Alessandria d’Egitto nei giorni del suo martirio: Pax tibi, Marce, evangelista meus. Una pace ora augurata alla città che vive sotto la sua protezione. Nelle lunette del registro inferiore sono narrate le vicende della translatio – trasferimento delle sue reliquie da Alessandria d’Egitto a Venezia – in corrispondenza chiastica con le scene cristologiche che si aprono con la deposizione dalla croce e si concludono con la gloria dell’ascensione, raffigurate nelle lunette del registro superiore.
D’altro lato, non mancano – come si diceva – le ombre. San Marco, nella consapevolezza dei veneziani, fu per secoli non solo e non tanto l’evangelista, non solo il protettore della città religiosa e devota, quanto piuttosto il patrono dello Stato – Repubblica di San Marco – e addirittura significò la personificazione dello Stato. Il grido «viva san Marco» non fu mai un’espressione religiosa: in una celebre pagina di romanzo risuona come grido di esultanza per la salvezza raggiunta dal protagonista sulla riva bergamasca dell’Adda; nella realtà della storia veneziana fu per secoli grido di battaglia. In nome di san Marco venne compiuta la IV crociata, scomunicata da papa Innocenzo III e ricordata ancora con orrore dai cristiani d’Oriente. E dell’assedio e del saccheggio di Bisanzio si perpetua la memoria sulla loggia della basilica con i celebri quattro cavalli di bronzo, che sarebbero assurti, però, già nel Duecento, sempre secondo la critica recente, a rappresentare la Quadriga Domini, i quattro evangelisti.
Altre quattro statue, coronate dall’aureola, sovrastano le lunette cristologiche, già menzionate, parlando ancora oggi di santità. Sono copie, risalenti al secolo XVII, delle originali opere lambertesche del Quattrocento, abbattute dal terremoto del 1511: costruite per ricordare «i quattro cavalieri di santa Chiesa», santi onorati a Bisanzio e riproposti a Venezia, che di Bisanzio si considerava l’erede – la terza Roma – ma conosciuti e venerati pure altrove, pure in Occidente. Di essi Demetrio, Giorgio e Teodoro dicono poco oggi anche all’anima devota. Di incerta identità non solo Giorgio, come si sa, ma anche Demetrio che nei mosaici di Tessalonica, dei secoli VI-IX, appare diacono, poi, nel mondo slavo e greco, soldato; e Teodoro di Amasea soldato e martire del secolo III che dal secolo IX viene sdoppiato in Teodoro di Eraclea, generale e martire. Essi furono considerati santi soldati e testimoni di virtù guerriere. Per questo vennero proposti sulla facciata della basilica, allora cappella del doge e chiesa di Stato, perché patroni nelle battaglie della repubblica: le immagini di Demetrio e di Giorgio sono reduplicate sulla stessa facciata in due rilievi che eloquentemente li raffigurano nell’atto di sguainare la spada. La quarta statua rappresenta un altro soldato, assurto però all’onore dell’impero, Costantino, pure lui venerato ancora oggi nella Chiesa orientale: «isoapostolo» – considerato eguale agli apostoli – per la protezione accordata al cristianesimo perseguitato e per la difesa dell’ortodossia al concilio di Nicea; ritenuto santo anche dall’Alighieri «per la sua conversion» (Inferno, 116); senza alcuna riserva, tuttavia, da parte di Venezia, né per il suo essersi fatto «greco» che, trasferendo la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, «sotto buona intenzion fé mal frutto» (Paradiso XX, 57), né per la «donazione» fatta al «primo ricco patre». Tale donazione non venne deprecata dalla Serenissima Repubblica con i toni dell’invettiva dantesca («di quanto mal fu matre»), ma addirittura fatta valere a proprio vantaggio, rammentata ai papi – come ricorda Antonio Niero in un suo saggio – perché, secondo la dichiarazione dell’ambasciatore veneziano Girolamo Donà a papa Alessandro VI, «nell’attergato» del «Patrimonio di san Pietro» si poteva trovare «scritta la concessione del mare Adriatico fatta ai Veneziani».
Come accade per certi capitoli dell’Antico Testamento, anche la pagina scolpita sulla facciata della basilica va riletta, reinterpretata e attualizzata in sintonia con il clima dei tempi oggi mutati. Nuovi significati vengono suggeriti dalla trasformazione della cappella ducale in chiesa cattedrale del Patriarcato di Ve...