La lingua e la frontiera
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La lingua e la frontiera

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Informazioni sul libro

Ogni paese, ogni popolo, ha il suo "altro", non realmente differente, ma specchio delle proiezioni collettive.
Con una scrittura sempre accessibile, con lo sguardo di testimone, oltre che di psicoanalista, Nazir Hamad prende parte nel dibattito contemporaneo, in particolare riguardo all'etno-psichiatria. In modo vivace e profondo, abborda i problemi posti dal nome di famiglia straniero, la questione della relazione con il padre, quella della lingua straniera e del poliglottismo e la sfida del mondo moderno all'identità musulmana.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788865125168
Argomento
Psychologie

1. Il privato e il pubblico

 
Nel 1985 è uscito Un uomo di parola[1], il primo tomo della mia trilogia Parole dall’Oriente. Si tratta di una saga familiare che traccia la storia di una famiglia della pianura della Bequaa, in un arco temporale di cento anni. La saga comincia con la prima guerra mondiale e termina con la fine del XX secolo. A mio parere si trattava di una storia privata, un po’ esotica e soprattutto lontana dalla cultura occidentale. Mai avrei pensato che tali personaggi e avvenimenti potessero presentare una qualche prossimità con personaggi e avvenimenti della cultura dei miei lettori, in Francia o in altri paesi occidentali.
Sono stato costretto a ricredermi, con mia grande sorpresa. Il lettore comune, come pure i critici più eruditi, vi aveva trovato elementi in comune con la Corsica, l’Alvernia, Marsiglia e altri posti ancora. L’opera letteraria, che avevo concepito come un racconto privato, si rivelava umanamente condivisibile, al punto che tanti lettori vi avevano potuto riconoscere un nonno, una nonna o uno zio. Ancor più, i fatti esotici che tendevo a credere specifici della mia cultura erano, invece, frequenti in diverse regioni francesi: la verginità, l’onore familiare, il sacro rapporto con la terra, la gelosia e la rivalità tra paesani, l’odio accecante tra i componenti di una stessa famiglia si sono rivelati, con mio grande stupore, valori universali, nei quali il mio lettore poteva ritrovarcisi, qualunque fosse la sua origine o la sua cultura.
Ma la vera sorpresa l’ho avuta in Libano: c’era sempre qualche lettore libanese che non si riconosceva nei miei personaggi, ancor meno nel mio racconto. Un cristiano, sicuro dell’appartenenza alla civiltà cristiana, mi diceva che la saga non aveva niente a che vedere con i cristiani libanesi e che non si dovevano confondere le due religioni, nell’avvicinarsi alla cultura libanese. Un cristiano, sicuro della sua civiltà cristiana, non poteva accettare di identificarsi nei personaggi della saga o nei loro atti. Allo stesso modo, un musulmano, altrettanto sicuro dell’autenticità della sua cultura musulmana, non poteva che rifiutare la furberia dei cristiani o la loro forsennata occidentalizzazione.


 
 
[1]   [N.d.T.] N. Hamad, Un homme de parole, Naufal, 1984.

L’altro diverso non è quello che si crede

 
Ecco la scoperta che avevo fatto grazie alla mia saga: l’altro diverso non è quello che si crede. Non era l’Occidentale e non avrei avuto bisogno di andare a cercarlo così lontano. Mi sarebbe bastato cambiare quartiere o attraversare la strada per incontrarlo. La diversità mi è apparsa allora come una rivendicazione, talvolta ideologica, talvolta religiosa; in ogni caso, è stata reclamata come tale per definire un interno, un «noi», da opporre ad un esterno che non fa «noi».
Ne ho fatto esperienza a più riprese nei luoghi in cui diversi conflitti opponevano tra loro popoli o gruppi umani. I conflitti si giustificano del rifiuto di condividere valori o riferimenti comuni. Questo tipo di rifiuto non ha bisogno di essere assennato per diventare credibile. È credibile per il fatto di essere passionale. Una passione non si preoccupa dell’ignoranza delle persone che la vivono. Al contrario, essa vive dell’ignoranza, elevata allo statuto di divinità, come ho potuto verificare negli incontri fatti nel corso del mio ultimo viaggio a Gaza.
Ho avuto, infatti, questa occasione davvero unica di trovarmi a Gaza nell’ottobre del 1993, nel momento della firma degli accordi di Oslo. Partecipavo al congresso dell’Associazione della Salute mentale di Gaza e tutti erano impazienti di vedere finalmente la pace divenire realtà. Nell’attesa, i due schieramenti erano sempre sul piede di guerra. I soldati israeliani, con il fucile spianato, scrutavano con diffidenza i giovani palestinesi, sempre pronti a scontrarsi con loro. Molti di questi giovani ci giravano attorno alla ricerca di un contatto. Gli organizzatori facevano di tutto per evitarlo, ma sono riuscito, dopo qualche tentativo, a distrarre la sicurezza ed andare verso questi adolescenti. Erano felicissimi di trovare qualcuno che parlasse la loro lingua. Probabilmente sapevano che il nostro colloquio non sarebbe durato a lungo, infatti mi consegnarono in tutta fretta il loro messaggio: «Non vogliono che vi si parli. Hanno paura di noi, paura di quello che abbiamo da dirvi. Hanno anche paura di noi, come dei soldati israeliani. Noi non abbiamo paura perché sappiamo che alla fine vinceremo. D’altronde, il Profeta ci ha detto in una hadîth che arriverà il giorno in cui l’ebreo andrà a nascondersi dietro alle pietre e agli alberi e questi chiameranno i musulmani per dir loro: ‘c’è un ebreo dietro di noi, venite ad ucciderlo’. Tutti gli elementi denunceranno gli ebrei, tranne l’albero el-Gharkad». Ho commentato con un tono un po’ beffardo: «Allora non c’è più speranza per loro, saranno tutti morti». Un giovane mi ha risposto, con tono deciso: «In questo caso, avranno raccolto ciò che hanno seminato». Quest’affermazione provocò un certo disagio in noi e, non volendomi soffermare su questo, ho domandato ai ragazzi se a loro interessasse come io comprendevo questa hadîth. Erano curiosi di ascoltare: «Il Profeta voleva dire che c’è sempre qualcosa o qualcuno che rifiuta l’unanimità e si autorizza a dire ‘no’. Questo salva, tanto più se questa unanimità si compie in nome dell’esclusione o del sacrificio dell’altro diverso. Questo qualcuno ha un nome: si chiama ‘il giusto’». Uno di loro mi ha risposto che ero un bizzarro imam e ci siamo congedati senza altri commenti.
La firma degli accordi di Oslo è avvenuta qualche ora più tardi. La popolazione palestinese è uscita a festeggiare questo avvenimento, con molta gioia e soprattutto con molta dignità. Ho incontrato alcuni degli adolescenti che stavano festeggiando l’avvento della pace e mi stupii molto quando li vidi abbracciare dei soldati israeliani, d’improvviso divenuti buffi, con i loro fucili che non servivano più a niente. Testimone di questa oscillazione nel loro approccio all’altro supposto nemico, mi sono domandato a lungo, e me lo domando ancora oggi: «Che cosa diventa l’odio, quando i nemici di ieri decidono di cessare il fuoco e di decretare la fine delle ostilità?» Qual è la forza invisibile che aveva spinto dei giovani, pronti a morire o ad uccidere il nemico, appena un minuto prima della firma degli accordi, a dimenticare lo stato di guerra e ad andare verso i soldati nemici per abbracciarli e perdonarli? Mistero! E adesso, quando ripenso a quell’episodio, credo che i dirigenti di entrambe le parti abbiano irresponsabilmente tradito la speranza nella quale la giovane generazione aveva profondamente creduto. Coloro che non hanno saputo cogliere questo momento di oscillazione, operato dalla generazione più giovane, quando la speranza della pace era permessa, dovrebbero essere consapevoli del fatto di aver coltivato la morte, della quale essi stessi sono divenuti i mandanti e i loro popoli gli agenti.
 

Quando il riferimento divino crea la frontiera

 
Ho visitato Gerusalemme. Davanti al muro del Pianto ho incontrato un francese, stabilitosi recentemente in Israele. Mi ha raccontato la sua felicità nell’essere riuscito a realizzare il sogno di raggiungere la Terra Promessa. Gli ho risposto, con un tono un po’ sarcastico: «Spero che la sua felicità non sia causa dell’infelicità di altri abitanti di questa stessa terra». Mi ha risposto che non faceva altro che eseguire il suo dovere di ebreo. Ho voluto forse turbare la tranquillità della sua coscienza e gli ho raccontato la storia dell’adolescente con il suo riferimento religioso. Il mio interlocutore si rivelò più sicuro del suo diritto di quanto avessi creduto, poiché mi rispose, in tono disgustato: «Vede bene come sono, non si può discutere con loro». Ecco il mio uomo: non appena installatosi in Israele, era divenuto intrattabile e soprattutto incapace di comprendere che il riferimento a Dio, che utilizzava per giustificare i suoi atti, non faceva che legittimare i simili riferimenti al sacro del campo opposto. In questo modo, ogni riferimento trova la sua ragion d’essere unicamente nell’occultazione dell’altro.
In un caso come nell’altro, il riferimento all’Altro Sacro dispensa dal render conto di quel che si dice o di quel che si fa, poiché inverte il rapporto con il senso di colpa. Non c’è senso di colpa inerente agli atti, per biasimevoli che possano essere, quando ci si sente missionari. Un atto violento diventa tanto più purificatore, quanto più mira a levigare l’immagine dell’Altro Sacro, in qualche modo minacciata dalla presenza dell’altro diverso e, soprattutto, dalla pretesa di condividere qualcosa di questa verità assoluta. Scacciare l’altro diverso diventa una violenza sacra, fa di noi degli angeli trionfatori o dei martiri eletti.
Ho ripensato alla mia discussione con quell’uomo, all’entrata della spianata della moschea Al-Aqsa. I guardiani mi avevano domandato se fossi musulmano: un non-musulmano non aveva il diritto di entrarvi durante l’ora della preghiera. Quando ho risposto affermativamente, qualcuno mi ha chiesto di darne la prova. E come provarlo? «Recitando versetti del Corano!», mi risposero. Ma un cristiano o un ebreo potevano aver imparato a recitare dei versetti a memoria; peggio ancora, potevano aver imparato a fare le preghiere e così un non-musulmano poteva farsi passare per un musulmano. Vedendo che i miei argomenti cadevano nel vuoto, ho finito per dire: «Dio lo sa, e se qualcuno mi impedisce di entrare, sarà punito nell’aldilà!».
Il malinteso tra me e «i guardiani del tempio» era di altra natura: essi volevano che dessi prova del fatto che ero un loro simile, quel simile che fa parte del «noi», in opposizione a un altro gruppo che non fa parte del «noi». Siccome rispondevo loro che non ero simile, il messaggio non passava più.
All’aeroporto di Israele non si timbra il passaporto dei passeggeri dei cittadini residenti all’estero originari dei Paesi arabi, per evitar noie con la polizia del paese d’origine. Quando ho teso il mio passaporto all’impiegata della dogana, questa mi ha domandato se volessi un ricordo d’Israele. Le risposi che non avevo un’idea precisa sulla cosa. Allora mi ha chiesto di tendere la mano e me l’ha timbrata. Le ho detto allora che aveva ragione e che avevo capito il senso del messaggio: il solo rapporto che abbiamo con il corpo dell’altro, nello stato attuale del conflitto, è bucarlo, trafiggerlo di proiettili, ma esiste un’altra modalità più simpatica di avere un rapporto con i nostri corpi: quella di imprimervi il marchio della lettera.
Questi incontri mi hanno ispirato alcune delle riflessioni che s’impongono in questo saggio. La dicono lunga sullo statuto dell’altro che si vuole diverso e che, con la sua supposta diversità, valida il nostro statuto di essere il simile nel «noi» che vogliamo comune.
Questo «noi», spinto in tal modo alla sua estrema espressione, ha la funzione di mettere ciascheduno nella posizione di dover rispondere di quel che lo costituisce in quanto simile e di rinunciare così a quel che fa la propria autenticità di soggetto. Occorre dunque tradire la certezza dei nostri per inscriverci in una nuova cultura, pur rimanendo in accordo con i riferimenti simbolici?
Credo di sì. Chiamo questo tradimento il rifiuto dell’adesione incondizionata ad ogni verità che si pretenda assoluta. Ogni volta che una verità assoluta funziona nel diniego dell’altro supposto diverso, il dovere di dissociarsi da questa verità s’impone.
Questo tradimento è primordiale, poiché ognuno di noi possa comprendere che l’altro non è l’altro della differenza e che il «noi» non è il «noi» che cancella le differenze. Tradire un po’ si deduce dall’etica, che è inammissibile ignorare, secondo la quale ciascuno è responsabile di quel che fa e di quel che dice.
Questa presa di posizione è un atto di coraggio, implica l’etica del soggetto che rifiuta di avvallare l’inaccettabile. Pierre Legendre chiama questo «il dovere di disubbidire», quando i fatti o le parole dei nostri simili prendono una piega il cui rischio maggiore è quello di provocare la caduta del nostro stato d’uomo di cultura. Le ultime guerre, come quelle della Bosnia, del Kosovo, del Ruanda, del Libano, della Cecenia o ancora la guerra israelo-palestinese, sono esempi eloquenti che ci dimostrano che il barbaro è una realtà costante nella storia dell’umanità e che ugualmente condividiamo questo barbaro con gli altri che chiamiamo nemici.
La storia ci ha insegnato che quando le passioni si scatenano cadono gli interdetti che riguardano l’integrità del corpo e della cultura dell’altro designato come nemico. È il momento in cui non abbiamo più il diritto di essere partigiani di un campo o di un altro, dobbiamo dire la sola parola giusta: «No, non in mio nome».
Vedremo nel secondo capitolo come questa posizione possa essere inconscia. Essa permette all’individuo di fare quel passo indietro necessario per sfuggire alle forze che frenano l’accesso al proprio desiderio di soggetto.
 

2. Riferirsi alla cultura come a una struttura di linguaggio

Tradire un po’


L’idea di uno scarto possibile che permette ad un tempo la scoperta dell’altro e la relativizzazione dei valori di appartenenza, potrebbe essere sottesa alla scelta di partire, di lasciare i propri cari, come hanno fatto molti immigrati in Francia. Partire, quando non ci si può separare, appare come un atto fondamentale che permette all’individuo di arrischiarsi nella perdita per reperirsi meglio. Si tratta di esporsi al rischio dell’altro, dei suoi costumi, della sua lingua e del suo specchio. Un’esposizione tanto più necessaria, in quanto fornisce una griglia di lettura della differenza che permette di riesaminare i propri riferimenti, di rivalutarli e di ri-situarsi contemporaneamente in rapporto ad esse ed al proprio gruppo.
Questa operazione implica necessariamente un cammino individuale, dettato da un desiderio forte. Si tratta, per chi si candidi alla partenza, di togliere l’anonimato che lo colpisce per il fatto di appartenere a un gruppo o a una cultura che tendono a confinarlo moralmente e intellettualmente in una stretta cornice. O ancora, quando l’individuo è sottomesso all’arbitrarietà di un regime politico nel quale si perdono i diritti elementari e la possibilità di ricorso.
D’altra parte, questo cammino può avere uno stretto rapporto con il complesso di Edipo o, più precisamente, con il momento dell’uscita da questo complesso. Esso concerne il destino del padre della realtà. Questo padre, di fronte al quale il bambino rivalizza per la madre, e che, attraverso la sua presenza bisognosa, introduce la castrazione, è chiamato a scomparire, al momento del declino dell’Edipo, dietro al padre immaginario. Tale movimento di distacco dal padre reale è provocato da ciò che implica per il bambino la presa di coscienza del sessuale nei genitori reali: egli li sostituirà con dei genitori immaginari che prenderanno il posto dei vecchi genitori, quelli che aveva conosc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La lingua e la frontiera
  3. Indice dei contenuti
  4. Introduzione “… non puoi più nasconderti…”
  5. Prefazione
  6. Introduzione
  7. 1. Il privato e il pubblico
  8. L’altro diverso non è quello che si crede
  9. Quando il riferimento divino crea la frontiera
  10. 2. Riferirsi alla cultura come a una struttura di linguaggio
  11. Tradire un po’
  12. Se l’uomo è povero il suo desiderio può non esserlo
  13. Un approccio clinico
  14. La relazione speculare
  15. A quale Altro affidarsi?
  16. L’etnopsichiatria, o il riadattamento del soggetto al discorso del suo gruppo
  17. Essere della stessa cultura del proprio paziente è un vantaggio?
  18. Scacciare l’inconscio
  19. 3. La verità storica in psicoanalisi
  20. I tre tempi costitutivi
  21. Il tempo storico
  22. Il tempo storico e l’uccisione del padre
  23. A ciascuno il suo Altro
  24. 4. Il XXI secolo sarà religioso o…
  25. Quando non si ha fiducia nell’inconscio
  26. Sapere, ma in nome di chi?
  27. L’ironia non è un motto di spirito
  28. L’insostenibile disagio generato dalla mancanza di uscita
  29. L’appello al padre onnipotente
  30. 5. Le frontiere dell’Altro
  31. Un approccio etnologico
  32. L’11 settembre ha partorito nuove frontiere
  33. L’integralismo non è appannaggio dell’Islam
  34. Il riferimento ai tratti culturali funziona come un meccanismo di difesa
  35. L’etnopsichiatria alla francese non è quella di G. Devereux
  36. Qualche sorpresa in rapporto alla comune appartenenza culturale
  37. 6. La terra promessa
  38. Il corpo che viene rimpatriato
  39. Che cosa mette radici nel paese di accoglienza?
  40. Il corpo e il focolare
  41. Il ritorno del figliol prodigo
  42. Perpetuare una cultura morta
  43. Il legame alla terra
  44. 7. Poliglottismo e psicoanalisi
  45. La lingua materna e la lingua di cultura
  46. Lo statuto della lingua di cultura
  47. La lingua materna e la rimozione
  48. La cura analitica, in quale lingua?
  49. Negoziare il rigore del super-io
  50. Relativizzare la questione dell’appartenenza
  51. L’inconscio è poliglotta
  52. 8. Poliglottismo e psicoanalisi II
  53. Freud e le lingue straniere
  54. La dimenticanza del nome Signorelli
  55. Sbarazzare il linguaggio dal suo residuo materno
  56. Il bilinguismo è una realtà costante
  57. La cura è una lettura delle diverse lingue
  58. 9. Poliglottismo e psicoanalisi III
  59. Le peregrinazioni dei significanti
  60. Il mutismo come divieto di attraversamento delle barriere della lingua materna
  61. Parlare la lingua di cultura come traduttrice
  62. Il Sinnliche (il sensuale)
  63. Quando la discriminazione razziale fa decadere la lingua materna
  64. Il padre umiliato
  65. 10. Il viaggio del patronimico attraverso le lingue
  66. Trasgredire la legge del paese di accoglienza non è reato
  67. Fare la propria legge a partire dalla trasgressione della legge
  68. La fragilità del patronimico
  69. Quante generazioni devono passare perché il patronimico entri nell’anonimato?
  70. I rischi in cui incorre il patronimico
  71. Lo pseudonimo e il rimosso
  72. 11. Il patronimico al rischio delle altre lingue
  73. Quando il nome diventa quel che significa
  74. Quando l’Altro non supporta l’intacco
  75. Quando la cultura d’accoglienza priva il nome dei suoi punti di riferimento abituali
  76. L’integrazione impossibile
  77. 12. Quando il tessuto simbolico si lacera
  78. Un’alleanza logica
  79. L’odio e lo smarrimento
  80. Il tra-due è da nessuna parte
  81. Fottere
  82. Il padre della realtà
  83. Il maiale è l’unico interdetto che ancora tiene
  84. Una traversata del deserto
  85. 13. Il velo islamico
  86. Il prezzo da pagare
  87. La Fatima, un’immagine di Epinal
  88. Il velo, tra Dio e il diavolo
  89. 14. Il soggetto nell’Islam
  90. È scritto
  91. Responsabilità individuale e dimissione soggettiva
  92. Leggere in nome dell’Altro
  93. Il soggetto è là da sempre
  94. La verità, un andirivieni tra il contingente e il trascendente
  95. L’inconscio del Profeta
  96. Sono solo un uomo
  97. L’ingiunzione di leggere
  98. 15. Il testo originario
  99. La lingua originale
  100. Lo spostamento pulsionale verso il sonoro
  101. Conclusione