I Dorostellati
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Psicopolitica all'italiana: dalla DC a Grillo

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Psicopolitica all'italiana: dalla DC a Grillo

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Questo è un libro che, sotto forma di intervista, tenta di spiegare da dove vengono i grillini, che professano di non far parte di un partito.
Secondo Alessandro Meluzzi (che risponde alle domande del giornalista Giuliano Ramazzina) esiste un elemento in comune tra
Movimento 5 Stelle e Dorotei, una corrente della Democrazia Cristiana che ha governato l'Italia fino al 1994. Smontando pezzo per pezzo il doroteismo di matrice democristiana, questo approccio psicopolitico ha lo scopo di interpretare il successo pentastellato dell'ultimo anno.
Come fa un neonato movimento, composto da non addetti ai lavori, a diventare il secondo partito d'Italia? Com'è possibile che abbia tanta presa sul popolo italiano?

Domande frequenti

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Informazioni

1. Sempre in maggioranza

Stare sempre in maggioranza. Il comandamento doroteo è a conti fatti inossidabile. È un concetto che sopravvive ai tempi e che sembra perfetto per un’Italia che marcia, dopo il Patto del Nazareno verso il Partito della Nazione. Anche il Parlamento, almeno due terzi di chi lo occupa in fondo auspica esattamente questo: stare in maggioranza, in qualche modo, ma in maggioranza. Questa legge dorotea si applica a tutti, una volta varcato il Palazzo e preso confidenza col potere. Perché questo ‘homo’ politico sente solo l’attrazione di gestire sempre il potere e non di considerarlo solo una parentesi, inebriante e appagante, ma pur sempre a termine? Cosa nasconde nel profondo psicologico questa voglia di potere eterno, questa ‘droga’ fatta di risultati e di fatti e, quindi, di affari lontana dal concetto di politica come servizio non necessariamente finalizzata ad arricchirsi, a fare carriera, a rincorrere il successo personale?

Von Clausewitz amava ripetere che la politica è la prosecuzione disarmata della guerra come la guerra è la prosecuzione armata della politica. Quindi, c’è intrinsecamente nella politica il tema della conquista e mantenimento del potere. Fin dalla Repubblica di Platone l’idea per cui la concezione della politica come servizio, figlia della cultura soprattutto giudaico-cristiana, sia preceduta da un impianto onnicomprensivo è ben presente nella classica rotazione dei sistemi politici di potere, laddove si spiega che la forma naturale del potere e del suo mantenimento è la regalità e la monarchia che degenera in tirannide. Il potere dell’uno come arbitrio. Ma il potere dell’uno suscita la reazione dei migliori ( aristoi), da cui aristocrazia. Il potere dei più nobili, che degenera nel potere dei pochi. Oligarchia. Ma l’oligarchia suscita la reazione del popolo, il demos, che prende il potere con la democrazia, che però, considerato il livello discutibile di coloro che si impadroniscono del potere, degenera in demagogia, il potere dei peggiori. E di qui il ciclo riprende con il restaurarsi della monarchia. La politica, la sua logica, le sue leggi e i suoi metodi, ben si sa in quali gangli di questo ciclo eterno si inseriscono.

Giuseppe Brugnoli, storico direttore del Giornale di Vicenza, terra che diede i natali al democristiano Mariano Rumor e quindi profondamente dorotea, nel 2011 sulla Domenica di Vicenza scriveva: “Ai tempi belli del doroteismo imperante dalle nostre parti, vigeva nella politica locale una massima che era diventata proverbiale: la cultura non fa voti. Essa faceva il paio con un altro assunto apodittico: tette, soldi e voti non ce ne sono mai abbastanza”. Il doroteismo come emanazione della Dc ripreso poi con altri mezzi da Lega, Forza Italia, è in effetti così pragmatico e cinico, anche se poi Berlusconi ha fatto di tette e soldi la sua forza, da escludere la cultura ‘sterile’ elettoralmente per prendere voti e fare affari?

La Democrazia cristiana, in realtà, non faceva voti – forse – con la cultura ma certamente con la coltura sì, considerata la forza dell’organizzazione contadina dell’agricoltura della Coldiretti Bonomiana, che proponeva non tanto una jacquerie revanscista destrorsa quanto l’espressione di una radicata cultura contadina piena di prudenze e di sapienze parrocchiali. Ora francamente bacchettone e beghine, ora ciniche come queste espressioni iper-concrete. D’altra parte carmina non dant panem, dicevano i latini. Ma sicuramente la cultura mercantile, che ha la sua più compiuta espressione in due motti: uno tratto dalla facciata di un palazzo dogale genovese, repubblica marinara, che suona con una montale durezza ‘l’uomo senza soldi è l’immagine della morte’, e un altro ancora più cinico proveniente dalla serenissima Venezia con il suo bonario retroterra contadino ‘beati i figli che hanno il padre non solo morto ma dannato’ come si conviene ai bastardi figli di puttana che si sono riempiti le tasche prima di diventare i più ricchi del cimitero. Come ben si vede, la forza democristiana, in particolare veneta e dorotea, fu quella di tenere insieme come un romanzo ambientato a Treviso, come in Signore & Signori, film degli anni ’60 del Novecento, vizi privati e pubbliche virtù, bordelli e sagrestie, banche e alcove senza quel calvinismo capitalistico dei ginevrini o quell’affaccendamento industrialistico dei lombardi o dei renani. Insomma, una combinazione tra edonismo e ipocrisia secondo il migliore stile di una zona europea risparmiata dalla riforma protestante.

È un caso o no che i cromosomi dorotei della Balena Bianca siano poi passati nella Balena Verde come la definì l’allora sindaco di Verona Flavio Tosi? Le legislature passano, il doroteismo resta, come ormai acquisita componente psicologica del Palazzo che poi si è palesato nell’ideologia della Rete e nelle dinamiche del Movimento 5 stelle. I pentastellati entrano in Parlamento, ma intanto quel giorno i lavori del Senato sul più alto scranno li inaugura il doroteo di Potenza, Emilio Colombo. Noi ci siamo, sempre e comunque, è questo il segnale?

C’è nel doroteismo una capacità pervicace di sopravvivere anche a se stessi. Diceva un leader non doroteo ma certo molto democristiano, Giulio Andreotti, che campare è meglio che crepare. L’istinto primordiale di sopravvivenza è un fattore fondamentale per l’adattamento, non come i rettili del giurassico ma come i piccoli mammiferi che al tempo della grande estinzione sopravvissero perché non abbandonavano le uova, ma allattavano i piccoli tenendoli nel marsupio anche dopo il completo sviluppo. Come i dorotei con le eterne clientele. Quale migliore strumento di attaccamento che passivizzare, limitando ogni libertà? In fondo, i seguaci di Grillo hanno sintetizzato l’idea di omologazione al leader e di retizzazione web della politica: una sintesi tra questa cultura del gruppo simbiotico e la vecchia idea dell’inter­nazionalismo proletario che è diventato degli onesti per definizione.

Tomasi di Lampedusa mise in bocca al suo personaggio del Gattopardo la frase “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”. Il procedere lento, guardingo, con cento camere di compensazione, con la dissimulazione, la ricerca di ogni possibile compromesso preventivo, le cortine fumogene. Con l’aggiunta di un apparente senso di responsabilità che è invece totale deresponsabilizzazione, orrore per ogni decisione, costante mancanza di chiarezza. Il profilo culturale conservatore del doroteo di matrice democristiana, consolidato argine al comunismo ma anche al rinnovamento autentico. Sarà così, in saecula saeculorum?

In qualche modo sì, per una naturale tendenza del genoma italiano alla conservazione. È un’idea antica post medievale, residuo del F ranza o Spagna purché se magna. In un paese che antepone spesso il sopravvivere al vivere e la mancanza di un vero principio di esclusione e preferisce sempre il cattolico et et al riformato aut aut, non scegliere è il modo migliore per evitare di sbagliarsi e garantirsi sempre e comunque una via di uscita rispetto alle smentite della realtà e delle sue leggi, anche perché la realtà è soprattutto frutto della percezione piuttosto che della pesantezza dei fatti. È vero che Lenin diceva che i fatti hanno la testa dura, il modo migliore per non fare a testate con essi è averla mollissima, anzi gelatinosa.

“Nel bene e nel male, i dorotei sono stati il centro direttivo, ad un tempo promozionale e moderatore, della politica democratica cristiana. Per un verso un grippo (blocco, tappo: ndr) quasi deteriore di potere e di mera gestione di esso, per l’altro una componente politica insopprimibile della Dc, un suo modo d’essere”. Cosa pensi di questa autoanalisi del padre fondatore dei dorotei, il vicentino Mariano Rumor, uno che viveva di santini e baccalà?

Non so se Mariano Rumor vivesse solo di santini e di baccalà, probabilmente conduceva la vita in altre zone ombrose, non completamente note neppure a sé, altrimenti avrebbe fatto il parroco o il droghiere. C’era nella cultura dorotea anche il totale rifiuto a illuminare gli arcana imperii e a sfuggire alla glasnost delle democrazie post moderne nella società dopo la caduta del muro di Berlino, ma anche la pubblicizzazione del corpo del re e delle monarchie assolute dove i monarchi dovevano accoppiarsi quasi in pubblico e le regine partorire davanti alla corte. Questa dimensione crepuscolare e chiaroscurale della realtà consentiva al perfetto doroteo un’entrata e un’uscita dalla dimensione della visibilità che non era ancora puramente diventata passiva, cioè essere più visti nei media, ma ancora attiva, cioè tra coloro che sulle spalle di giganti cercavano di vedere più lontano degli altri verso l’orizzonte.

Pensando a dove sono nati come corrente della Dc, vale dire nel convento di Santa Dorotea sul Gianicolo a Roma, è evidente che il comportamento dei dorotei è pervaso dalla dottrina cattolica; Santa Dorotea, martire in Cappadocia era soprattutto santa dell’amicizia, sentimento demo-cattolico per eccellenza. Amici, sodali, complici: sempre in maggioranza. Ma la gestione del potere nel suo pragmatismo cinico, che doveva rispettare a livello economico il sistema capitalista ma anche politicamente e ideologicamente il confronto sempre serrato con le forze laiche liberali, socialiste e comuniste, non pensi che abbia costretto il doroteo rispettoso dei dieci comandamenti a inter­pretare nel bisogno, fatto dalle contingenze anche machiavelliche della realtà politica sempre in divenire, il male come un martirio per il bene?

Io non so quanto democristiani dorotei fossero propensi alla sofferenza e alla dimensione mistico-dolorosa della gestione del potere. Caratteristica piuttosto di personaggi utopistico-pauperistici come i dossettiani. C’era invece nella loro finta bonomia di conigli mannari la capacità nobilissima di far vivere la coincidentia oppositorum di Niccolò Cusano: peccatori e redenti, moralizzatori e immorali, trasgressori e bigotti, avidi e generosi, severi e trasgressivi, duri e molli, solidali e feroci nella concorrenza. Mentre Machiavelli aveva mostrato sul potere, sfrondandolo dell’alloro, di che lacrime gronda, facendo della politica una scienza algebrica e mentre Marx e Hegel l’avevano trasformato in una derivazione economica e Nietzsche in una millenaristica dell’eterno ritorno, i dorotei, unendo tutto questo, ne fanno una saga permanente della propria incontenibile ameboide autoriproduzione.

L’azione del doroteo nel sistema politico corrompibile secondo modalità svelate e condivise può valere una licenza etica? La necessità di sfidare la legge e di incorrere in un reato a fine di male però come martire del bene, può valere, nel commettere...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I DOROSTELLATI
  3. Indice dei contenuti
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. 1. Sempre in maggioranza
  7. 2. L’onestà non fa business
  8. 3. Il compromesso pentastorico