È da molto tempo che non
parlo,
perché dovrei?
E soprattutto, con chi?
Nessuno è capace di ascoltare la musica delle parole.
Quella m’interessa, quella soltanto,
ci sono vibrazioni nelle parole, non solo lettere,
sensazioni invisibili si nascondono in mezzo a righe e
sospiri.
Ho sempre vissuto di musica e le parole sono armonia o
dissonanza.
Un fiume scorre placido, ma le onde urlano tempesta.
I tuoni spaccano il cielo, fanno tremare i nervi, le foglie e i
petali dei fiori.
Poi arrivano le grida, le mani pesanti,
è meglio fuggire, rifugiarsi nel buio.
Molto meglio il silenzio.
Ormai sposto il mio corpo come un sacco sulle spalle,
non so dove andrò, l’importante è vagare.
Non c’è il tempo quando mi perdo nel silenzio, sono libero, sono
leggero,
con la musica volo, ma i fulmini mi squassano e mi risbattono a
terra.
La prima volta gridavo, mi strappavo i capelli, scalciavo.
La camicia me la doveva serrare l’infermiere più grosso.
Mi dimenavo come un’anguilla, sbattevo le cosce come un cavallo,
sbraitavo e sbavavo come un cane rabbioso.
Poi arrivò TEC
Tutto È Concluso
Terapia Elettro Convulsivante.
Da quel giorno il tempo è scomparso,
la nave di cristallo s’è sbriciolata in frantumi,
la memoria s’è sciolta in un sacco di muco,
lo trascino, lascia una scia, cola, si secca e scompare.
Adesso sono calmo.
Solo la musica potrebbe convincermi a vagare.
Sono sull’isola da un tempo infinito,
senza un passato,
possiedo un solo ricordo: le mie mani si muovevano sui tasti
ingialliti
e sbeccati di un organo, la chiesa era in mezzo alle
montagne
e un ragazzino non voleva parlare, voleva soltanto
suonare.
Ma qualcuno, anche qui, mi ha trovato perso nel buio,
forse facevo pena, forse Mario ha visto l’antica eleganza delle
mie mani,
mi ha portato quassù,
nella chiesa sull’isola,
nell’isola in mezzo al mare,
sul pennone più alto della nave,
sulla nuvola che vola sopra al mare.
C’è un organo abbandonato nella chiesa,
non sale mai nessuno quassù.
Io lo guardo e mi fa quasi ridere,
io non possiedo più un organo intatto,
m’hanno fatto a pezzi,
ma adesso c’è lui, tutto il resto è disfatto.
Frammenti di vetro, brandelli di spirito, si disperdono come
farfalle nel vento.
Le mani sentono il richiamo della tastiera ingiallita.
Inizio a muovere un dito, solo un dito, lo appoggio timidamente,
ho paura di sfiorare quel bianco.
È soltanto una nota.
Alzo la testa e la seguo, buca il soffitto, sgretola il
tetto.
È tutto azzurro lassù.
Riesco a guardarmi intorno, c’è un altro mondo possibile, posso
perfino vedere il mare, un’altra nota e tutto si sposta, le pareti
si sgretolano. Alzo il dito, cerco il silenzio, ma la nota continua
a vibrare, è affilata, penetra il muro e mi prende per mano, mi
trascina fra le stelle e tutto il resto scompare.
Qualcuno mi chiama per nome:
Petar Nakić!
Petar Nakić! – ripete.
Non sono io, è qualcuno che viaggia con me, anche lui s’è perso
nel tempo, in un seminario, sognava la musica, dall’altra parte del
mare.
Era Pietro Nachini, veniva da Sebenico in Dalmazia, era un
costruttore di organi. Proprio quello che ha costruito l’organo che
le mie mani stanno sfiorando adesso è davanti a me, è proprio lui,
Petar Nakić, Pietro Nachini.
Non sappiamo dove siamo, non importa, solo la musica conta.
Mai nessuno è mai riuscito a suonare quest’organo...
Mi dice Mario, l’infermiere.
…la tastiera è troppo piccola, dicevano tutti così…Ma ti vedo
felice, sei tranquillo. Allora ti lascio qui per un po’, tornerò a
prenderti, mi raccomando fai il bravo, è bello vederti così, calmo,
tranquillo…
Ero calmo, ma non ero io, ero l’altro io, quello che non
conoscevo, quello che non era riuscito a vivere.
È iniziato tutto così.
Dopo la mia dose di elettroshock Mario mi portava in chiesa e mi
lasciava lassù a suonare l’organo di Pietro Nachini, uno strumento
del 1745.
Bastava una nota e la musica si condensava in un’unica goccia
vitale, bevevo quel succo e dentro di me si liberava una sfera di
cristallo che irradiava visioni, mi trascinava in un mondo nuovo,
un’isola impossibile, le coste lontane della nave dei folli. E
tutto era pace. Rivedevo il mio viaggio o il viaggio di Petar, le
montagne di pietra e i fiumi che scorrono in mezzo alle rocce,
sotto alle rocce, il profumo dei pini, i sentieri fra i rovi e il
sapore di more, e poi c’era la fuga per mare e tutte quelle isole
verdi di muschio, i prati lambiti dalle onde, la sabbia chiara che
rotola e la lavanda di Hvar e poi l’ultimo cibo del mio corpo
sfinito, una bottiglia di rosso Babić nella laguna dorata di
Venezia, come in un sogno.
Il mio ultimo sogno.
E poi arrivò la fame, la pioggia, il sangue versato nei vicoli
umidi, l’odore di piscio, i calci nei fianchi, le corde ai polsi e
San Servolo, la mia isola.
L’isola dei pazzi era diventata la mia casa, la mia tomba. Ma
adesso mi basta premere il
Tiratutti di Petar e i registri entrano in gioco insieme e
la mia nota cambia, tocco i tasti e viaggio con la musica.
I colori di tutte le note si uniscono senza scontrarsi, sono
foglie leggere sull’acqua, l’acquerello di un sogno sul mare, si
agganciano senza lacci e legami, sciolgono la mia memoria disfatta,
raccolgono frammenti di vita sparsi nel vento, i pezzi di cristallo
che ricompongono la nave.
Non sono le note suonate,
è il suono delle note,
immagini e parole si mescolano e vagano come un profumo,
un ricordo che non vuole finire,
odora di sale, di mele e di coste lontane.
È un bicchiere di vino, è il bagliore di un fuoco.
Non sono le note suonate
è la vibrazione che viaggia fra nuvole e tempo,
il ricordo di una vita mancata,
le gocce di luce che fanno vivere il sogno.