Isole di ordinaria follia
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Informazioni sul libro

"Si era nel '68. Franco Basaglia si batteva per la chiusura dei manicomi e con Carla Cerati avevamo realizzato delle fotografie sui manicomi. Vedendole, Basaglia rimase allibito. Si trattava di fotografie mai viste prima in Italia. Così abbiamo deciso di farne un libro, Morire di Classe. La condizione manicomiale (Torino, Einaudi, 1969), che con l'aggiunta di testi di Basaglia, ha fatto conoscere all'Italia le condizioni tragiche di questi malati".
Ho scritto queste parole tanto tempo fa, in questo libro non ci sono le mie fotografie, ci sono i miei contatti con le mie note, i tagli, gli appunti. Disposti così in sequenza sembrano muoversi, sembrano le sequenze di un film che non posso dimenticare.
Leggendo questo libro oggi mi rendo conto che il classificatore che ho consegnato nelle mani di Marco D'Anna e Marco Steiner è nato a nuova vita, ha prodotto qualcosa di diverso da un libro di fotografia, è un libro di storie e c'è anche la mia qui dentro, una storia di indignazione per quello che di inumano ho visto.
C'è ribellione e ruvida poesia, documentata dalle mie immagini e sensazioni, esaltata dalle visioni di Marco D'Anna, arricchita con i germogli di speranza seminati nei racconti di Marco Steiner. Gianni Berengo Gardin
Testi di Marco Steiner; foto di Gianni Berengo Gardin e Marco D'Anna; postfazione di Antonio Dragonetto.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865126646
Argomento
Arte
Categoria
Fotografia

FIGLIO N° 1

L’organista

È da molto tempo che non parlo,
perché dovrei?
E soprattutto, con chi?
Nessuno è capace di ascoltare la musica delle parole.
Quella m’interessa, quella soltanto,
ci sono vibrazioni nelle parole, non solo lettere,
sensazioni invisibili si nascondono in mezzo a righe e sospiri.
Ho sempre vissuto di musica e le parole sono armonia o dissonanza.
Un fiume scorre placido, ma le onde urlano tempesta.
I tuoni spaccano il cielo, fanno tremare i nervi, le foglie e i petali dei fiori.
Poi arrivano le grida, le mani pesanti,
è meglio fuggire, rifugiarsi nel buio.
Molto meglio il silenzio.
Ormai sposto il mio corpo come un sacco sulle spalle,
non so dove andrò, l’importante è vagare.
Non c’è il tempo quando mi perdo nel silenzio, sono libero, sono leggero,
con la musica volo, ma i fulmini mi squassano e mi risbattono a terra.
La prima volta gridavo, mi strappavo i capelli, scalciavo.
La camicia me la doveva serrare l’infermiere più grosso.
Mi dimenavo come un’anguilla, sbattevo le cosce come un cavallo, sbraitavo e sbavavo come un cane rabbioso.
Poi arrivò TEC
Tutto È Concluso
Terapia Elettro Convulsivante.
Da quel giorno il tempo è scomparso,
la nave di cristallo s’è sbriciolata in frantumi,
la memoria s’è sciolta in un sacco di muco,
lo trascino, lascia una scia, cola, si secca e scompare.
Adesso sono calmo.
Solo la musica potrebbe convincermi a vagare.
Sono sull’isola da un tempo infinito,
senza un passato,
possiedo un solo ricordo: le mie mani si muovevano sui tasti ingialliti
e sbeccati di un organo, la chiesa era in mezzo alle montagne
e un ragazzino non voleva parlare, voleva soltanto suonare.
Ma qualcuno, anche qui, mi ha trovato perso nel buio,
forse facevo pena, forse Mario ha visto l’antica eleganza delle mie mani,
mi ha portato quassù,
nella chiesa sull’isola,
nell’isola in mezzo al mare,
sul pennone più alto della nave,
sulla nuvola che vola sopra al mare.
C’è un organo abbandonato nella chiesa,
non sale mai nessuno quassù.
Io lo guardo e mi fa quasi ridere,
io non possiedo più un organo intatto,
m’hanno fatto a pezzi,
ma adesso c’è lui, tutto il resto è disfatto.
Frammenti di vetro, brandelli di spirito, si disperdono come farfalle nel vento.
Le mani sentono il richiamo della tastiera ingiallita.
Inizio a muovere un dito, solo un dito, lo appoggio timidamente,
ho paura di sfiorare quel bianco.
È soltanto una nota.
Alzo la testa e la seguo, buca il soffitto, sgretola il tetto.
È tutto azzurro lassù.
Riesco a guardarmi intorno, c’è un altro mondo possibile, posso perfino vedere il mare, un’altra nota e tutto si sposta, le pareti si sgretolano. Alzo il dito, cerco il silenzio, ma la nota continua a vibrare, è affilata, penetra il muro e mi prende per mano, mi trascina fra le stelle e tutto il resto scompare.
Qualcuno mi chiama per nome:
Petar Nakić!
Petar Nakić! – ripete.
Non sono io, è qualcuno che viaggia con me, anche lui s’è perso nel tempo, in un seminario, sognava la musica, dall’altra parte del mare.
Era Pietro Nachini, veniva da Sebenico in Dalmazia, era un costruttore di organi. Proprio quello che ha costruito l’organo che le mie mani stanno sfiorando adesso è davanti a me, è proprio lui, Petar Nakić, Pietro Nachini.
Non sappiamo dove siamo, non importa, solo la musica conta.
Mai nessuno è mai riuscito a suonare quest’organo...
Mi dice Mario, l’infermiere.
…la tastiera è troppo piccola, dicevano tutti così…Ma ti vedo felice, sei tranquillo. Allora ti lascio qui per un po’, tornerò a prenderti, mi raccomando fai il bravo, è bello vederti così, calmo, tranquillo…
Ero calmo, ma non ero io, ero l’altro io, quello che non conoscevo, quello che non era riuscito a vivere.
È iniziato tutto così.
Dopo la mia dose di elettroshock Mario mi portava in chiesa e mi lasciava lassù a suonare l’organo di Pietro Nachini, uno strumento del 1745.
Bastava una nota e la musica si condensava in un’unica goccia vitale, bevevo quel succo e dentro di me si liberava una sfera di cristallo che irradiava visioni, mi trascinava in un mondo nuovo, un’isola impossibile, le coste lontane della nave dei folli. E tutto era pace. Rivedevo il mio viaggio o il viaggio di Petar, le montagne di pietra e i fiumi che scorrono in mezzo alle rocce, sotto alle rocce, il profumo dei pini, i sentieri fra i rovi e il sapore di more, e poi c’era la fuga per mare e tutte quelle isole verdi di muschio, i prati lambiti dalle onde, la sabbia chiara che rotola e la lavanda di Hvar e poi l’ultimo cibo del mio corpo sfinito, una bottiglia di rosso Babić nella laguna dorata di Venezia, come in un sogno.
Il mio ultimo sogno.
E poi arrivò la fame, la pioggia, il sangue versato nei vicoli umidi, l’odore di piscio, i calci nei fianchi, le corde ai polsi e San Servolo, la mia isola.
L’isola dei pazzi era diventata la mia casa, la mia tomba. Ma adesso mi basta premere il Tiratutti di Petar e i registri entrano in gioco insieme e la mia nota cambia, tocco i tasti e viaggio con la musica.
I colori di tutte le note si uniscono senza scontrarsi, sono foglie leggere sull’acqua, l’acquerello di un sogno sul mare, si agganciano senza lacci e legami, sciolgono la mia memoria disfatta, raccolgono frammenti di vita sparsi nel vento, i pezzi di cristallo che ricompongono la nave.
Non sono le note suonate,
è il suono delle note,
immagini e parole si mescolano e vagano come un profumo,
un ricordo che non vuole finire,
odora di sale, di mele e di coste lontane.
È un bicchiere di vino, è il bagliore di un fuoco.
Non sono le note suonate
è la vibrazione che viaggia fra nuvole e tempo,
il ricordo di una vita mancata,
le gocce di luce che fanno vivere il sogno.




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FIGLIA N° 1

Ipomoralità Costituzionale


Non importa che vi dica il mio nome
Basta una frase, la diagnosi del mio ingresso a San Servolo:
Ipomoralità costituzionale”.
Adesso sono quasi contenta d’essere qui
È da tanto che fuggo, da troppo tempo mi rinchiudono,
e nessuno ha mai voluto ascoltare la mia storia, quella vera.
Oggi ho diciassette anni,
ma tutto è iniziato quando ne avevo tredici.
Di solito è un numero che porta fortuna,
per me non fu così.
Il giorno del mio tredicesimo compleanno
mio padre rientrò tardi,
come al solito,
era ubriaco,
come al solito.
Dormivo e mi sono svegliata quando ha aperto la porta della mia camera,
ha iniziato ad abbracciarmi,
a baciarmi,
era una cosa bella,
forse mi voleva bene anche lui,
non mi aveva mai fatto gli auguri,
non mi aveva mai considerata.
Poi ha iniziato a baciarmi sul collo
è sceso sul petto,
era strano,
non era mai stato affettuoso con me.
Mi ha alzato la maglietta e ha continuato a baciarmi la pelle nuda.
Ero imbarazzata, avevo i brividi e lui continuava,
ma era il suo affetto,
era r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Isole di ordinaria follia
  3. Indice dei contenuti
  4. L’IDEA
  5. NIOBE, la Madre
  6. FIGLIO N° 1
  7. FIGLIA N° 1
  8. FIGLIO N° 2
  9. FIGLIA N° 2
  10. FIGLIO N° 3
  11. FIGLIA N° 3
  12. FIGLIO N° 4
  13. FIGLIA N° 4
  14. FIGLIO N° 5
  15. FIGLIA N° 5
  16. FIGLIO N° 6
  17. FIGLIA N° 6
  18. FIGLIO N° 7
  19. FIGLIA N° 7
  20. UN ALTRO PUNTO DI VISTA
  21. ISOLE DI ORDINARIA FOLLIA. Una postfazione
  22. I MIEI CONTATTI
  23. RINGRAZIAMENTI