La globalizzazione dalla culla alla crisi
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La globalizzazione dalla culla alla crisi

Una nuova biografia del mercato globale

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Una nuova biografia del mercato globale

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La globalizzazione, dalla culla alla bolla: un vero "romanzo economico"
per capire come gira il mondo globale Se fosse un "filmino di famiglia", la globalizzazione muoverebbe i primi passi nel 1973, anno in cui l'economia Usa rallenta e inizia il processo che porterà alla deregulation degli scambi commerciali internazionali. Alessandro Volpi percorre - un fotogramma dopo l'altro - la storia della globalizzazione, le prime "turbolenze" e il pericoloso fidanzamento con la finanziarizzazione,
un rapporto perverso che porta all'esplosione della crisi nell'estate 2007. Questo libro, dedicato ai cittadini attenti, ma anche a studenti e studiosi, è lo strumento ideale per comprendere il nostro "presente storico": l'autore non solo segue la parabola della globalizzazione, ma racconta le sue dinamiche economiche e politiche, ne misura le conseguenze sul destino di persone e popoli e delinea un quadro in cui non solo è urgente restituire il primato alla politica ma è necessario un ardito superamento delle logiche nazionali. Alessandro Volpi è docente di Storia Contemporanea e di Geografia Politica ed Economica alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pisa e, dal 2013, sindaco di Massa. Con Altreconomia ha pubblicato "Mappamondo Postglobale" (2006) e "Sommersi dal debito" (2011)

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865161302

Capitolo 1. Le origini della globalizzazione

Before the flood
Tutto è cominciato nel 1973.
Se vogliamo dare una data d’inizio alla globalizzazione, dovremmo risalire a quell’anno perché la globalizzazione è stata, in origine, un fenomeno prettamente statunitense e ha preso forma, prima di tutto, per risolvere alcuni dei problemi strutturali dell’economia Usa. I fatti: dal 1950 fino al 1973, il Pil a stelle e strisce era cresciuto ogni anno con una media del 3,6%, segnando la migliore performance di sempre. Proprio nel 1973, tuttavia, tale trend si era bruscamente interrotto e nei successivi nove anni si sarebbe fermato a un ben più misero 1,6% annuo. La finanza si muoveva ancora molto lentamente: l’indice Dow Jones era fermo a 600 punti, molto lontano dai 14mila che avrebbe raggiunto nell’arco di un trentennio. Una simile frenata aveva le sue motivazioni congiunturali nell’esplosione dello shock petrolifero, ma dipendeva anche da cause di lungo periodo, costituite dall’ingresso massiccio dei baby boomers nel mercato del lavoro, dalla crisi del fin troppo coltivato modello “convenzionale” keynesiano e dalla conseguente comparsa di un massiccio disavanzo federale (nota 1). Il clima politico era tutt’altro che sereno. La presidenza Nixon incontrava crescenti difficoltà per le polemiche suscitate dai bombardamenti in Vietnam e l’avvio dello scandalo Watergate che lo costrinse alle dimissioni l’8 agosto del 1974. Alan Greenspan, futuro presidente della Federal Reserve, ha ricordato quel momento critico sottolineando come il pericolo maggiore per l’economia Usa provenisse dall’inflazione, determinata da una rapida svalutazione del dollaro che aveva perso in un solo anno il 10% del proprio potere d’acquisto (nota 2).
Il nuovo presidente, Gerald Ford, aveva chiaro questo pericolo che si traduceva nella paralisi degli investimenti e diede corpo, pur nella brevità del mandato rimanente, a un primo significativo taglio delle imposte destinato a restituire fiato proprio agli investimenti. Il taglio si estese poi anche alle famiglie, arrivando a una media di circa 125 dollari a famiglia: una misura in grado di stimolare la parziale ripresa del Pil che trovò slancio, parimenti, nella intensa opera di deregolamentazione posta in essere dallo stesso Ford. Nell’agosto del 1975 il presidente tenne a Chicago un acceso discorso in cui annunciava che “avrebbe tolto i ceppi dalle imprese americane”, rimuovendo vincoli e tariffe, a partire dal cruciale settore dei trasporti. La scelta di Chicago per rendere pubblica quella svolta non fu casuale: dalla “scuola di Chicago” di Milton Friedman giungeva la più organica celebrazione del mercato e dei prezzi come migliori strumenti per distribuire in maniera efficace ed efficiente le risorse nella società. Pochi mesi prima, a marzo, proprio Friedman aveva accettato l’invito di Augusto Pinochet a recarsi in Cile per discutere con lui le sorti dell’economia di quel Paese. Il guru del monetarismo fu molto criticato dalla stampa americana per la scelta di incontrare il “carnefice” di Salvador Allende e della democrazia cilena, ma la sua motivazione era stata quella di volere diffondere anche nei Paesi più chiusi il verbo della liberalizzazione degli scambi e della libera circolazione dei capitali come unica formula in grado di garantire lo sviluppo e l’affermazione dei processi di democratizzazione (nota 3).

I germi della futura globalizzazione, retta sulla libera circolazione dei capitali e sulla deregolamentazione, iniziavano la loro incubazione. Come accennato, infatti, la deregolamentazione, caratterizzata anche dallo scontro con alcuni grandi monopoli, era cominciata già con la breve presidenza Ford, quando, nel 1974, il dipartimento di Giustizia intentò una causa antitrust contro la compagnia telefonica AT&T, accusandola di costituire un monopolio illegale. All’incirca nello stesso periodo iniziò la deregulation del trasporto aereo, promossa sia dalle nuove compagnie aeree, come la Pacific Southwest in California e la Southwest Airlines in Texas, sia dai colossi Pan Am e Twa che volevano agire liberamente sul versante dei prezzi dei biglietti; un percorso questo che avrebbe portato nel 1978 alla chiusura dell’Ente federale dell’Aeronautica civile (nota 4).
Deregolamentazione fu, parimenti, la parola chiave utilizzata dagli spedizionieri impegnati nella “rivoluzione dei container”, uno strumento adoperato in maniera massiccia durante la guerra in Vietnam e da allora destinato ad un grande successo; tra il 1970 e il 2000 il mercato dei container è cresciuto tre volte più velocemente dell’economia mondiale. Favorevoli alla deregolamentazione erano poi i grandi corrieri come FedEx e Ups e l’insieme di queste spinte avrebbe portato nel 1980, alla fine della presidenza Carter, alla soppressione della Interstate Commerce Commission.

Un’analoga “rivoluzione” si consumò nel mercato del credito e della finanza. Dal 1970 avevano preso avvio i nuovi strumenti di pagamento elettronico e di ricezione computerizzata, mentre la gestione dei software consentiva a fondi pensione, fondi comuni e assicurazioni strategie decisamente più agili e aggressive. Queste innovazioni accelerarono il tragitto della deregolamentazione che si tradusse nel 1974 nell’approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti dell’Employee Retirement Income Security Act, con cui i fondi pensione e le compagnie assicurative avrebbero potuto investire i loro portafogli non solo nelle obbligazioni aziendali e governative di alta qualità ma anche in titoli decisamente più rischiosi. Nel medesimo periodo il governo accordava alle banche commerciali la possibilità di fissare liberamente i tassi di interesse su depositi e prestiti e di fondersi e aprire filali in pratica senza reali limitazioni; al contempo la liberalizzazione bancaria consentiva alle casse di risparmio di investire dove ritenessero più opportuno i loro depositi.
Per effetto di simili misure, già nel 1988 furono installati 2.200 sportelli automatici, con una significativa trasformazione della geografia bancaria. Ancora più evidenti furono le modificazioni che intervennero nei comportamenti dei risparmiatori; nel 1970 solo il 16% degli americani possedeva azioni e la pratica della distribuzione dei dividendi era quasi sconosciuta alle grandi corporation. Nel 1980 tale percentuale era cresciuta al 25% e il volume medio di azioni scambiate passò dai 3 milioni del 1960 agli oltre 60 del 1980.

La deregolamentazione portò con sé una veloce desindacalizzazione. La crisi di molte imprese per effetto del moltiplicarsi della concorrenza spinse i sindacati ad accondiscendere a condizioni decisamente meno favorevoli per i lavoratori rispetto al passato. Nel settore degli autotrasporti, la fine degli anni Settanta vide l’IBT, il sindacato di categoria, accettare aumenti degli stipendi inferiori alla metà dell’incremento dell’inflazione e nel 1981 la decisione di Reagan di licenziare 11mila controllori di volo che avevano scioperato avrebbe ben incarnato il nuovo clima delle relazioni industriali. La cancellazione dei contributi obbligatori, che rimanevano in vita solo per la previdenza e la sicurezza sociale ma che erano limitati al 13% dello stipendio e unicamente per i primi 70mila dollari, aprivano un’era nuova, dove sarebbe stato molto complesso difendere il posto di lavoro e dove, invece, la tutela del lavoratore veniva individuata nella prerogativa del mercato di trovargli rapidamente una nuova occupazione.

La presidenza Carter non interruppe il percorso di deregolamentazione avviato da Ford, ma si trovò a fronteggiare un incrudimento delle difficoltà economiche, appesantite dal secondo shock petrolifero e dalle forti tensioni politiche seguite alla crisi iraniana. Nel corso del 1978 l’inflazione passò rapidamente dal 6,8% di inizio anno a oltre il 9% a Natale, per schizzare nell’estate seguente al 12%. Le scelte del leader democratico tuttavia restavano molto ondivaghe, oscillando tra misure di sostegno all’economia e tentativi di arginare il deficit federale. Particolarmente confusa era in tale fase la linea di condotta della Federal Reserve guidata da Bill Miller, che temeva un’azione troppo marcata di contrasto all’inflazione in quanto avrebbe potuto scatenare un ulteriore peggioramento della disoccupazione.
Di fronte a simili incertezze, Carter decise di rimuovere Miller e di affidare la Fed a Paul Volcker, allora presidente della Federal Reserve Bank di New York. “Prima di nominarlo - ha scritto Greenspan - Carter non sapeva nemmeno chi fosse; erano stati David Rockfeller e il banchiere di Wall Street Robert Roosa a spingere il presidente a sceglierlo, per rassicurare il mondo finanziario” (nota 5). Volcker aveva studiato a Princeton e poi ad Harvard e alla London School of Economics dove era giunto nei primissimi anni Cinquanta. Dal 1969 al 1974 era stato sottosegretario del Tesoro per gli affari monetari internazionali e in tale veste aveva preso parte alle discussioni che avevano condotto alla sospensione della convertibilità del dollaro (nota 6). Volcker era stato inserito da Nixon nella Commissione che doveva discutere della revisione degli accordi di Bretton Woods perché, pur essendo considerato un “custode dell’ortodossia”, mostrava però una grande duttilità e un notevole pragmatismo destinati a tradursi nel suo aperto favore ad una rapida liberalizzazione dei flussi internazionali di capitale. Nel discorso d’insediamento il nuovo Presidente fece capire che avrebbe stroncato l’inflazione mettendo mano ai tassi, ma poi avrebbe dato fiato anche al mercato azionario, facendo intuire un limite chiaro alla lievitazione dei rendimenti dei T-Bond americani; e in effetti dall’agosto del 1982, dopo lo start dato dalla banca d’investimenti Salomon Brothers, avrebbe preso avvio il grande slancio ultradecennale dei titoli made in Usa. Con quel discorso, datato 6 ottobre, iniziava secondo molti osservatori l’era della nuova rivoluzione reaganiana, prima di Reagan, ma in pieno monetarismo (nota 7).
Durante l’ultimo anno dell’amministrazione Carter, tuttavia, la miccia accesa non aveva ancora dato i risultati sperati perché a soffiare sul fuoco dell’inflazione continuava ad esserci la sensazione di grande debolezza politica degli Stati Uniti, afflitti dallo scoppio della guerra Iran-Iraq e dalle tensioni afgane; in tali condizioni gli alti tassi di interesse e la contrazione della massa di dollari sembravano non produrre effetti che si sprigionarono invece con l’arrivo del presidente-attore quando l’inflazione si ridusse persino in presenza di più dollari e il signoraggio del biglietto verde sprigionò tutti i suoi “benefici”. In maniera paradossale, anzi, l’anticipo del monetarismo da parte di Carter attraverso Volcker gli costò carissimo impedendogli la rielezione. L’inasprimento dei tassi provocò un’impennata del costo del denaro e una conseguente crescita della disoccupazione che arrivò a superare l’8%; Carter fu aspramente attaccato da Ted Kennedy e dovette almeno in parte sconfessare l’operato della Fed, creando non poca confusione.

Un primo segnale chiaro dell’inversione di tendenza rispetto alle dinamiche inflazionistiche si manifestò subito perché nel gennaio del 1980 il cambio dollaro-oro era sceso a livello minimo di 875 l’oncia, a dimostrazione che la valuta Usa era tornata a essere un bene rifugio. Il brusco rialzo dei tassi di interesse, avviato da Volcker, segnò anche l’inizio di una nuova era per gli strumenti della finanza derivata, in particolare di quelli usati appunto per i tassi e per le monete; se i mercati divenivano così volatili, era evidente che occorrevano strumenti di copertura del rischio, destinati a diventare rapidamente formidabili veicoli di scommesse a tutti gli effetti (nota 8). Al tempo stesso, la restrizione monetaria e il conseguente rallentamento dell’inflazione attesa consentivano di avviare una stretta salariale, già favorita dall’intrapresa desindacalizzazione, e imponevano di fatto la necessità di crescenti delocalizzazioni produttive dato che il deciso rafforzamento del dollaro ostacolava le esportazioni. Finanza derivata e delocalizzazioni, già prima della globalizzazione, avevano trovato una stringente premessa nella politica monetaria di fine anni Settanta. Alla fine degli anni Ottanta i lavoratori americani rimasti negli States erano più produttivi dei tedeschi del 12%, dei giapponesi del 30% e degli inglesi del 34%. Nel frattempo si erano avviate alcune profonde ristrutturazioni industriali, la più nota delle quali fu quella messa in essere dal Ceo della General Electric, Jack Welsh, che tra il 1981 e il 1985 licenziò ben 100mila persone, mentre era sempre più frequente la consuetudine di rimpiazzare gli operai in sciopero e di considerare lo sciopero un motivo per il licenziamento. Gli alti rendimenti dei titoli, inoltre, spostavano sempre più l’asse dell’economia a stelle e strisce in direzione della finanza. In un anno, il tasso primario era volato a un livello mai visto prima del 21,5%, paragonato a una media del 7,6% nei 14 anni precedenti, una crescita quasi triplice nel giro di settimane.

La rivoluzione
Con l’elezione di Reagan, nel 1980, alla strategia monetarista si aggiunsero tre elementi cruciali costituiti dalla rivoluzione fiscale, dalla ripresa della Guerra fredda e dalla riscoperta della religione come fattore capace di condizionare in profondità la politica e l’economia. Il nuovo comandante in capo, infatti, aveva condotto la sua campagna elettorale promettendo una drastica riduzione delle tasse, insieme a un ispessimento delle spese militari e a un parallelo dimagrimento della burocrazia.
Reagan non aveva grandi nozioni teoriche in campo economico, e anzi aveva criticato i suoi consulenti per avergli fornito troppi dati che lo avevano confuso, ma si era invaghito delle teorie dell’economista Arthur Laffer e in particolare della sua “famosa” curva, secondo cui al diminuire delle aliquote corrisponde un maggiore gettito complessivo. Una prospettiva decisamente allettante per un’economia in cui il reddito nominale era mangiato dall’inflazione e le aliquote progressive sfioravano il 70%. Le dichiarazioni dell’ex attore, divenuto governatore della California, erano considerate talmente azzardate da aver indotto il suo avversario nelle primarie e futuro vicepresidente George Bush a definirle “voodoo economics”. Per dare sostanza alle sue posizioni, Reagan costituì un autorevole gruppo di consulenti, l’Economic Politic Board, composto da George Schultz, Milton Friedman, Arthur Burns, Bill Simon e Alan Greenspan; il primo compito del nuovo organismo fu quello di discutere la proposta reaganiana di un abbattimento del carico fiscale del 30% in tre anni, accompagnato da una drastica riduzione dei costi dell’Amministrazione federale affidata alle cure del Segretario al Bilancio David Stockman. Nonostante un deficit federale annuo di 50 miliardi di dollari, la ricetta di Stockman si arenò di fronte alle resistenze del Congresso mentre trovò ampio spazio, almeno inizialmente, la riduzione fiscale, destinata ad accentuare ulteriormente il medesimo deficit; il debito pubblico sarebbe passato così dal 32 al 53% nel corso delle due presidenze Reagan. In realtà tale lievitazione dipese più dagli incrementi di spesa che dalla riduzione delle tasse.

Negli anni di Reagan la burocrazia passò da 2,8 a 3 milioni di impiegati, mentre la spesa pubblica aumentò del 2,5% l’anno (soprattutto in virtù delle crescenti spese militari), facendo schizzare il debito pubblico da 700 miliardi a 3mila miliardi di dollari. Sul piano fiscale, invece, dopo il già ricordato abbattimento, il Fiscal Responsibility Act del 1982 avviava una serie di sostanziosi inasprimenti fiscali interrottisi solo nel 1988. Un primo aumento peraltro fu dovuto allo slittamento delle fasce contributive, provocato dall’inflazione che ha spinto i titolari di reddito verso le fasce più alte, perché, con lo stesso reddito in termini reali si sono ritrovati a pagare una maggiore imposta sul reddito, per quanto le tasse fossero state nominalmente ridotte. Iniziava, intanto, la ritirata delle coperture sanitarie garantite dalle aziende Usa ai propri dipendenti, destinate a scendere rapidamente da una percentuale del 74% al 40% tra il 1980 e la fine del decennio, cui si associava l’altrettanto rapida scomparsa delle formule pensionistiche classiche. Un primo ridimensionamento dei programmi di previdenza sociale si ebbe già nel 1981 con la commissione Greenspan, incaricata di fronteggiare un fabbisogno che avrebbe raggiunto rapidamente i 200 miliardi di dollari l’anno. Molti critici della reaganomics hanno individuato nei maggiori costi, in premi assicurativi, che i cittadini hanno dovuto sostenere per la loro assistenza sociale una vera e propria forma di incremento fiscale indiretto. La riduzione del peso percentuale del carico fiscale sul Pil è dipesa così, in larga misura, dalla crescita del Pil stesso.
La sostanza della “rivoluzione fiscale” di Reagan consistette semmai nella radicale semplificazione delle aliquote che, soprattutto durante il suo secondo mandato, passarono da 12 a 3, con la più alta, quella per i redditi superiori a 70mila dollari fissata al 35% dopo un iniziale abbattimento fino al 27%; in questo senso si apriva la strada alla concorrenza fiscale fra Stati, fatta di tasse “piatte” e di aliquote basse, che caratterizzò la seguente globalizzazione.

Per sostenere disavanzo e dollaro, attirando i capitali esteri negli Stati Uniti, Reagan si appoggiò a una forte ideologizzazione della sua presidenza, mettendo a nuovo molti aspetti del conservatorismo a stelle e strisce. Ad alimentare i neocon reaganiani avevano concorso tre fattori fondamentali costituiti dalle guerre arabo-israeliane del 1967-1973, che avevano spostato gli ebrei statunitensi verso destra, dalla contestazione della guerra in Vietnam, vissuta da molti repubblicani come il preludio a un pericoloso ridimensionamento del ruolo internazionale degli USA e dalle crescenti frizioni tra comunità ebraica e comunità afroamericana, che avevano condotto la prima in direzione degli ideali neoconservativi. Questa base di consenso a una nuova destra venne ampliata dallo stesso Reagan con l’esasperazione del tema della guerra contro l’Unione Sovietica, definita l’ impero del male; la politica estera americana abbandonava così rapidamente la strategia dell’equilibrio e del contenimento, ripresa dopo la fine del conflitto vietnamita, per approdare a un rinnovato roll back, retto da un militarismo aggressivo e fondato sull’idea che non esisteva alcuna alternativa al modello capitalistico americano e dunque il dollaro avrebbe dovuto restare, indiscutibilmente, la sola valuta internazionale (nota 9). Una simile strategia fu particolarmente marcata nei primi quattro anni dell’amministrazione reaganiana, durante la quale prese forma il costoso progetto dello Scudo spaziale, oggetto di feroci polemiche interne a partire dalla grande manifestazione in Central Park nell’autunno del 1982. Nella medesima ottica si ponevano le forniture di armi ai mujahiddin afgani, in conflitto con i sovietici, il sostegno al governo fantoccio di Najibullah, e quello ai Contras nicaraguesi, così come appartenevano a logiche da guerra fredda i rapporti stretti con Solidarnosc in Polonia e l’installazione in Europa dei missili Pershing II. Per Reagan la globalizzazione si legava anche all’idea che l’Unione Sovietica non sarebbe esistita per sempre e anzi era necessario accelerarne la dissoluzione proprio per dar vita alla nuova era globale degli Stati Uniti; una visione, come detto, fortemente ideologizzata che univa insieme piani molto diversi tra loro. Da questo punto di vista, Reagan fu il migliore interprete di quella linea politica che venne definita il “fusionismo”, nell’ambito del quale le diverse anime della destra americana trovavano una collocazione sinergica, superando le fratture fra visioni di politica estera e posizioni di politica interna, tra economia e morale che avevano caratterizzato il conservatorismo precedente (nota 10).

L’amministrazione Reagan puntò molto infatti anche sui forti richiami di matrice religiosa e sull’idea di una profonda rigenerazione morale che doveva passare attraverso il taglio degli sprechi, lo stimolo del risparmio e il drastico incremento della produzione. C’era in tale prospettiva un pronunciato rilancio delle retorica calvinista che, secondo Arthur Vidich, veniva declinato nei termini del miglioramento della produttività come elemento di redenzione: “I lavoratori, ritenuti responsabili del declino della produttività, dovevano sobbarcarsi il fardello dei problemi del passato (welfare e consumo) e rinunciare a ogni pretesa di maggiori quote di ricchezza per dimostrare in tal modo la loro rigenerazione morale” (nota 11).
I valori di riferimento divennero così l’individualismo, il lavoro, l’autosufficienza, la frugalità, la carità (nota 12); un insieme di valori, tuttavia, che doveva orientarsi soprattutto allo smantellamento dello Stato, e del welfare in particolare, che anticipava, da questo punto di vista lo smantellamento delle legittimità statuali non violente, tipico della successiva fase della globalizzazione. La retorica fortemente moralistica serviva inoltre a sottolineare come il deficit, che Reagan non seppe fronteggiare - per quanto in sede normativa avesse introdotto il vincolo di pareggio di bilancio con un emendamento federale - avesse radici storiche e nei comportameni dei lavoratori americani, non dipendendo dall’azione della sua presidenza. La forte accentazione individualistica, sostenuta da una narrazione sensibile agli aspetti morali, era molto utile anche per rendere meno visibili alcuni ambiti di intervento federale come quello dei sussidi all’agricoltura e quello delle limitazioni alle importaz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La globalizzazione dalla culla alla crisi
  3. Indice dei contenuti
  4. Capitolo 1. Le origini della globalizzazione
  5. Capitolo 2. La globalizzazione in giro per il mondo
  6. Capitolo 3. Going back home
  7. Capitolo 4. La crisi
  8. Glossario
  9. Biografia dell'autore