Imparare dalle catastrofi
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Imparare dalle catastrofi

Guida galattica per sopravvivere al futuro

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Imparare dalle catastrofi

Guida galattica per sopravvivere al futuro

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atastrofe, collasso, shock, default: parole che compaiono ogni giorno sui giornali e in televisione. È solo per catturare l'attenzione, dato che nulla vende meglio dell'ansia? O forse nella "narrazione" delle magnifiche sorti e progressive della nostra civiltà qualcosa non quadra?
Questo libro è un kit di sopravvivenza -brillante nella scrittura almeno quanto è inquietante nei contenuti- per orientarci nella profonda crisi in atto e raccontare il presente. Con la consapevolezza che i segnali del clima che cambia e le ricorrenti crisi finanziarie sono i primi indizi d'una catastrofe già iniziata, magari non riconosciuta, negata per paura o abitudine, ma non per questo meno reale.
Una "pedagogia delle catastrofi" per aiutarci ad assumere un atteggiamento resiliente e produttivo. Un glossario per rintracciare le parole-chiave del presente, da Apocalisse a Zig-zag, e per guardare al futuro, provando a immaginare il dopo e il nuovo. Con la postfazione di Luca Mercalli. Stefano Caserini è esperto di clima e inquinamento, insegna Mitigazione dei Cambiamenti Climatici al Politecnico di Milano. Ha fondato il blog www.climalteranti.it. Autore di articoli e libri, fra cui A qualcuno piace caldo (Ed. Ambiente)
Enrico Euli è ricercatore e docente di Metodologie del gioco all'Università di Cagliari. Segue le (ed è inseguito dalle) catastrofi, almeno a partire da uno dei libri di cui è autore, Casca il mondo! (Ed. La Meridiana)

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865161326
Categoria
Sociologia

Capitolo 1. Altri mondi

Ma al termine del mondo per fortuna
le strade sono sempre più di una.

(G. Gaber, Al termine del mondo)

L’epoca delle passioni tristi è caratterizzata dalla sensazione che il futuro sia divenuto solo una minaccia e che l’unico slogan possibile divenga sempre più quello del No future! L’eterno presente in cui viviamo si crogiola soprattutto nell’acronimo TINA (There Is No Alternative), copyright Margaret Thatcher: non c’è alternativa. Un richiamo spietato a essere realisti, un invito pressante e minaccioso ad abbandonare ogni slancio o vana pretesa utopica. Ma cosa fare se il modello unico vacilla, se la catastrofe sembra avviata o sta già avvenendo, se sulle prime pagine dei giornali e nelle riviste scientifiche si discute se sia ancora possibile evitarla?
Ci si può abbattere del tutto e restare catatonici, paralizzarsi. Ci si può agitare, urlare, aggredire, distruggere, come alcune minoranze iniziano a fare, appena sono colpite nei loro interessi materiali diretti o vedono da vicino la soglia della disperazione economica. Ma la catastrofe potrebbe rappresentare anche la fine di un modello unico, del mondo convinto della propria univocità e insuperabilità; e questa fine potrebbe essere l’inizio di un altro mondo, potrebbe divenire un’opportunità, da attraversare creativamente. Per approfittare della catastrofe, potrebbe essere utile seguire la logica scientifica della controdeduzione fattuale (del tipo: “e se l’acqua bollisse a 80 gradi?”), tentare collettivamente di immaginare altri mondi possibili, e domandarsi come e quanto potrebbero essere diversi questi altri mondi dalla nostra apparentemente immobile vita quotidiana.

E se il reddito fosse svincolato dal lavoro?
E se i beni non fossero solo e sempre merci?
E se il lavoro non fosse più un valore ma un’attività come altre?
E se la disoccupazione crescente si rivelasse un successo?
E se andassimo verso un’economia stazionaria, senza crescita, o decrescente?
E se la formazione fosse più sganciata da produzione e occupazione?
E se la democrazia rappresentativa e statuale non fosse l’unico regime politico possibile?
E se “pubblico” non fosse più sinonimo di “statale”?
E se la protesta pacifica non fosse più un metodo efficace per prendere potere?
E se la guerra non fosse più una soluzione ai conflitti?


Domande come queste potrebbero preludere a nuove possibilità, oltrepassando la logica attualmente imperante del tappare le falle di uno scafo che si inclina, sbanda paurosamente, affonda ed evidentemente non può più navigare in mare aperto, e -soprattutto- su nuove rotte.

Per approfondire
• Bataille G. (2003), La parte maledetta - La nozione di dèpense, Bollati Boringhieri, Torino
• Benasayag M.-Schmit G. (2004), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano
• Godbout G.T. (2002), Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino
• Hillman J. (2002), Politica della bellezza, Moretti&Vitali, Bergamo
• Thoreau H.D. (1970), Walden, ovvero la vita nei boschi, Mondadori, Milano
• Zerzan J. (2004), Primitivo attuale, Nuovi equilibri, Viterbo
• Zibechi R. (2003), Genealogia della rivolta, Luca Sossella editore, Roma

Capitolo 2. Apocatastasi

L’importante è... finire.
(Mina)


Sin dall’antichità, nella parola catastrofe sono inclusi due significati tra loro correlati: quello di distruzione e fine ultima (che coincide con quella che comunemente, e nell’ultimo libro della Bibbia, è chiamata apocalisse, ossia disvelamento) e quello di svolta, trasformazione radicale, possibilità di nuova evoluzione.
Questa ambivalenza è presente anche nella fantomatica ma celebre profezia Maya sul 21 dicembre 2012, che secondo alcuni potrebbe portare alla fine del mondo e secondo altri a trasformazioni radicali, in grado di avviare un periodo di pace globale e di profonda evoluzione spirituale. Per meglio definire questa doppia caratteristica, Origene, padre della Chiesa (come altri in odor di eresia), nel III secolo d.C. - forse stanco di attendere l’apocalisse e il ritorno annunciato del Messia - iniziò a parlare di apocatastasi, cioè di una catastrofe che reintegra, alla fine dei tempi, la creazione e la rigenera in nuove forme. Nell’interpretazione di Origene, l’apocatastasi è anche una fine penultima, un tempo della fine che non finisce di finire. Una catastrofe ambigua, quasi invisibile e impercettibile, in cui la degenerazione-rigenerazione avviene in forme lente e graduali, almeno per la nostra percezione. Un processo peggiorativo costante, una malattia degenerativa che progressivamente conquista spazio fino alla vittoria: non un’apocalisse con un tracollo repentino, ma una catastrofe al rallentatore. La pericolosità dell’apocatastasi può essere ben raffigurata dal racconto sulla rana lessa di Gregory Bateson, reso celebre da Al Gore con un cartone animato nel film Una scomoda verità: la rana immersa in un’acqua che si riscalda continua a saltellare, senza rendersi conto del riscaldamento, sino a quando è troppo tardi, sino a quando è troppo debilitata per uscire dalla pentola, da un’acqua così calda in cui non sarebbe mai entrata. L’apocatastasi funziona nella nostra vita quotidiana. Ci permette di continuare a sopravvivere, di tappar falle, di agitarci e di non deprimerci. È più sopportabile, nell’immediato, di un’apocalisse, ma i suoi effetti non sono meno pericolosi. Anzi, può essere divertente, come per il cane danzante raccontato in una pagina di Filippo de Pisis citata da Valerio Magrelli: “Nella grotta campana, leggiamo, un guardiano faceva esibire ogni giorno il suo cane davanti ai turisti. Lo mandava a respirare le esalazioni dell’anidride carbonica, fino a quando, dopo aver danzato ebbro sulle zampe, l’animale cadeva a terra di botto”.

Per approfondire:
• Belpoliti M. (2005), Crolli, Einaudi, Torino
• Blumenberg H. (2001), Naufragio con spettatore, Il Mulino, Bologna
• De Martino E. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino
• Hosle V. (1992), Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino
• Killjoy M. (2008), Guida steampunk all’apocalisse, Agenzia X, Milano
• Magrelli V. (2011), Il sessantotto realizzato da Mediaset, Einaudi, Torino
• Tagliapietra A. (2010), Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti, Il Mulino, Bologna

Capitolo 3. Buone pratiche

Arrivano i buoni, arrivano arrivano
finalmente una nuova era comincerà...
Arrivano i buoni, ed hanno le idee chiare…

(E. Bennato, Arrivano i buoni)

Spegnere le luci inutili, cambiare le lampadine con altre più efficienti, usare i mezzi pubblici, muoversi in bicicletta, consumare cibi a chilometro zero, fare la raccolta differenziata.
Tutti d’accordo. Ma come negare una sensazione di disagio, se non di fastidio, quando questi comportamenti sono proposti in modo ripetitivo, come soluzioni portentose, magiche, da praticare con rigore e costanza, come se dalla disciplina e dall’inflessibilità scaturisse la vera leva per cambiare il mondo, per evitare la catastrofe.
Il dubbio che si insinua è che le buone pratiche siano una sorta di penitenza per i vizi del consumismo e dello spreco, che sono un tratto distintivo, se non costituente, della cosiddetta società del benessere.
Utili esercizi di minoranze sensibili, ma che per il loro carattere severo e responsabile non possono essere in grado di provocare un cambiamento, di diffondersi in una società plasmata da messaggi più potenti e persuasivi, che vanno a costituire la sua cornice di riferimento più profonda. Esercizi sacrificali che non si curano di mettere in relazione le scelte con l’entità del problema, di valutare l’esistenza di soglie al di sotto delle quali tutto rimane mera testimonianza ideale, marginalizzata quanto stimata.
Un pericolo delle buone pratiche è che siano dei modi per mettersi a posto la coscienza, singolarmente, per evitare di affrontare il problema nella sua complessità; per rinunciare ad agire collettivamente su un piano diverso, politico, che metta in discussione le ragioni che determinano il dilagare trionfante delle cattive pratiche.
Usare meno l’auto è certo giusto e meritorio, ma per avere meno traffico sulle strade bisogna cambiare il modo in cui si costruiscono le città, la subordinazione degli interessi pubblici a quelli della rendita fondiaria, le speculazioni nelle espansioni infrastrutturali contrabbandate per crescita economica o addirittura per progresso.
Non riscaldare troppo l’abitazione e risparmiare sull’illuminazione è utile e porta a vantaggi anche alle proprio tasche, ma per contrastare il surriscaldamento del pianeta è necessario opporsi agli interessi giganteschi legati all’utilizzo dei combustibili fossili, che condizionano le decisioni sulle politiche energetiche.
Sono combustibili desiderati da miliardi di persone che li utilizzano in modo molto limitato, e per i quali la disponibilità anche di poca energia contribuisce ad aumentare la qualità della vita. Chi è abituato a illuminare la casa con le lampadine non si rende conto di quanto siano desiderate da chi non le possiede.
Da un lato il vizio del benaltrismo (ci vorrebbe ben altro…) è un piacere antico in cui è comodo indugiare per evitare di assumersi le proprie responsabilità nella vita quotidiana; dall’altro limitarsi a trasformare il proprio orticello può essere una fuga dalle responsabilità di un mondo che ci chiede di confrontarci sulle questioni etiche e politiche di fondo, l’impossibilità di una crescita illimitata e la necessità di una redistribuzione, più equa, delle risorse del pianeta.
Le buone pratiche, infine, potrebbero essere un modo per non rassegnarci all’impotenza, alla passività; un atteggiamento quasi feticistico come ha causticamente osservato Slavoj Žižek:
“Quello che ci è veramente difficile accettare (almeno per noi in Occidente) è di essere ridotti al ruolo puramente passivo di un osservatore impotente che può solo sedersi in un angolo e stare a guardare cosa gli riserva il fato. Per evitare questa situazione tendiamo a dedicarci ossessivamente a un’attività frenetica -riciclare la carta, comprare cibo biologico, o cose di questo genere- tanto per essere sicuri che facciamo qualcosa, che diamo il nostro contributo, come un tifoso di calcio che sostiene la sua squadra di fronte alla televisione di casa, e grida e salta sulla sedia, nella convinzione superstiziosa che questo in qualche modo influenzerà il risultato. La forma tipica di negazione feticistica a proposito dell’ecologia è: ‘so bene (che siamo tutti minacciati), ma non ci credo veramente (e così non sono disposto a fare alcunché di importante come cambiare il mio stile di vita)’. Ma c’è anche la forma opposta di negazione: ‘so bene che non posso veramente influenzare il processo che potrebbe condurre alla mia rovina (come un’eruzione vulcanica), nondimeno per me è troppo traumatico accettarlo, e così non posso resistere all’impulso di fare qualcosa, anche se so che alla fine non ha alcun senso’. Non compriamo forse cibo biologico per la stessa ragione? Chi crede davvero che quelle mele biologiche mezze marce e sovrapprezzo siano davvero più sane?”

Anche senza tener conto che le mele biologiche sono più saporite, più interessanti sono quelle prospettive in cui le piccole azioni locali e quotidiane cercano di inserirsi ed integrarsi in una visione progettuale più ampia: la difesa e valorizzazione di beni comuni, le reti di condivisione, i gruppi di acquisto solidale, il microcredito e la finanza etica sono già esempi che iniziano a essere conosciuti e, pur fra mille contraddizioni, iniziano a prefigurare dimensioni e pratiche alternative.

Per approfondire:
• Becchetti L. (2008), Il microcredito. Il Mulino, Bologna
• Euclides M. A. (2010), Organizzare reti solidali. Strategie e strumenti per un altro sviluppo. Edup, Roma
• Gesualdi F. (2012), Facciamo da soli. Altreconomia edizioni, Milano
• Hopkins R. (2009), Manuale Pratico della Transizione, Ariannaeditrice, Bologna
• Spadaro C. (2012), Piccolo è meglio, Altreconomia Edizioni, Milano
• Žižek S. (2012), Benvenuti in tempi interessanti. Ponte alle Grazie, Milano

Capitolo 4. Catastrofismo

This is the end, beautiful friend
This is the end, my only friend, the end
Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end.

Questa è la fine, magnifico amico
Questa è la fine, mio unico amico, la fine
dei nostri piani elaborati, la fine
di ogni cosa stabilita, la fine

(The Doors, The End)

Si sente spesso usare il termine catastrofista a mo’ di insulto. Infatti, la gran parte degli studiosi non si darebbe da sé la denominazione di catastrofista. Di solito, questa è data loro da altri studiosi che - pur riconoscendo la gravità della situazione, l’esistenza di una crisi ambientale, economica o politica - non ritengono che si sia giunti o si giungerà alla catastrofe; oppure da studiosi, giornalisti, politici negazionisti che, non accettando le evidenze, negano il rischio specifico ed in generale considerano profeti di sventura chi segnala i pericoli. Ma, fra le pieghe di un discorso rassicurante, spesso emergono spunti allarmisti o decisamente catastrofi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Imparare dalle catastrofi
  3. Indice dei contenuti
  4. Nota degli autori
  5. Capitolo 1. Altri mondi
  6. Capitolo 2. Apocatastasi
  7. Capitolo 3. Buone pratiche
  8. Capitolo 4. Catastrofismo
  9. Capitolo 5. Cinema
  10. Capitolo 6. Clima
  11. Capitolo 7. Decisione
  12. Capitolo 8. Depressione
  13. Capitolo 9. Ecologia della mente
  14. Capitolo 10. Esperti
  15. Capitolo 11. Finanza
  16. Capitolo 12. Forconi
  17. Capitolo 13. Futuri anteriori
  18. Capitolo 14. Gioco
  19. Capitolo 15. Guerra
  20. Capitolo 16. Homo oeconomicus
  21. Capitolo 17. Informazione
  22. Capitolo 18. Lavoro
  23. Capitolo 19. Letteratura
  24. Capitolo 20. Musica Pop
  25. Capitolo 21. Napisan
  26. Capitolo 22. Ordine e disordine
  27. Capitolo 23. Orlo
  28. Capitolo 24. Pace
  29. Capitolo 25. Pedagogia della catastrofi
  30. Capitolo 26. Profitti
  31. Capitolo 27. Quando
  32. Capitolo 28. Resilienza
  33. Capitolo 29. Rimozioni
  34. Capitolo 30. Risorse
  35. Capitolo 31. Spot
  36. Capitolo 32. Tecnocatastrofe
  37. Capitolo 33. Tecnosalvezza
  38. Capitolo 34. Tossicodipendenza
  39. Capitolo 35. Ultima speranza
  40. Capitolo 36. Violenza
  41. Capitolo 37. Zig-Zag
  42. Biografia degli autori
  43. Ringraziamenti