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La storia e il pensiero del padre del consumo critico, fondatore del "Centro nuovo modello di sviluppo". Un'antologia di scritti recenti e un testo inedito

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La storia e il pensiero del padre del consumo critico, fondatore del "Centro nuovo modello di sviluppo". Un'antologia di scritti recenti e un testo inedito

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Informazioni sul libro

Con un testo inedito contro i miti della crescita e del "mercato", per uno stile di vita sobrio e un'economia pubblica Questo libro - per la prima volta - raccoglie in un corpus organico alcuni "classici" del pensiero di Francesco Gesualdi, studioso, militante e padre del consumo critico in Italia. È tempo di cambiare il sistema: la crisi ha trascinato nel fango il mito della crescita; più di metà della popolazione mondiale non ha un'esistenza dignitosa. Che cosa fare? La visione di Gesualdi è nitida: è necessario riorganizzare in modo complessivo e profondo l'economia e la società, perché le persone e le generazioni future contano più del Pil. Ribelliamoci alla tirannia del "mercato" che - in nome di occupazione e stabilità - ci condanna a una crescita perpetua. Rifondiamo l'economia pubblica, organizzando il "fai-da-te"e il lavoro comunitario, con l'obiettivo del benvivere di tutti. Coniughiamo l'impegno politico per cambiare le regole con la coerenza individuale e uno stile di vita più sobrio. Coinvolgiamo i "movimenti" e gli attori dell'economia solidale in una riflessione di "sistema", per trovare una base comune. Francesco Gesualdi già allievo di don Milani, coordina il 'Centro nuovo modello di sviluppo' di Vecchiano (PI), che dal 1985 analizza gli squilibri internazionali, monitora i comportamenti delle imprese e studia nuove formule economiche sostenibili (www.cnms.it). È autore, tra gli altri libri, della storica "Guida al consumo critico", (EMI), di "Sobrietà" e "Le catene del debito" (Feltrinelli). Ha scritto per Altreconomia "Dalla parte sbagliata del mondo", "L'altra via" e "Facciamo da soli", da cui sono tratti alcuni testi di questo libro.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788865161371

Capitolo 1. Da Barbiana al Centro nuovo modello di sviluppo


Un militante dalla parte “sbagliata” del mondo

La lezione e lo spirito di Barbiana
La frequenza come allievo della scuola di Barbiana con don Lorenzo Milani - che negli anni Cinquanta e Sessanta segnò un’esperienza “didattica” nuova e rivoluzionaria - mi ha profondamente influenzato.
A Barbiana c’era una forte attenzione a tutti temi legati all’ingiustizia globale. Don Milani fu anche in questo un precursore: ci catapultò nell’arena internazionale, complice il fatto che negli anni Sessanta era in corso la liberazione dei Paesi africani dal giogo coloniale. Noi vivevamo in diretta questo avvenimento e mettevamo così a fuoco la coscienza di vivere in un mondo ingiusto.
A Barbiana ci veniva chiesto di usare il nostro sapere per liberarci tutti insieme dall’ingiustizia, con lo stimolo continuo a utilizzare la nostra vita in quest’ottica politica. Ogni anno le cartine dell’Africa che preparavamo cambiavano colore: a fine anni Cinquanta il colore dominante era il bianco, colore scelto per indicare i Paesi colonizzati; ma negli anni successivi, il rosso, colore dell’indipendenza, prendeva sempre più campo. Un modo concreto con cui a Barbiana si coniugava politica, geografia e manualità.
“L’eco del mondo” ci arrivava anche attraverso la lettura del giornale, al tempo stesso un’occasione per vivere i fatti e commentarli. Durante il periodo in cui La Pira fu sindaco di Firenze, capitarono a Barbiana anche molti stranieri. La Pira, che aveva una forte visione internazionalista, voleva fare di Firenze una città di mediazione e di pace: invitava ospiti da tutte le zone calde del pianeta. Persone che spesso venivano portate anche a Barbiana.
Così incontrammo algerini, palestinesi, congolesi. I loro racconti ci aprivano ad altri mondi, altre culture, altri stili di vita e ci facevano toccare con mano la sofferenza degli oppressi. Don Milani inoltre mandava spesso i suoi allievi all’estero: il viaggio era concepito come una continuazione della scuola, un altro modo per incontrare persone, situazioni, esperienze, per confrontarci con altri modi di pensare e di vivere. Era anche un momento per imparare a cavarcela, a consultare un orario dei treni, a saperci muovere per città sconosciute, a varcare le frontiere.
Non ultimo, era un modo per aiutarci a toglierci di dosso la timidezza ancestrale dei contadini che non sono mai usciti di casa. Almeno per me, il viaggio aveva anche un forte connotato politico, era un modo concreto per entrare in contatto con i popoli che lottano per la libertà.
L’Africa mi attirava e pensai che la scorciatoia per mettermi al servizio dei più deboli era diventare missionario. Lo dissi al priore, ma lui mi rispose che avevo tempo per una scelta del genere. Tutt’al più avrei potuto avvantaggiarmi studiando una lingua africana. Così cominciai a studiare l’arabo, con un corso su dischi a 78 giri, così come avevo studiato il francese e l’inglese. Il corso era di arabo egiziano.
Così quando arrivai in Algeria - la prima volta nel 1966 a 17 anni - non mi capiva nessuno. Ma avevo studiato anche la grammatica, la scrittura, la lettura e riuscii a cavarmela. Partecipavo a un campo di lavoro per volontari, facevo il manovale, poi passai in Libia dove trovai un posto di segretario nell’ufficio di un ingegnere locale.
Tornai a casa nell’aprile 1967 quando il priore stava ormai molto male. Don Lorenzo Milani muore nel giugno 1967, a Firenze, nella casa di famiglia dove era tornato per affrontare meglio le difficoltà della sua condizione. Per me che avevo 18 anni e che fino ad allora avevo vissuto in canonica con don Lorenzo e studiato nella scuola di Barbiana, cominciò allora l’avventura nella vita adulta.
Quando il priore morì non c’erano più le condizioni per rimanere. L’esperienza di Barbiana si stava concludendo: era chiaro che dopo la sua morte saremmo andati fra la gente. Non era un mistero che a Barbiana si spingesse verso la professione del sindacalista, come forma di partecipazione, da affiancare a quella politica in senso generale. Mi venne offerta la possibilità di seguire un corso per quadri sindacali, che a quei tempi la Cisl organizzava.
Fu un’esperienza importante: imparai i rudimenti dell’economia ed entrai in contatto con l’approccio sindacale nella sua interezza: le relazioni industriali, la contrattazione e tutto il resto. Questo momento della mia formazione un’impronta me l’ha lasciata: la mia particolare sensibilità per i diritti dei lavoratori l’ho acquisita al Centro studi della Cisl. Per il sindacato, finito il corso dovevo essere integrato nella struttura: perciò venni catapultato a Massa Carrara per fare un po’ di tirocinio. Rimasi poco, solo sei mesi, probabilmente tradendo le aspettative. A Massa capii che il sindacato non era il mio futuro.
Il percorso che mi aspettava come funzionario, confliggeva con l’idea che io avevo del sindacato. L’idea di diventare sindacalista di professione non mi piaceva e non mi interessava e quindi decisi di abbandonare subito la scena.

Dovevo fare il servizio militare e partii per la leva, anche perché l’obiezione di coscienza era di là da venire. Quando tornai avevo scelte importanti da fare, personali e profesionali. Il legame fra l’esperienza di Barbiana negli anni successivi non si è mai affievolito: ho la sensazione che lo “spirito di Barbiana” mi abbia guidato in ogni scelta, a cominciare dalla decisione di andare in Bangladesh qualche anno dopo, nel 1975, quando ormai ero già sposato con Niva e avevamo una bambina di quattro anni. Ma anche più avanti, quando tornato dal Banlgadesh mi resi conto che il mio futuro era qui in Italia, mi dissi che, nel solco di Barbiana, dovevo creare un luogo dove si potessero approfondire i meccanismi che generano povertà e sfruttamento, in modo che la gente comprendesse le dinamiche dell’impoverimento e prendesse delle iniziative.

Gli anni in Bangladesh
Il trasferimento in Bangladesh è stato un elemento chiave per la mia vita. Quando ci sposammo, io e Niva già accarezzavamo l’idea di partire. All’epoca ero carico dell’invito barbianese di stare dalla parte giusta. Il priore questa scelta l’aveva fatta. In alcuni suoi scritti sostiene chiaramente che la testa sta dove sta il cuore, e il cuore sta là dove vivi. Se hai delle relazioni con una certa classe sociale, è ovvio che sei portato a capire di più le argomentazioni e a parteggiare per le emozioni del gruppo al quale appartieni. Se vuoi essere sicuro di fare le scelte politiche giuste, devi anche stare dalla parte di chi ha interesse a fare cambiare le cose. Anche questa è una considerazione molto pratica, molto concreta, non c’è niente di filosofico dietro.

Dopo un’esperienza sindacale in fabbrica e dopo aver coordinato per alcuni anni una scuola messa in piedi dagli ex allievi di don Lorenzo a Calenzano, nel 1975 decidemmo che era arrivato il momento di partire. Eravamo negli anni Settanta, ma già ci rendevamo conto che la distinzione di classe da noi non era più così netta, non c’era un discrimine preciso fra il proletariato che voleva cambiare le cose e la borghesia che non aveva interesse per i cambiamenti.
C’erano forti partiti di sinistra, ma c’era anche il grande ventre molle della Democrazia cristiana. C’era il consumismo che stava crescendo ed eravamo sempre più coscienti di appartenere a un blocco di Paesi, il ricco Nord del mondo, che sfruttava l’altro blocco. Per quanto cercassimo, nel nostro ambito, di stare dalla parte giusta, cioè vicino ai più deboli, eravamo consapevoli di vivere nella terra degli aggressori.
Non fu certo una scelta facile: significava essere dalla parte degli ultimi proprio nell’ultimo Paese del mondo per indici di povertà. Alcuni amici, nostri coetanei, erano in Bangladesh e ci aprirono la strada: grazie alle competenze in campo sanitario che avevamo acquisito andammo a lavorare in un lebbrosario. Eravamo in un piccolo villaggio di campagna dove non c’era corrente elettrica, non c’era strada. Non c’era nulla. Da questo punto di vista avevamo fatto una scelta giusta. Ma anche lì ci “portavamo dietro” la nostra origine occidentale, come un marchio di fabbrica. Avevamo sempre gli agganci con gli amici italiani, e con il mondo dei missionari locali, i quali naturalmente non si facevano mancare niente e rispetto ai locali, conducevamo una vita da “nababbi”. Per quanto volessimo fare una scelta - diciamo così - di massa, ci rendevamo conto che non eravamo nella massa. Al di là delle differenze culturali, di lingua, di religione, c’era un cordone ombelicale che continuava ad unirci al nostro mondo.
Quindi il grande punto interrogativo era: ma noi qui che gioco giochiamo? Stiamo facendo davvero la stessa vita dei locali, condividiamo lo stesso loro destino, o rappresentiamo un modello negativo? Non sarà che in realtà li stiamo spronando a uscire dalla loro condizione ma per avvicinarsi alla società dei consumi, che noi rigettiamo, ma che per loro forse rappresenta un punto di arrivo?
Questo dubbio ci attanagliava. Specie da parte di Niva c’era questa grossa obiezione: forse - diceva - sarebbe giusto tornare dall’altra parte del mondo, almeno saremmo fra i nostri pari, mentre qui alla fine non siamo né carne né pesce.

Poi la nostra bimba più grande si ammalò e decidemmo di tornare. Rimase comunque la sensazione profonda di avere fallito: il fallimento era nella scoperta che il “marchio di fabbrica” non te lo togli di dosso. La nostra idea di saltare il fossato, era soltanto un’illusione. Quando ti trovi di fronte alla scelta fra vivere e morire, scelta di fronte alla quale loro, quelli che sono nati lì, si trovano quotidianamente, noi facciamo la scelta di vivere, sfruttiamo la nostra posizione di privilegio per tornare indietro. Tu puoi salvarti: puoi curarti comprando le medicine, puoi far studiare i tuoi bimbi. Ci rendevamo conto che anche se fossimo rimasti lì, saremmo rimasti da privilegiati. Razionalmente io ero convinto che noi dovevamo essere disponibili a vivere le loro condizioni fino in fondo, accettando tutto, fino alle estreme conseguenze. Se vuoi stare con gli ultimi, perché vuoi lottare con loro, ne devi accettare la condizione fino in fondo. Se il destino vuole che tu sia uno di quelli che se ne vanno prima degli altri, la tua scelta politica ti avrà portato anche all’annientamento. Per me la scelta di saltare il fossato era qualcosa da esplorare, ma non capisco, razionalmente parlando, perché io dovrei avere una possibilità in più rispetto a loro. Se la scelta è di classe, è di classe, fino in fondo. Se loro certe opzioni non le hanno, non le devi avere neanche tu. Forse per arrivare a questo punto ci vuole una convinzione che noi sempicemente non avevamo: per cui quando la posta in gioco ha raggiunto certi livelli, noi siamo tornati indietro.

La parte sbagliata del mondo
È stato allora che per noi si è posto il problema centrale: come stare - nel modo migliore possibile - nella parte sbagliata del mondo. In quel momento ho cercato dei compagni di viaggio. L’idea, per me, era ancora quella di spendere al meglio la mia esistenza, nella condivisione di pensieri politici, sociali, esistenziali, nella consapevolezza che non è possibile limitarsi al solo livello dell’azione politica, ma che dovevamo associarci con altre persone per condurre uno stile di vita diverso.
Se si vuole cambiare a livello di sistema, a maggior ragione è necessario mettere in pratica i principi che ti guidano nel tuo tempo presente; c’era poi c’era la consapevolezza che di fronte al disagio, dobbiamo anche essere capaci di dare una risposta immediata ai bisogni più urgenti.
Per questo avvertivamo, io e Niva, l’esigenza di fondere insieme attività politica e uno stile di vita sì orientato alla sostenibilità ma anche verso la solidarietà immediata. Fortuna volle che ci imbattessimo in persone che avevano fatto esperienze analoghe alle nostre, che avevano maturato le stesse riflessioni. Decidemmo di realizzare insieme i nostri progetti. Qualcuno - come Giorgio e Alba, che vivono qui - è ancora oggi un nostro compagno di viaggio.
C’erano poi altre coppie, prevalentemente fiorentine, che avevano alle spalle esperienze di volontariato nel Sud del mondo e anche la volontà di applicare nel quotidiano delle forme di solidarietà diretta.

Scrivemmo un progetto, mettendo tutto nero su bianco. Volevamo fondere il politico con il sociale, volevamo che il nostro stile di vita coincidesse con quello a cui aspiravamo a livello generale. Il nostro fine era di costituire un tessuto sociale più ampio della comune famiglia, per offrire accoglienza alle persone in difficoltà. Per nostra prassi, tutto quello che abbiamo realizzato lo avevamo prima teorizzato e messo per iscritto. Anche quando abbiamo ristrutturato materialmente la nostra “casa”, abbiamo seguito il progetto che già avevamo sulla carta: era chiaro che nella stalla avremmo creato la biblioteca, per le riflessioni e per la documentazione.
Non avevamo chiaro dove ci avrebbe portato la riflessione, ma sapevamo che ci sarebbe servito un luogo dove fare attività di studio e attività politica, dove nessuno ci potesse buttare fuori a causa delle nostre idee. Avevamo invece chiaro di voler fare opera di informazione e sensibilizzazione, e di volere agire in ambito internazionale.
Nel ‘79 - solo due anni dopo il ritorno dal Bangladesh - si costituisce l’associazione, per raccogliere un po’ di fondi. Si chiamava “Vita associativa”. Chiunque poteva aderire e lo scopo era permetterci di realizzare la nostra idea. Quindi era una richiesta di solidarietà molto spicciola. Presentavamo il progetto, spiegavamo che ci serviva una casa abbastanza grande da ospitare alcune famiglie e le attività collettive che pensavamo di svolgervi. Non sapevamo di quanto denaro avessimo bisogno. La casa che poi abbiamo comprato nel 1980 costò 40 milioni, esattamente quanto avevamo in cassa. Avevamo messo insieme il denaro non perché fossimo stati capaci di trovare migliaia di aderenti, ma perché una delle persone aderenti all’associazione aveva una casetta abbandonata nei dintorni di Firenze e ci disse: se volete, vi regalo quella. Andammo a vederla ma non era adatta, era troppo piccola. Era in una bella posizione, sul monte Morello, ma non andava bene per noi. Questa persona fece allora un gesto generoso: vendette la casa e ci diede i soldi per l’associazione. Così acquisimmo di botto 30 milioni, da sommare ai 10 che avevamo messo insieme attraverso le quote.
Era una vecchia casa colonica abbandonata da dieci anni, mezza diroccata, ma aveva il vantaggio di costare pochissimo. Non era ancora il Centro nuovo modello di sviluppo: ci saremmo arrivati per gradi. Dopo i lavori di ristrutturazione, che abbiamo fatto con le nostre mani, abbiamo cominciato a realizzare le attività di carattere sociale, con l’accoglienza di persone in difficoltà, specialmente bambini. Per ultimo ci dedicammo alle attività politiche e culturali: e anche dal punto di vista delle ristrutturazioni, la stalla è stata proprio l’ultima cosa che abbiamo aggiustato.

Il Centro nuovo modello di sviluppo
Nel 1985, a ristrutturazione ultimata, era necessario un nome per uscire all’esterno. Pensa e ripensa, trovammo questo nome, piuttosto lungo - Centro nuovo modello di sviluppo - perché all’epoca ci sembrava che potesse comprendere tutto quello che volevamo realizzare.
Nel nostro impegno a servire chi si trova in stato di necessità ci siamo orientati prevalentemente verso l’affido di minori, perché era la cosa a noi più congeniale, visto che eravamo un gruppo di famiglie. Avevamo già i nostri figli e accogliere altri ragazzi non era difficile. Lo avevamo già fatto quando vivevamo nei nostri appartamenti singoli, senza fare vita comune.
Ma non bastava. Per noi la sola attività di solidarietà rischiava di scadere nell’assistenzialismo o - peggio - di condannare chi vive in stato di necessità a restarci per sempre. Occorreva operare sia a livello sociale che a livello politico. La solidarietà per risolvere il problema del momento, la politica per cambiare il contesto, affinché più nessuno debba vivere l’umiliazione di bussare alle porte altrui.
Una “doppia azione” che ho appreso ancora una volta a Barbiana. Quando ero in Algeria don Lorenzo mi scrisse una lettera, in risposta a una mia in cui chiedevo se fosse giusto fare la carità. Ad Algeri mi ero imbattuto negli accattoni, che prima non avevo mai visto. Lui rispose che la carità è brutta se credi con ciò di esserti messo la coscienza a posto e che quindi bisogna anche agire sul piano politico; ma l’azione politica non basta, ed è altrettanto insufficiente se non hai la capacità di provvedere immediatamente alle necessità del momento. La “carità” e la politica sono insomma strade parallele.
Nel Novecento non esisteva ancora l’idea di mettere in discussione anche il nostro stile di vita di militanti, così da applicare fin da subito - almeno nella vita personale - quei comportamenti e quelle scelte che vorremmo attuare a livello generale. È mancata questa riflessione, di cui oggi si vedono le contraddizioni più estreme: quello di sinistra che rivendica la giustizia sociale e poi monta sulla Mercedes come se niente fosse, oppure quello che lancia l’allarme per la salvezza del pianeta e poi circola sul Suv. C’è uno scollamento fortissimo fra le idee professate e i comportamenti concreti. Noi avvertivamo già allora la necessità di eliminare questi scollamenti, di saldare i vari livelli: il personale col collettivo, la solidarietà con il politico. È quanto abbiamo tentato di realizzare qui.

L’idea primaria era mettere a fuoco gli effetti dell’organizzazione economica dominante sulle condizioni di vita della gente.
Volevamo studiare sia il capitalismo sia i sistemi socialisti per capire che cosa ci fosse di buono e di sbagliato nell’uno e negli altri. L’obiettivo finale era proporre qualcosa di nuovo, perché ci rendevamo conto che nessuno aveva ancora costruito qualcosa che fosse davvero soddisfacente. Si formò così l’idea di evocare l’immagine di un “nuovo modello di sviluppo”. Il messaggio che volevamo comunicare era questo: dobbiamo abbandonare l’esistente e cercare qualcosa di alternativo, che vada oltre ciò che è stato realizzato fino a ora, indipendentemente dai luoghi geografici. Le aberrazioni dei “sistemi”, il socialismo come il capitalismo, hanno causato autentiche catastrofi perché hanno perso di vista le finalità sociali. Tuttavia non era sbagliata l’idea che ogni villaggio dovesse avere un suo altoforno, ovvero la piena autosufficienza. Questi temi stanno tornando: tutti noi oggi parliamo di privilegiare la produzione locale, i mercati locali, le filiere corte. Se guardo a che cos’è la Chiesa cattolica negli ultimi anni e la identifico con il Vaticano o con la Cei, mi dico: qui, rispetto al messaggio cristiano, qualcosa è andato storto. Ma l’errore è nell’attuazione del messaggio cristiano: forse allora il messaggio in sé va recuperato. Allo stesso modo sono convinto che il marxismo e i sistemi collettivisti che abbiamo comunque conosciuto, abbiano degli aspetti che devono essere ripresi. La storia dei beni comuni, ad esempio, che oggi sta tornando al centro della nostra attenzione, appartiene più alla tradizione marxista che alla tradizione mercantile; io non esito ad affermare che appartiene anche alla tradizione cristiana.
Resto profondamente convinto che se vogliamo trovare una via d’uscita dal sistema oggi dominante, dobbiamo avere la capacità di guardare con estrema libertà a tutto ciò che i sistemi economici e sociali nel corso dei secoli hanno messo in atto. Avendo le idee chiare su che cosa cosa vogliamo costruire - ossia al servizio di chi lo vogliamo costruire - possiamo poi valutare quali strumenti utilizzare.

Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo ha fatto poi un’ulteriore “scelta di campo”, dalla parte del Sud del mondo, in un’epoca in cui ancora non si parlava di “globalizzazione” e molti altri si spendevano in ambiti più tradizionali, per esempio dalla parte dell’ambiente e degli operai.
L’origine ideologica e culturale di questa visione è probabilmente legata anche a Barbiana.
La “lezione di Barbiana” è stata la nostra chiave di interpretazione della realtà. Volevamo capire se i singoli cittadini hanno un ruolo all’interno della grande macchina economica internazionale, e così la nostra attenzione è stata attratta dai beni che consumiamo. Milani, facendo riferimento alla macchina militare, diceva che se vogliamo evitare quei crimini che sono stati commessi lungo la storia, dobbiamo insegnare ai giovani di sentirsi ciascuno responsabile di tutto. Lui faceva riferimento spesso al fatto che la macchina militare funziona non solo perché c’è qualcuno che dà l’ordine, ma anche perché c’è tutta una catena che obbedisce. Abbiamo applicato questa intuizione al funzionamento dell’economia e siamo arrivati alla conclusione che la nostra obbedienza di cittadini del mondo ricco passa attraverso il consumo.
Ogni giorno, quando beviamo ad esempio il caffè che arriva dal Sud del mondo, abbiamo la chiara percezione che siamo dentro la macchina economica internazionale. Dobbiamo chiederci che cosa stiamo facendo in quel momento. Stiamo dando una mano agli oppressi affinché si liberino dalle catene dell’oppressione, o siamo al servizio dei potenti e della loro macchina di sfruttamento?

All’inizio sembrava che l’alternativa fosse se consumare o non consumare. Se in cinque secoli il Sud del mondo nel “mercato internazionale” non ha fatto che impoverirsi significava che c’era un vizio di fondo nei rapporti fra Nord e Sud del mondo e la tentazione era chiudere questo tipo di relazione commerciale. Questa era una sensazione, ma per avvalorarla da un punto di vista scientifico erano necessarie altre indagini: per questo ci è sembrato...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Cambiare il sistema
  3. Indice dei contenuti
  4. Introduzione. L’utopia di Francuccio
  5. Capitolo 1. Da Barbiana al Centro nuovo modello di sviluppo
  6. Capitolo 2. La critica al mercato e alla “crescita”
  7. Capitolo 3. Come cambiare il sistema: l’altra via
  8. Capitolo 4. I movimenti e l’economia solidale
  9. Capitolo 5. Conclusioni: l’alternativa condivisa
  10. Biografia dell'autore