Trolls Inc.
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Il volto autoritario della Rete, tra libertà d'insulto, pubblicità e privacy

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Il volto autoritario della Rete, tra libertà d'insulto, pubblicità e privacy

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La Rete democratica è un "mito". È controllata da pochi colossi e infestata dai Troll: tollerati perché generano "traffico", pubblicità e ricavi La leggenda di internet come trincea di libertà e democrazia è da sfatare: al contrario, la Rete rappresenta un modello economico autoritario, che elude ogni responsabilità sui contenuti. Questa inchiesta spiega perché. È il "traffico" - da cui deriva la pubblicità - l'unica fonte di ricavi, specie per i pochi grandi provider egemoni (Google e Facebook su tutti): per questo sono tollerati gli insulti dei Troll e altra spazzatura. La "civiltà delle cattive maniere" (come l'ha definita Ilvo Diamanti) porta infatti con sé clic e inserzioni. A farne le spese è prima di tutto la qualità dell'informazione, omologata e depauperata, ma anche la sicurezza dei dati personali. Le questioni sono essenziali, in Italia e non solo: oligopolio della Rete e fiscalità agevolata, privacy e profilazione commerciale, diritto all'oblio e sorveglianza di massa. Che cosa possiamo fare per difendere i nostri diritti dalla "dittatura dell'algoritmo"? Dal Brasile ecco la legge più avanzata su diritti e doveri digitali. Con un'intervista inedita a Stefano Rodotà. L'AUTORE: Duccio Facchini scrive dal 2011 per il mensile "Altreconomia". È autore del libro "Mi cercarono l'anima. Storia di Stefano Cucchi" (Altreconomia Edizioni 2013) e coautore del libro "Armi, un affare di Stato" (Chiarelettere 2012). Fa parte dell'associazione "Qui Lecco Libera".

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865161579

Il tasto dolente: tra commenti e responsabilità. Il caso Google

Capitolo 4

Ogni commento è traffico
Entriamo nel cuore del sistema. Il commento è un’esca interattiva. È sufficiente accedere ad una pagina di un quotidiano online, o di un portale o di una testata nativa digitale e inserire nell’apposito spazio il proprio commento. A seconda dei casi analizzati, questa pratica è più o meno filtrata da uno stadio di moderazione. L’attuale modello economico digitale rende questo tipo di traffico imprescindibile per l’editore - o per la sua concessionaria - anche a costo di danneggiare - disgustandola - la platea più interessata (e interessante) dei lettori.
Quel “costo”, quel limite, è delimitato dalle norme che vigono in rete. Quali siano le regole per i vari attori della filiera è il punto centrale di questo capitolo. Perché dalle regole derivano le responsabilità. E la notizia è che in rete queste responsabilità siano poche e mal distribuite. E che affermarlo non significa augurarsi un bavaglio per internet. Anzi.

Si prenda ad esempio il quotidiano online più consultato: repubblica.it. Non tutti gli articoli caricati sulla sua homepage possono ricevere i commenti dei lettori. Nella mattinata del 29 agosto 2014 - mentre scriviamo - i pezzi “aperti” ai naviganti riguardano il “balzo della disoccupazione”, la prestazione delle squadre di calcio italiane in Europa League, i sorteggi di Champions, l’infortunio di Andrea Pirlo, la retromarcia del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Poletti a proposito del prelievo sulle pensioni e giù fino al probabile passaggio di Alessandro Del Piero a una squadra indiana. Quelli della categoria “esteri” - sono i giorni dell’attenzione allo Stato Islamico e all’Ucraina - no. Ad ogni modo, l’articolo “Torna a salire la disoccupazione: a luglio balza al 12,6%” permette l’interazione.
È sufficiente registrarsi a “La tua Repubblica.it” oppure “usare anche la tua utenza social”. Basta perciò indicare un indirizzo di posta elettronica, un nome utente (anche di fantasia), e una chiave di accesso; infine è bene consultare - e poi obbligatoriamente “accettare” - le “Condizioni e termini generali di contratto”. Al terzo comma dell’articolo 6 (“Responsabilità dell’Utente per i contenuti pubblicati e per l’utilizzo dei Servizi”) si legge: “L’Utente si impegna sin d’ora a manlevare e mantenere garantite ed indenni le Società del Gruppo da ogni richiesta, anche risarcitoria, proposta e/o derivante, direttamente ovvero indirettamente, dall’utilizzo da parte dell’utente medesimo dei Servizi e/o dalla pubblicazione di qualsivoglia contenuto. Ai fini di tale manleva, si considererà imputabile all’utente qualsivoglia condotta posta in essere utilizzando le credenziali a quest’ultimo attribuite, salvo non ne venga comunicata la perdita alla Società in epoca anteriore alla citata condotta”.
Stessa dinamica per corriere.it, dove al nono comma dell’articolo 3 delle “Condizioni generali per la registrazione e la fruizione dei contenuti generati dagli utenti di Corriere.it, Corriere del Mezzogiorno.it, Corriere del Veneto.it, Corriere Fiorentino.it, Corriere di Bologna.it (necessario per inviare i commenti e accedere ai servizi)” si legge che “RCS MediaGroup S.p.A. e gli Editori Locali non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili per il contenuto dei messaggi inviati dagli utenti e si riservano il diritto di cancellare qualsiasi messaggio o contenuto sia ritenuto inopportuno o non conforme allo spirito del servizio senza tuttavia assumere alcun obbligo al riguardo” e che “ciascun partecipante si assume la piena responsabilità penale e civile derivante dal contenuto illecito dei propri messaggi e da ogni danno che possa essere lamentato da terzi in relazione alla pubblicazione degli stessi”.
Anche ItaliaOnLine, padrona dei portali Virgilio e Libero, ha delle “condizioni generali di contratto dei servizi di community” molto chiare in materia di responsabilità dell’autore di un commento e che ritroveremo più avanti quando verrà affrontato in particolare il “caso Google”.
Articolo 6, comma 3. “[…] si da atto che Italiaonline agisce in qualità di fornitore degli spazi virtuali (“hosting provider”) e pertanto, salvo quanto eventualmente previsto inderogabilmente dalla legge, non può garantire che il contenuto degli UCG (contenuti generati dall’utente, nda) e immessi dagli Utenti Registrati tramite i Servizi non sia opinabile, inadatto od offensivo e/o in generale illecito e, pertanto, declina ogni responsabilità al riguardo. A tale riguardo, gli Utenti Registrati prendono atto che Italiaonline non è tenuta a controllare e, salvo che ciò si renda necessario per adempiere ad un ordine giudiziario o di altra autorità competente, non opererà alcun controllo preventivo sugli UGC immessi dagli Utenti Registrati negli spazi web messi a loro disposizione tramite i Servizi non essendo soggetta ad alcun obbligo generale di sorveglianza. Italiaonline, pertanto, non può essere in alcun modo ritenuta responsabile per i suddetti UGC, né per eventuali errori e/o omissioni contenuti negli stessi, nonché per eventuali danni diretti o indiretti derivanti agli Utenti Registrati stessi e/o a terzi. L’Utente Registrato, pertanto, sarà il solo responsabile degli UCG immessi, e/o diffusi online in via del tutto autonoma tramite i Servizi, in nome e/o per conto proprio o di terzi, oltre che dell’esattezza e veridicità degli stessi”.

Il tema del controllo preventivo e della sua straordinaria centralità in tutto il dibattito sulla “civiltà delle cattive maniere”, come detto, ritornerà nelle prossime pagine.
Chiude l’elenco, ridotto ma simbolico, il sito del Fatto Quotidiano, dove i commenti sono “moderati” dalla i-Side Srl di Davide Romieri, che nel precedente capitolo ha fatto da Caronte per navigare nel “flusso interattivo”. “Il lettore - si legge nei ‘Termini e condizioni d’utilizzo’ - è responsabile a titolo individuale per i contenuti dei propri commenti. L’editore, il gestore del sito, pur non essendo in grado di assicurare un controllo puntuale su ognuno dei messaggi ricevuti e non rispondono quindi del loro contenuto, in ogni caso si riservano il diritto di cancellare, spostare, modificare i messaggi che, a loro discrezionale giudizio, appaiono abusivi, diffamatori, osceni o lesivi del diritto d’autore e dei marchi e in ogni caso inaccettabili per la linea editoriale del sito”.

Tutti la invocano ma nessuno gradisce prendersi l’onere di quell’interazione di cui ciascun soggetto dell’informazione online ha vitale necessità. Tecnicamente è una “manleva”, che sbilancia sulle spalle del lettore-commentatore ogni ricaduta, ma praticamente è un “libera tutti”. Non resta che risalire il pozzo sino al diretto interessato: l’utente.

La responsabilità dell’utente
“Chiunque […] comunicando con più persone […], offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato […], la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa […] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità […], ovvero in atto pubblico […], la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio […], le pene sono aumentate […]”.


Questo è l’articolo 595 del codice penale italiano: “diffamazione”, nel capo dei “delitti contro l’onore”.
È una regola che, in teoria, dovrebbe esser valida al bar come in rete, tra colleghi così come tra ipotetici lettori infuriati di un quotidiano o settimanale online. La negazione della teoria, e perciò del regime eccezionale cui è sottoposto un frammento centrale del diritto su internet (non è soltanto buona educazione), è messa a fuoco con lucida amarezza da Caterina Malavenda, avvocato esperto di diritto dell’informazione e della comunicazione che ha assistito negli anni testate come il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano o Il Sole 24 Ore. La quale non soltanto chiarisce il quadro normativo ma dà uno spaccato della prassi, con riguardo all’autore di un commento di contenuto diffamatorio.

“Le norme che riguardano il reato di diffamazione online - spiega Malavenda - sono quelle che disciplinano lo stesso delitto realizzato con quelli che il codice penale definisce ‘altri mezzi di pubblicità’, e cioè qualunque tipo di diffamazione che abbia come destinatario un numero non determinato di persone. La ‘diffamazione a mezzo web’, inoltre, è una forma di diffamazione aggravata dal mezzo, come vale per la stampa, la televisione e la radio. Si può perciò querelare attraverso norme ordinarie quella persona che ‘posta’ o che inserisce un messaggio diffamatorio su internet. Quando e se lo firma, con nome e cognome, lo si querela, si celebra un processo e si stabilisce se si tratti di diffamazione, diritto di cronaca e così via”.
È un caso ideale, dato che buona parte dell’interazione online viene esercitata con lo schermo protettivo offerta da nickname più o meno curiosi. Ed è qui che Malavenda intravvede l’insorgere dei primi “problemi”. “In quel caso - prosegue - si procede con una querela contro ignoti, augurandosi che il pubblico ministero abbia tempo e voglia di occuparsi del caso. In quell’eventualità si rivolgerà alla Polizia postale, la quale è ormai ben specializzata nel risalire a chi ha immesso il messaggio".
“La cosa importante - sottolinea Malavenda -, non è il sito di partenza o la mail di partenza del contenuto potenzialmente diffamatorio ma è la certezza che questo sia stato immesso da una determinata persona. Altrimenti il processo non si può celebrare. Per questo esiste il cosiddetto indirizzo IP (Protocol Address). Ponendo che questo sia riconducibile ad una persona fisica - non lo è sempre, ad esempio nelle redazioni l’IP è comune - sarà possibile allora risalire con certezza a chi ha immesso il messaggio citato. Il punto è che se il server dal quale è stato spedito in rete il contenuto si trova all’estero, oltre il confine delle Alpi o della Sicilia, bisogna procedere attraverso rogatorie”. Ovvero quelle richieste avanzate da un’autorità giudiziaria affinché la sua omologa estera esegua atti processuali nella propria “circoscrizione”.
“Per questo - aggiunge Malavenda - sostengo che esistano le norme ma che sia molto difficile applicarle, rendendo complicata anche l’individuazione di un soggetto responsabile anche solo civilmente dei danni. Dunque una diffamazione di tale natura, che non sia una diffamazione terribile o rivolta ad una persona importante, è destinata a rimanere contro ignoti e quindi ad essere archiviata”.
C’è una soluzione transitoria, quasi un compromesso, che l’avvocato spiega così. “La Polizia postale può oscurare il sito che reca il messaggio. Può, cioè, bloccare su scala nazionale il flusso delle informazioni a pagina. Dunque, mentre è difficile ottenere la condanna del colpevole, è molto più semplice ottenere il blocco dei dati, che spesso è la cosa più importante, quello cioè che in genere il diffamato ama ottenere è che la notizia diffamatoria sparisca”.

“La prima volta che mi sono occupata di questi temi ho avuto l’impressione di bloccare il vento con le mani: è impossibile - conclude Malavenda -. Quello di internet è un mondo che non può essere normato. Anche le ‘netiquette’ che erano state introdotte sono condizioni per chi già è perbene in partenza. Usi le forchette se sei una persona educata, altrimenti infili comunque la testa nel piatto. Dunque, io penso che l’unico modo per viverci sereni - laddove fiorisce l’offesa, intende l’avvocato - è non andarci, e l’unica arma a disposizione è saper aspettare che la notizia o il fatto scompaia dalla circolazione per la rapidità e la sovrapposizione degli altri messaggi. Lo ripeto spesso a chi mi chiede di occuparmi di vicende simili: più si cercano quei tipi di messaggi e più li si tiene in vita”.
È una visione problematica quella dell’avvocato Malavenda, non del tutto condivisa da chi scrive. Perché l’idea che l’unica giustizia in rete sia garantita dallo scorrere del tempo e dalla scomparsa della pagina incriminata è di per sé un’altra cosa da un valore condiviso di giustizia, appunto. Però l’opinione di Malavenda è arricchente, perché consente ai non addetti ai lavori di comprendere certe dinamiche reali della rete. L’interesse si è spostato. Dal diffamatore al prodotto che quella viltà ha prodotto. Come se il diritto in rete divenisse un’opzione, un vizio, un capriccio. E la responsabilità un ricordo del passato.

La responsabilità della testata
L’irresponsabilità di chi invece contribuisce a veicolare il commento (che eventualmente integri il reato di diffamazione) s’inserisce perfettamente nel solco tracciato dalla Corte di Cassazione, che nel 2011 è stata chiamata a pronunciarsi (sentenza 44126/11), ancora una volta, sul punto.
Il caso specifico era quello di Daniela Hamaui, all’epoca dei fatti direttrice de l’Espresso e dunque responsabile anche della versione online. In primo e secondo grado era stata ritenuta responsabile di “omesso controllo” circa la “commissione del reato di diffamazione aggravata” dovuto a un commento di un lettore. Commento che la Corte ha ritenuto completamente diverso da quelle “riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione” il cui controllo è ricondotto al direttore e perciò annoverato dal codice penale.
“Pertanto - ha concluso la Cassazione nel 2011 - per le pubblicazioni a mezzo della rete informatica, quantomeno per quelle che […] vengono ‘postate’ direttamente dall’utenza, senza alcuna possibilità di controllo preventivo da parte del direttore della testata, deve essere svolto un discorso analogo a quello operato in materia radiotelevisiva. D’altronde, non vi è solamente una diversità strutturale tra i due mezzi di comunicazione (carta stampata e Internet), ma altresì la impossibilità per il direttore della testata di impedire la pubblicazione di commenti diffamatori, il che rende evidente che la norma contenuta nell’art. 57 c.p. (omesso controllo, nda) non è stata pensata per queste situazioni […]. Deve quindi ritenersi, conclusivamente, che il periodico online non possa essere considerato ‘stampa’”.

Ma non è finita qui. Infatti - a quanto pare - c’è un giudice, a Tallinn, in Estonia.
Il Paese Baltico nell’ottobre 2013 è stato ritenuto non colpevole della violazione del articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Libertà di espressione”) da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, dopo che il Paese aveva deciso di infliggere una multa a danno di un noto portale d’informazione, Delfi, che non aveva adeguatamente moderato dei commenti ritenuti offensivi.
Delfi era ed è tra i principali portali di informazione online dell’Estonia, che pubblica oltre 330 news al giorno. In basso ad ogni pagina web figurano gli ormai noti pulsanti “aggiungi il tuo commento” e “leggi i commenti”. I commenti sul sito, all’epoca del pronunciamento della Prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 ottobre 2013, erano caricati automaticamente, senz’alcuna attività di filtro o moderazione - come invece avviene per i casi italiani citati nel paragrafo precedente -. Gli articoli di Delfi, mediamente, ricevevano circa 10mila commenti, la maggior parte dei quali, hanno ricostruito i giudici di Strasburgo, aggiunti da utenti velati da pseudonimi. Ciascun lettore, però, aveva la possibilità di segnalare un commento ritenuto “leim” - insultante o diffamatorio o d’incitamento all’odio -, dando così avvio ad un iter spedito che ne avrebbe determinato l’eliminazione. C’era poi un sistema automatico di rilevazione delle parole proibite (o oscene) e, inoltre, la vittima di un presunto commento diffamatorio aveva la facoltà di segnalarlo direttamente all’editore, in modo tale che questi intervenisse - rimuovendolo - immediatamente. La proprietà di Delfi si era resa protagonista di diversi sforzi per mettere al corrente i lettori delle proprie responsabilità e dei requisiti che ciascun tentativo di interazione dovesse rispettare, attraverso lo stesso strumento dei “termini” o “condizioni” citati poc’anzi.
Il 24 gennaio 2006, però, succede qualcosa. Delfi pubblica un articolo intitolato “SLK Destroyed Planned Ice Road”, dove SLK sta per “AS Saaremaa Laevakompanii”, una società pubblica di navigazione, e “Ice road” equivale ad tratto di strada anch’essa pubblica lungo il mare ghiacciato - almeno d’inverno - tra la terraferma estone e alcune isole. In sostanza, SLK mal digerisce la condivisione della via con le auto, e i lettori se la prendono con un membro del board della società. I commenti si concentrano. In 24 ore sono già 185. Una parte consistente di questi è pesantissima. “Fucking shitheads” (fottute teste di cazzo), “burn in your own ship, sick Jew” (brucia nella tua nave, ebreo malato), “go and drown yourself” (vai e affogati), “what are you whining, kill this bastard once” (di che vi lamentate, ammazzate questo bastardo), “this will once get a blow from me with a cake” (questo si beccherà una torta in faccia), “can’t make bread from shit” (non puoi ricavare pane dalla merda). Il tenore è questo. Trascorrono sei settimane. L’interessato - tale “L.” - incarica un avvocato, il quale il 9 marzo dello stesso anno avanza una richiesta di risarcimento di 500mila corone (32mila euro) alla testata nonché di immediata rimozione degli insulti. Alla seconda istanza il portale Delfi acconsente, il giorno stesso, rifiutandosi però di corrispondere alcun risarcimento all’interessato.
Il 10 giugno 2009, dopo un’aspra diatriba legale, la Corte Suprema si esprime definitivamente. L’editore di Delfi e gli autori dei commenti sono ritenuti parimenti responsabili dei contenuti inseriti sul sito internet, anche in ragione dell’interesse economico dell’imprenditore-editore ad essi collegato. L’effetto è immediato. Delfi mette un freno al commento sfrenato, istituendo un gruppo di moderatori chiamato a scandagliare scritto per scritto. E ne dà pubblicamente conto. Nell’agosto di quell’anno, il portale era stato raggiunto da 190mila commenti, 15mila dei quali irrilevanti o frutto di spam, e per questo rimossi. Soltanto lo 0,5% (950) è ritenuto diffamatorio.
Il caso assume dimensioni internazionali.
Da un lato vi è l’orientamento della Corte Suprema estone, dall’altro l’opinione di chi intravede il rischio per la piena libertà d’espressione. Di chi scrive, commenta e chi dà spazio all’interazione digitale. La sentenza della Prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 ottobre 2013, però, è netta. La società editrice avrebbe dovuto intuire che un tema così sensibile avrebbe attratto un più alto numero di lettori, decisamente interessati e perciò potenzialmente più portati all’intervento. Magari anche a gamba tesa, o dall’offesa facile. Avrebbe dovuto cioè conoscere il proprio terreno, vigilando più e meglio, migliorando l’insufficiente sistema di filtraggio per parola (insulto) chiave, a tutela dell’onorabilità altrui. E, prima di dichiarare la “non violazione” dell’Articolo 10 della Cedu, la Corte spende parole illuminanti sull’ineludibile equilibrio della rete. “La Corte - scrivono i giudici - è consapevole […] dell’importanza dei desideri che gli utenti di Internet serbano di non rivelare la propria identità nell’esercizio della loro libertà di espressione. Allo stesso tempo, la diffusione di Internet e la possibilità - o talune volte, il pericolo - che, una volta pubblicata, l’informazione resti pubblica e circoli per sempre, suggerisce prudenza. La divulgazione libera di informazioni su Internet e la loro notevole quantità rendono arduo il compito di rilevare le dichiarazioni diffamatorie, e conseguentemente rimuoverle. Lo è per un portale di notizie Internet, come nel caso di specie, ma è ancor più oneroso per una persona potenzialmente lesa, e che ha molte meno risorse per tenere Internet sotto un continuo controllo”.

È chiaro che il principio di responsabilità riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a carico dei portali è lontanissimo da quello sancito dalla Suprema Corte di Cassazione italiana nel caso dell’ex direttrice de l’Espresso. C’è un fossato di mezzo, che dà perfettamente conto del cantiere aperto in materia. Una transizione che per il momento fa felici i Troll e chi monetizza la loro viltà.

La responsabilità di Google e del “provider”
I Troll possono quindi trolleggiare tranquilli. Le loro testate online preferite si sono tutelate, sia pure in modo improprio. E, dopo i privati, non resta che affrontare la responsabilità del terzo soggetto, che chiude l’elenco proprio perché più interessante e complesso. È Google, la pagina bianca alla quale probabilmente si affaccerà ogni vostra giornata di navigazione e che, peraltro, dal settembre 2009 ha ottenuto il brevetto o copyright dallo Us Patent and Trademark Office degli Stati Uniti.
Vi raccontiamo una vicenda emblematica che consente di avere da un lato un quadro aggiornato delle responsabilità del motore di ricerca padrone della rete e dall’altro un ritratto autentico di buona parte della sua dirigenza. Una brutta storia di sopraffazione e violenza a danno di un ragazzo dentro le mura di un istituto tecnico torinese che ha aperto uno squarcio anche nel “sistema Google”. E che lo stesso Google ha tentato - riuscendoci - di far passare il proprio modo di fare affari come una questione che riguardava il web e i diritti di libertà e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Trolls Inc.
  3. Ringraziamenti
  4. Indice
  5. Epigrafi in attesa di moderazione
  6. Figli di Troll
  7. Il popolo dei (non) moderati
  8. L’habitat dei Troll. Chi naviga e chi ci guadagna
  9. Moderare stanca (e costa). Chi (non) ferma i Troll e perché
  10. Il tasto dolente: tra commenti e responsabilità. Il caso Google
  11. Il motore ti ricerca. Tra profilazione e finta gratuità della rete
  12. La Costituzione nella rete di potere. Intervista a Stefano Rodotà
  13. Note