Il salto della pulce. La rivoluzione dell'usato
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Il salto della pulce. La rivoluzione dell'usato

Una "seconda vita", per le cose e le persone

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Il salto della pulce. La rivoluzione dell'usato

Una "seconda vita", per le cose e le persone

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Tutti hanno diritto a una seconda vita, le persone e le cose. L'economia dell'usato è circolare, salvaguarda l'ambiente e crea posti di lavoro. Questa è la sua storia straordinaria. C'era una volta - e c'è ancora - un mercatino dell'usato... Come in un romanzo, "Il salto della pulce" racconta - seguendo la vicenda della Mercatino SRL di Ettore Sole, il franchising che ha cambiato il volto dell'usato in Italia - l'"economia popolare" dell'usato. Le vicende di piccoli e grandi imprenditori del riutilizzo - non solo rigattieri e svuotacantine - ma anche imprese sociali. Qui potrete leggere le storie vive di persone comuni che sono riuscite - grazie al "second hand" - a rivoluzionare la propria vita, le battaglie per far "emergere" il settore, condotte con fantasia e caparbietà da Occhio del Riciclone e dai "caschi blu dell'usato" di Rete ONU. Scoprirete che l'usato è un'economia circolare, che fa bene all'ambiente e crea decine di migliaia di posti di lavoro: la sua efficienza si fonda su una socialità generativa, sulla cura del dettaglio e sulla passione. Un libro utile anche a chi vuole una fonte di ispirazione per cimentarsi in una nuova attività. Prefazione dell'economista Guido Viale. Ettore Sole è il direttore del franchising Mercatino SRL. È l'inventore della formula "conto terzi" in Italia, www.mercatinousato.com Pietro Luppi è tra i fondatori dell'associazione Occhio del Riciclone. Lavora tuttora nel suo Centro di Ricerca, www.occhiodelriciclone.com

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788865161845

Formiche e leoni. Le strade di Moussa e Dominique

Capitolo 2

Mentre Ettore Sole negli anni 90 inventava un nuovo modo di lavorare nel settore dell’usato dei beni durevoli in generale, c’era un’altra branca dell’usato che viaggiava su binari completamente diversi: i vestiti di seconda mano.
Fino agli anni 90 la filiera era semplice: quando i vestiti non servivano più o ingombravano troppo, le famiglie facevano dei sacchi e li donavano alle Caritas nelle parrocchie perché fossero distribuiti ai più poveri. Ma poco a poco, con l’affermarsi delle raccolte differenziate, i Comuni iniziarono a chiedere a parroci e volontari Caritas di fare un lavoro più sistematico. Alla fine degli anni 90 apparirono i primi cassoni stradali per la raccolta del rifiuto tessile, i volumi di indumenti raccolti aumentarono a dismisura, la filiera iniziò a strutturarsi e l’originaria componente solidale si diluì in un complesso meccanismo commerciale, globalizzato e pieno di zone oscure e criticità. Nel frattempo, proliferavano le raccolte porta a porta fatte da micro operatori che, spesso, pur di farsi donare gli indumenti, dichiaravano (e ancor oggi dichiarano) azioni di solidarietà inesistenti.
Raccontiamo qui i retroscena di queste vicende attraverso le storie di vita di due senegalesi: Moussa (lo definiremo una “formica di successo”) e Dominique (un “aspirante leone”).
Chi non lavora nel settore difficilmente arriva a immaginarsi quanti chilometri vengano percorsi, a volte, dalle merci usate nel momento in cui sono prese a carico da un operatore del riutilizzo. Oggetti che hanno avuto il loro primo ciclo di consumo in Francia, Germania o Italia, vengono riutilizzati da persone che vivono in Romania, Russia, Marocco o Kenya. Ma come arrivano fin lì? E in base a quali meccanismi?

La storia è articolata, ma non eccessivamente complicata. La regola generale è che dove la gente ha più soldi e consuma di più, c’è maggiore “rotazione” sia di merci nuove che usate. Accade più spesso che si rinnovino gli arredi o che si debba svuotare l’armadio dei vestiti meno utilizzati per fare spazio a quelli nuovi. Di conseguenza, i beni ancora utilizzabili di cui la gente ha bisogno di disfarsi sono di più, e spesso sono di qualità. Avendo la gente più soldi, può permettersi merci nuove e ricorre meno di frequente alle merci usate. A fronte di tanta disponibilità delle stesse, quindi, la domanda non è molta alta. E la legge di mercato stabilisce che quando l’offerta è molta e la domanda poca i prezzi siano molto bassi.
Nei Paesi dove la gente ha meno soldi accade totalmente il contrario. Le persone prima di disfarsi di un bene ancora utilizzabile ci pensano due volte, e dato che le merci nuove sono più costose, ricorrono più volentieri a ciò che è usato. I beni usati di origine locale sono pochi e la domanda è molta: i prezzi tendono quindi ad essere alti. Questo divario di prezzi tra Paesi rende conveniente, spesso, comprare merci usate nei territorio dove i prezzi sono più bassi per rivenderle dove i prezzi sono più alti. Da territorio più ricco a territorio più povero. Le persone che vivono di questa operazione sono molte e sono sempre di più.
Moussa è una di queste persone. Fino al giorno della sua partenza da N’Doukumane Gueye, piccolo villaggio del Nord rurale del Senegal, non era riuscito ad assimilare quanto fosse importante il passo che si apprestava a fare. La sua famiglia gli aveva dato una missione, e lui la aveva accettata con naturalezza: andare in Italia clandestinamente, prendere contatto con un cugino di quarto grado che lavorava lì da qualche anno, e trovare un impiego di qualsiasi tipo per generare denaro da inviare alla famiglia. La famiglia aveva risparmiato per anni per pagargli il passaggio, e una volta lì avrebbe dovuto arrangiarsi. Aveva vent’anni ed era pieno di forza ed entusiasmo per il futuro. Nella sua testa, non contemplava minimamente la possibilità dell’insuccesso. L’Europa, pensava, è un luogo molto ricco e, in un modo o nell’altro, il lavoro e il guadagno saranno assicurati. Ma al momento di salutare i genitori, i fratelli e i cugini, sentì improvvisamente il peso di quanto stava facendo. Però non voleva piangere, non doveva mostrare debolezza. Serrò le labbra, smise di parlare e iniziò a respirare profondamente per trattenere il pianto. Sarebbe mancato per anni, e lo sapeva. Una volta salito sulla macchina che doveva portarlo alla fermata del microbus a Sagata, non poté resistere oltre e iniziò a piangere a dirotto. Le settimane successive sarebbero state particolarmente difficili: ammonticchiato assieme ad altri migranti in un piccolo furgone, attraversò prima il Senegal occidentale, poi il Mali, poi un pezzo di Niger fino ad Agadez, dove fu trasferito su un altro microbus con il quale attraversò il deserto del Tenerè, bevendo solo poche sorsate di acqua al giorno e mangiando quasi nulla.
Quando arrivò a Tripoli, in Libia, aveva dovuto dare ai poliziotti dei posti di blocco di tre Paesi l’equivalente di quello che la sua famiglia guadagnava normalmente in sei mesi, e in aggiunta all’enorme cifra di denaro che già aveva dovuto consegnare agli organizzatori del viaggio per il passaggio via terra e come anticipo del viaggio via mare. Quando salì sul peschereccio a Tripoli, era passato un mese dalla sua partenza. Era indebolito dagli stenti e annichilito emotivamente dai continui maltrattamenti degli ufficiali ai posti di blocco, che in un caso, prima di prendergli i soldi, lo avevano tenuto per ore inginocchiato al sole assieme ai suoi compagni di viaggio, dandogli violenti calci al minimo movimento.
Quando arrivò a Roma non era più lo stesso ragazzo ingenuo e gioviale della partenza. Iniziò subito a darsi da fare, rendendosi conto fin dal primo giorno che nessuno gli avrebbe regalato nulla. Dopo 9 anni, nel 2000, aveva solo trent’anni ma era esausto: da anni, tutti i giorni, viveva la stessa estenuante routine. Metteva il telo sul marciapiede, esponeva portafogli e felpe contraffatti, sorrideva ai passanti offrendo la merce, e ogni volta che il collega vicino all’incrocio sibilava un fischio tra i denti, riavvolgeva di fretta il telo, lo caricava in spalla come un sacco di patate e scappava in Via Enrico da Pozzo, una piccola via oscura; quando i vigili se ne andavano, tutta l’operazione ricominciava da capo. Ogni tanto, per non farsi acchiappare, abbandonava la merce e i vigili gliela sequestravano. Allora erano dolori: lui comprava la merce a “buffo”, e dopo un mese, anche se non l’aveva venduta, il fornitore esigeva ugualmente il denaro. E con quella gente non c’era molto da scherzare. Fortunatamente tra i suoi compatrioti ambulanti vigeva un accordo di solidarietà. Erano circa in quindici a riunire tutte le volte la somma di denaro e a prestarla alla sfortunata vittima del sequestro, che poi però, ovviamente, doveva restituirla settimana per settimana erodendo ancor di più i già magri guadagni.
Moussa riusciva a malapena a sopravvivere in un buco di 20 metri quadrati a Tor Marancia assieme a due connazionali; anche a N’Doukumane Gueye condivideva un piccolo spazio con fratelli e genitori, ma fuori dalla porta c’era spazio aperto, c’era la sua comunità; non si era mai sentito soffocato. A Tor Marancia, invece, si sentiva come in una piccola prigione, fuori c’era un mondo freddo e dentro puzza e disordine. D’altronde, non avrebbe mai potuto permettersi uno spazio migliore: con quello che guadagnava riusciva solo a sopravvivere e a mandare tutti i mesi un obolo alla propria famiglia (del quale il 10% era trattenuto da Western Union per il trasferimento). Con quei soldi i suoi parenti non combinavano molto: coprivano essenzialmente piccoli imprevisti, come una spesa medica di poco conto sopraggiunta all’improvviso, o una parte dell’acquisto di cibo nei mesi particolarmente difficili. In quasi dieci anni di questo lavoro, Moussa aveva visto molti colleghi e compatrioti cadere nella disperazione e affogarla nell’alcool. Finivano lavorando male, guadagnando di meno, e spendendosi in birra e cattivo vino ciò che avrebbero dovuto mandare alla famiglia. Quando questo accadeva, cercavano di placare il senso di colpa e il disprezzo per se stessi bevendo ancora di più. Alcuni di loro con il tempo erano diventati barboni. Lui aveva solennemente giurato a sé stesso che non si sarebbe mai degradato in questo modo.
Il sabato sera, quando il clima festoso del fine settimana contagiava anche i venditori abusivi di Viale Marconi, si concedeva una singola bottiglia di birra Peroni, ma se gliene offrivano un’altra la rifiutava con decisione alzando il palmo della mano, faceva un gran sorriso di ringraziamento e si accendeva una sigaretta. Il resto della settimana rispettava rigorosamente il precetto della sua religione ed evitava ogni contatto con le bevande alcooliche.
Per lui la religione era un fatto importante: tutte le mattine all’alba, e poi a metà giornata (senza curarsi delle occhiate di scherno dei passanti), e poi di nuovo al tramonto, si prostrava di fronte ad Allah e con cuore umile e sincero gli chiedeva di cambiare la sua situazione. Ma sapeva che Allah non lo avrebbe aiutato se fosse stato pigro. Quando era bambino suo nonno glielo ripeteva continuamente: “invocare Allah non ti dispensa dal coltivare il tuo orto”. E così, manteneva la mente attenta a ogni discorso e a ogni incontro, cercando di carpire elementi e informazioni per ottenere una via d’uscita. La mattina e la notte, nei lunghi viaggi che faceva negli autobus della grande città, meditava in modo pervicace su nuovi modi per guadagnare denaro.

La soluzione arrivò, inaspettatamente, una domenica mattina. Un amico con la macchina gli aveva chiesto di accompagnarlo a vedere l’ennesimo magazzino di merce contraffatta ubicato lungo la Via Pontina. Con l’occasione, si fermarono a Latina in un grande mercatino di Piazza, dove la merceologia prevalente erano gli indumenti usati. In uno dei banchi più grossi, dove si era soffermato a esaminare dei jeans di marca di seconda mano, l’ambulante gli chiese di dov’era. E da lì iniziarono a chiacchierare.
“Quella che vedi esposta sul banco”, gli spiegò Arturo “è la parte migliore di quello che raccolgo. C’è quella che i professionisti del settore chiamano crema, e c’è la prima qualità. Ma in verità mi capita anche tanta seconda e terza qualità che qui in Italia non si riesce a vendere bene. Gli altri ambulanti di questo mercato non hanno questo problema: comprano tutto dai grossisti di Ercolano. Però guadagnano meno. Io per procurarmi i vestiti da solo devo fare un po’ più di sforzo, ma alla fine guadagno di più”.

Per Moussa era complicato capire. Nel suo villaggio i vestiti si usavano fino al deterioramento, e se erano talmente consunti da non poter essere usati venivano tagliati per diventare pezze e stracci da usare nelle faccende della casa. Qui invece circolavano grandi quantità di vestiti già usati. Perché i loro proprietari se ne liberavano?
Con il rischio di sembrare ingenuo, Moussa chiese ad Arturo: “Ma i vestiti da dove vengono? Li compri da persone che hanno qualche problema economico e non se li possono più permettere?”
Arturo rise, e poi gli rispose con tono benevolo: “No, non funziona così. Non so nel tuo paese, ma qui in Italia la gente, anche la gente comune, tutti gli anni compra vestiti nuovi, o li riceve in regalo a Natale e nei compleanni. Gli armadi piano piano si riempiono e le persone non sanno più dove metterli. Non sempre c’è un fratello o un cugino pronto a prenderseli e per questo sono disposti a regalarli, o anche a buttarli”.
“Già” pensò Moussa “qui in Italia hanno tanti soldi ma famiglie molto piccole”.
“Io faccio il porta a porta in alcune zone di Roma” continuò a spiegargli Arturo “ormai sono tanti anni che lo faccio. Batto con il mio furgone sempre gli stessi quartieri, la gente mi lascia i sacchi pieni di vestiti dentro l’androne degli edifici”. Poi fece un sogghigno: “Ad aprirmi sono i portieri, o altrimenti citofono a qualche inquilino. Mi danno i vestiti volentieri perché pensano che io faccia parte della Croce Rossa. Nel volantino che affiggo negli androni indicando giorno e orario del mio passaggio, ho messo un logo quasi uguale a quello della Croce Rossa. Sotto c’è anche scritto CRI. E in effetti, la mia impresa individuale è registrata come Camion Raccolta Indumenti”.

Arturo si accorse che Moussa, invece di apprezzare la sua furbizia, lo stava fissando con uno sguardo scandalizzato. Tentò quindi di giustificarsi: “La mia regola è che tutti i mesi dono qualcosa alla Caritas, a Mani Tese o alla Croce Rossa. Se guadagno bene dono di più, se sto in difficoltà do meno, però qualcosa do sempre”.
A Moussa il discorso non quadrava per nulla. Sicuramente i donatori di vestiti erano convinti che gli indumenti fossero direttamente regalati a persone bisognose. Era una specie di imbroglio. Poi, come un lampo, gli venne in mente la gente del suo villaggio, sempre a piedi nudi, con pantaloni e magliette bucati o rattoppati; comprare vestiti nuovi era proibitivo, e compravano solo, di tanto in tanto, vestiti usati da un ambulante nel mercato di Sagata, lo stesso mercato dove andavano a vendere i polli, le uova e le verdure. Per acquistare uno solo di questi vestiti, anche se pieno di difetti e scuciture, la gente del villaggio doveva pagare l’equivalente di quanto guadagnato in uno o più giorni di mercato. L’ambulante che li vendeva non sembrava ricco, ma dava tutta l’impressione di fare una vita dignitosa. Aveva anche una macchina. Ripensò alle parole di Arturo sulla difficoltà di posizionare la seconda e la terza scelta e intuì che si trovava di fronte a un’imperdibile chance.

Con sollievo di Arturo, che si stava chiedendo se avesse parlato troppo, Moussa non volle approfondire il discorso della solidarietà ma gli chiese a bruciapelo:
“Se ti compro io la seconda e terza qualità che prezzo mi fai?”.
“Beh”, rispose Arturo, “dipende da quanto mi compri, e se puoi farmi un prezzo superiore a quello che mi fanno i grossisti di Ercolano…”.
Stette qualche secondo in silenzio e poi aggiunse: “Detto tra noi, mio caro Moussa. Non è molto difficile superare il prezzo degli ercolanesi: mi danno così poco che quasi non mi conviene portargli la roba! Gliela vendo per due ragioni: la prima è che ho un magazzino di mia proprietà, dove posso stoccare i vestiti senza costi vivi. La seconda è che di tanto in tanto vado ad Ercolano per comprare pezzi scelti di roba americana e tedesca; riempio il furgone della seconda e terza scelta che ho in magazzino, mi ci ripago il viaggio, e torno con quello che ho comprato”.

Parlarono più nel dettagli dei prezzi e Moussa, che dopo anni passati a rivendere roba contraffatta aveva la mente allenata con i calcoli, capì che c’erano tutte le condizioni per acquistare gli indumenti da Arturo e mandarli in Senegal; saltando ogni intermediario avrebbe avuto margini di guadagno per lui e, probabilmente, avrebbe potuto fare buoni prezzi ai commercianti senegalesi.
Il giorno dopo entrò in una cabina telefonica per chiamate internazionali gestita da un bengalese e chiamò suo cugino Abdou di Dakar, che aveva la fama di essere molto abile con gli affari. Di tanto in tanto andava al villaggio per vendere radioline, snack, caramelle e sigarette. Gli espose la questione, e il cugino gli disse che se lui avesse mandato un container lui lo avrebbe comprato volentieri, e che chiedendo un prestito a un amico avrebbe anche potuto anticipargli il denaro. A Dakar un suo amico aveva un piccolo magazzino proprio nella strada dei grossisti di merce di importazione, e sicuramente avrebbe potuto mettersi d’accordo per usare una parte del suo spazio. Avrebbe poi fatto il giro degli ambulanti dei piccoli mercati delle zone di Sagata e Doyene, vicino al loro villaggio di origine, e avrebbe fatto loro proposte vantaggiose se fossero venuti fino a Dakar a prendersi i vestiti. Sicuramente sarebbero stati contenti di saltare gli intermediari di Kebemer, la città più grande della loro zona, e se avesse fatto prezzi migliori di quelli dei grandi grossisti a Dakar sarebbero sicuramente stati disposti a pagare il costo extra di trasporto.
Ma in realtà, già al secondo container importato, Abdou si rese conto che non aveva bisogno di fare prezzi più bassi degli altri grossisti. Per vincere la concorrenza era sufficiente che stesse molto attento alle esigenze dei suoi clienti. L’importante era dare loro esattamente il prodotto desiderato, e darlo al prezzo giusto. C’erano venditori interessati soprattutto ad abiti femminili, e altri specializzati in abiti infantili. Ce n’erano altri che compravano volentieri a basso prezzo balle piene di vestiti rotti o scuciti; erano attrezzati con macchine da cucire e riparandoli gli davano un valore aggiunto e incrementavano il loro guadagno.

All’inizio gli costò fatica capire il prezzo più giusto per ogni pezzo e ogni categoria, ma dopo un po’ il lavoro divenne automatico. Se un cliente si lamentava, passava tempo ad ascoltarlo per capire esattamente di cosa avesse bisogno e si organizzava per soddisfarlo; in qualche caso, accettava anche di sostituire balle che contenevano troppi vestiti di categoria sbagliata rispetto a quella attesa, e ne offriva altre di qualità più congrua. Dopo 6 mesi aveva creato un piccolo giro di clienti, quasi tutti molto fedeli e costanti negli acquisti. Passato un anno, si rese conto che avrebbe potuto aumentare i volumi di vendita ma decise di fermarsi a due container al mese: per aumentare il volume avrebbe dovuto assumere un impiegato e la cosa era fuori questione: era ben cosciente che il business funzionava perché lui aveva il rapporto diretto con i clienti, perché ci parlava, perché selezionava le balle in modo estremamente accurato.
Moussa però sapeva che Arturo gli avrebbe potuto fornire almeno il triplo della merce, e ardeva dal desiderio di lasciare la rivendita di merce contraffatta per dedicarsi completamente al suo nuovo affare. Pensò a sua sorella Sokhna, che era molto sveglia e piena di iniziativa, e consigliò a Abdou di associarsi con lei. Sokhna avrebbe potuto portare direttamente le balle nel loro villaggio e nei villaggi di Mayaye, Kerr e Nasseurde; avrebbe potuto condividere le spese di acquisto con Abdou e poi alla classificazione della sua merce avrebbe pensato lei. Abdou acconsentì. Moussa regalò a Sokhna il primo container, e dopo poco tempo lei fu in grado di comprargliene un secondo. Dopo qualche mese Moussa fu in grado di lasciare la vendita di merce contraffatta per dedicarsi interamente al nuovo business.
Un giorno conobbe Yull, un albanese che aveva accordi con i volontari di un gruppo di parrocchie delle Marche, che gestivano un magazzino dove stoccavano indumenti usati regalati dai fedeli. I volontari non riuscivano a distribuire tutti gli indumenti agli indigenti locali, e quindi li vendevano ben volentieri a Yull. Il ricavato lo usavano per finanziare mense per poveri e altre azioni di solidarietà. Yull vendeva gli abiti al fratello Ilir, che li riceveva al porto di Tirana. Ma Ilir comprava quantità ridotte, molto meno di quello che Yull avrebbe potuto vendergli. E quindi Yull propose a Moussa, in cambio di una commissione molto onesta, di acquistare gli indumenti che lui non sapeva come piazzare. Moussa si organizzò con Sokhna per approfittare dell’opportunità. Le finanziò l’apertura di una bottega di 150 metri quadrati a Kebemer, la capitale del distretto e in pochi mesi riuscirono ad aumentare notevolmente il volume di lavoro. Sokhna era abile e dedita al lavoro, e in poco tempo, divenne uno dei punti di riferimento del settore nel distretto. Il fratello minore Kitou iniziò ad aiutarla e ad apprendere il mestiere. Le tasse non erano un problema: i volumi di importazione, seppur aumentati, continuavano ad essere molto minori rispetto all’attività dei grossisti formali. Facevano entrare un container per volta e così non richiamavano l’attenzione dei controlli. Dichiarando valori molto inferiori rispetto a quelli reali, arrivavano a pagare un quinto dei dazi e degli oneri doganali dovuti. L’attività andava a gonfie vele, e Moussa era raggiante e pieno di genuina gratitudine verso Allah. Ormai, tolti tutti i costi, guadagnava circa 2mila euro al mese: con un po’ più della metà ci viveva, e con il resto finanziava la famiglia al villaggio.
Quest’ultima riceveva aiuto anche dalla sorella Sokhna. Fame e angoscia di sopravvivenza ormai erano un ricordo. Due nipoti di Moussa poterono iscriversi alla scuola superiore, e sua madre coprì una parte del suo cortile di casa per aprire una piccola rivendita di bibite. Iniziò anche a prestare piccolissime quantità di denaro alle altre donne del villaggio per aiutarle nelle loro attività. I suoi tassi di interesse erano molto bassi e trattava umanamente le amiche e le parenti che si trovavano in difficoltà con le restituzioni. Ma era raro che non riavesse indietro il suo denaro: le donne del villaggio la apprezzavano, nessuna voleva tradire la sua fiducia.

Nel 2005 Moussa riuscì finalmente a regolarizzare la sua posizione. Un amico romeno aveva una piccola impresa di muratura e, dato che tutti i suoi impiegati erano in nero, doveva giustificare ogni tanto le sue uscite per non pagare troppe tasse sull’utile; e così, accettò di buon grado la proposta di Moussa: lui lo avrebbe impiegato con un contratto per permettergli di prendere il permesso di soggiorno, e Moussa gli avrebbe pagato i contributi.
Non appena ebbe ottenuto il permesso di soggiorno, Moussa prese immediatamente un aereo per rivedere i suoi familiari. Senza documenti in regola non poteva uscire dall’Italia, ed erano ormai quindici anni che non li vedeva. A riceverlo all’aereoporto di Dakar trovò Abdou con suo padre, sua madre e sua sorella Sokhna. Mentre sua madre piangeva e lo accarezzava, suo padre lo guardò negli occhi, sorrise e gli disse: “Quindici anni ci hai messo a tornare. So che non è stato facile. Ma solo chi va lentamente riesce ad acchiappare la scimmia nel bosco”.
Si accalcarono nella vecchia e scassata Citroen di Abdou e si avviarono a N’Doukumane Gueye. Realizzò che si trovava di nuovo a casa solo quando la macchina uscì fuori dalla strada asfaltata all’altezza di Sagata e si addentrò nel ripiano brullo e punteggiato di alberi e cespugli della sua infanzia ed adolescenza… nella terra rossa. Sentiva i suoi genitori parlare, e la loro voce era familiare per averla udita migliaia di volte al telefono. Ma la loro faccia era corrugata, i loro capelli bianchi. Ebbe l’impressione di viaggiare nella propria memoria: però non tutto era uguale a prima, e provava un acuto dolore al rendersi conto che il mondo della sua gioventù era in parte scomparso, e che non sarebbe mai più tornato.
Quando arrivò al villaggio non lo riconobbe. Le case erano quasi tutte nuove, la strada era più larga, il pozzo dove andava a prendere l’acqua da bambino e adolescente non c’era più. E, soprattutto, non riusciva a riconoscere le persone. Sicuramente la maggior parte di loro erano amici o familiari, ma il tempo doveva aver modificato i loro volti. I bambini erano ragazzi, i ragazzi erano adulti, gli adulti erano vecchi. Però tutti riconobbero lui. Ricevette decine e decine di abbracci. Avevano ammazzato due pecore e da lì a poco sarebbe cominciata una grande festa.
Dopo il tramonto iniziò il suono dei tamburi e i ragazzi e le ragazze si misero a ballare, facendo roteare con grande rapidità le lunghe braccia e le lunghe gambe. E allora la gioia interruppe improvvisamente il labirinto di pensieri che aveva catturato la sua mente nei 15 anni di lavoro in Italia. Moussa si lasciò guidare dalla danza, e si buttò nella mischia per ballare come i suoi avi wolof, con la sua gente. Il suo ballo era impetuoso e la sua tecnica era perfetta: era come se non se ne fosse mai andato dal villaggio e, invece di angosciarsi in un freddo paese lontano, avesse ballato tutte le sere nel materno calore della sua terra.
Aveva compiuto la sua missione. La disperazione e l’angoscia appa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il salto della pulce. La rivoluzione dell’usato.
  3. Indice
  4. Riscopriamo il rapporto etico tra noi e le cose
  5. Una “soluzione” geniale. L’inizio della rivoluzione
  6. Formiche e leoni. Le strade di Moussa e Dominique
  7. Da chi dipende? Franchising, questo sconosciuto
  8. La scuola itinerante. Da persona a persona
  9. Mercato vs negozio Rom, Roma, Porta Portese
  10. La bulimia dell’usa-e-getta. Dall’hobby al “conto terzi”
  11. Nell’Occhio del Riciclone. La lobby del riutilizzo
  12. I caschi blu dell’usato La Rete ONU
  13. I Rigattieri del futuro. L’usato in evoluzione
  14. Gli autori