Lo straniero indesiderato è il frutto di un innamoramento, quello dell’autore per una storia singolare, che ha per protagonisti una strana coppia, costituita da un maturo quarantenne di origine tedesca e da un ragazzo quindicenne cresciuto nel popolare quartiere milanese del Giambellino, quello immortalato da Giorgio Gaber. Due biografie assai diverse, che trovano il loro punto di intersezione nell’estate del ’44, quando il ragazzo, Lamberto Caenazzo, con alcuni compagni, sale in cerca dei partigiani, sopra Lecco, sul versante occidentale della Grigna settentrionale. Hanno bisogno, contemporaneamente, di un rifugio e di nuove più affascinanti occasioni di combattimento, dopo essere stati protagonisti di arrischiate distribuzioni di volantini e di stampa clandestina in città. Qui Lamberto e i suoi amici si imbattono nel comandante Luca, “un tipo bassino e magrolino, con un paio di occhiali dalle lenti spesse come due fondi di bottiglia”, che parla con marcato accento tedesco, “una persona strana ma anche piacevole, con un certo humor”. Si tratta in realtà di Carlo Travaglini, italiano di madre tedesca nato e cresciuto in Germania, lo “straniero indesiderato”, appunto, “ricercato da Gestapo e Feldgendarmerie per averne combinate di tutti i colori e per averli messi nel sacco per mesi”.
Dunque due biografie partigiane assai eccentriche, una connotata da caratteristiche di assoluta unicità, l’altra, quella del quindicenne Lamberto, assai modesta, quanto alle imprese, ma entrambe preziose, perché permettono all’autore di ragionare sulle “infinite vie dell’antifascismo”, sull’intreccio di circostanze e motivazioni che conducono per vie diversissime il ragazzo del Giambellino e l’intellettuale tedesco a condividere la scelta di mettere in gioco la vita. L’“innamoramento” per questa storia ha le sue prime motivazioni, mi pare, nell’opportunità che i documenti e le testimonianze dei protagonisti offrono per tornare ad affrontare la questione della “scelta”, osservandone genesi e sviluppi dentro il concreto farsi di due biografie.
I percorsi che portano Lamberto, e con lui un gruppetto di adolescenti del Giambellino, a rischiare la vita, con l’incoscienza dell’età, e senza nessuno che li guidi e li metta in guardia, mettono in luce quanto di esistenziale e di pre-politico vi sia alla radice delle loro scelte. Si tratta di quattordicenni e quindicenni completamente sprovvisti di cultura politica, e di tradizioni famigliari, che iniziano autonomamente a sperimentare il gusto di essere fuori dal coro, per una reazione istintiva alla pervasiva invadenza della pedagogia fascista. Partono da ingenue e provocatorie sfide, fino a farsi più direttamente coinvolgere nelle maglie, assai larghe e anche permeabilissime, delle prime avventurose forme di organizzazione della propaganda antifascista. E l’urgenza di fare qualcosa, di “essere contro”, scaturisce, per vie disparate, da esperienze che a volte affondano nell’infanzia, da episodi che ne colpiscono indelebilmente la sensibilità. Nel caso di Lamberto, “suore e fascismo” divengono tutt’uno, dopo un infelicissimo soggiorno in una colonia climatica, dove irreversibilmente si cementa, in lui ragazzino, la convinzione che l’autoritarismo delle suore, il clima da caserma, le punizioni corporali e gli inni al duce discendano dalla medesima volontà di sopprimere ogni libertà individuale, di svuotare e annichilire ogni pulsione all’autonomia individuale. Per altri coetanei, che gli saranno al fianco in questa maturazione verso una scelta resistente, magari le esperienze decisive sono altre, ma alla radice, per tutti, vi è il bisogno di affermare una propria sfera di libertà, un astio verso l’arroganza, la prepotenza, la retorica che sfacciatamente nega la realtà. “Ci consideravamo comunisti perché eravamo contro. Non eravamo contro perché eravamo comunisti”. Il Partito comunista, osservato attraverso le loro peripezie, si disvela decisamente meno strutturato e meno radicato di quanto a posteriori si è ritenuto e tramandato; per loro, in definitiva, “la politica era le cose che facevamo”. Agli esordi della Resistenza il Partito comunista è più un simbolo e una suggestione fascinosa che un partito realmente radicato, i suoi contatti, nei quartieri popolari e persino nelle fabbriche, sono assai labili, ma la sua immagine misteriosa è ammantata del fascino di un manipolo di irriducibili che “come l’araba fenice è continuamente risorto a minacciare il sistema”. Per questi ragazzi il comunismo non è ancora un partito, un preciso programma, un’ideologia; certo, è un nome che incarna e riassume ciò che il fascismo odia di più. Per loro, come per Carlo Travaglini, il comandante Luca, le ragioni di una scelta resistente non nascono da una cultura politica, dall’appartenenza ad un partito, né da un’ideologia strutturata, ma da qualcosa di più intimo, da ragioni che possono essere dipanate solamente fino ad un certo punto, e solamente ingaggiando un “corpo a corpo”, inseguendo i protagonisti anche a ritroso, nel loro processo di formazione, nel complesso costituirsi di un codice morale al quale resteranno poi fedeli per tutta la vita. In entrambi i casi, le future scelte rispondono, pare, soprattutto a una rivendicazione, costi quel che costi, di un’autonomia personale, di una indisponibilità ad obbedire, a piegare la testa; l’adesione ad un partito sarà sempre per loro un’occasione per passare all’azione, più che un investimento di fede.
Luigi Borgomaneri segue passo passo queste biografie per carpirne il segreto, pur consapevole che una zona ineffabile, dove si celano le motivazioni più profonde, resiste a qualunque spiegazione deterministica: “Non potevo non farlo”, e per Carlo Travaglini non c’è altro da aggiungere, per spiegare una scelta antinazista e antifascista frutto di un proprio e personalissimo codice morale, che può essere assimilato forse a quel “muto bisogno di decenza” di cui ha parlato Primo Levi in Se non ora quando. Da sempre il futuro comandante Luca pare aver dichiarato una guerra privata ai nazisti. I primi guai, e tanto seri da costargli un processo e poi l’espulsione dal Terzo Reich, Travaglini se li va proprio a cercare in prima persona, come continuerà poi a fare anche nella Resistenza in Italia: nella Germania del 1935 inserisce in un suo romanzo una frase che è vetriolo per la politica nazista: “Un povero onesto ebreo vale esattamente tanto quanto un povero onesto cristiano”. Lo fa in piena consapevolezza delle conseguenze, in obbedienza a “un credo civile, a un rigore morale, apartitico più che apolitico”. E’ un eroe? Certo non del tipo classico, non ne ha il phisique du rôle; soprattutto,la sua è una rivolta individuale e personale, e come tale non spendibile politicamente. Ciò spiega perché, pur avendo un curriculum partigiano di tutto rispetto, il comandante Carlo Travaglini sia rimasto sostanzialmente ignorato, tenuto ben ai margini del pantheon resistenziale. E questa è un secondo tema, che percorre e sottende, come un basso continuo, tutta la ricerca di Borgomaneri, che più volte sottolinea e rivendica la necessità di sottrarre la storia della resistenza a censure ed enfatizzazioni, e “alle icone delle versioni ufficiali, declinate - chi più chi meno - secondo interessi di parte e non di rado a scapito di altri combattenti, soprattutto se senza appartenenza partitica nel dopoguerra”. Carlo Travaglini è appunto uno di questi combattenti, le cui imprese sono rimaste nel cono d’ombra dei “senza partito”. Ripercorrerne le tappe consente all’autore di apportare importanti novità alla storia della lotta armata a Milano, vicenda di cui, dai lontani anni Ottanta, egli è certamente il maggior storico. La ricostruzione di un attentato di cui finora non si aveva alcuna notizia, portato a termine il 14 dicembre 1943 da Travaglini e da altri tre ardimentosi, collegati o direttamente operanti nel primo gappismo milanese, offre infatti a Borgomaneri la possibilità di condurre un vero e proprio assalto all’arma bianca alla “consolidata storiografia sui Gap”. Di questo attentato, suggerisce Borgomaneri, non si è saputo nulla perché avviene al di fuori di ogni controllo, e secondo dinamiche talmente diverse dall’immagine rigidamente centralizzata che il Partito ha tramandato del funzionamento dei Gap, da essere incompatibile con tutta una consolidata narrazione, che ha espunto volontarismo, improvvisazione, spontaneismo. Da sole, aggiunge, queste componenti non sarebbero certo bastate; ma senza di esse, la resistenza armata non sarebbe stata possibile. Le ragioni di una mitizzazione, pienamente comprensibili nel corso della lotta, hanno poi finito per cristallizzarsi in un immaginario collettivo che va drasticamente ridisegnato. Grazie ai Gap, l’immagine di sé che il Partito comunista offre, durante la Resistenza, ma poi, irreversibilmente, anche in seguito, è quella di un partito monolitico, impermeabile ad ogni opportunismo, e anche ad ogni infiltrazione: il gappista è un comunista votato al sacrificio, e né la tortura né la più totale clandestinità ne possono intaccare la ferrea determinazione. Cedimenti alle sevizie, deviazioni, debolezze individuali o di gruppo, carenze e fragilità organizzative, non possono trovare spazio in una narrazione finalizzata all’esaltazione del gappismo come la forma più alta, più pura, più difficile e quindi più eroica sia della militanza comunista che della guerra partigiana. Come raccontare difficoltà, perplessità, umane fragilità, senza incrinare un pantheon, una galleria di icone sovrumanamente eroiche, e un’immagine del partito tetragono e senza debolezze? Si tratta ancora, a settant’anni dai fatti, di misurarsi con immagini e narrazioni mitiche, popolate di gesta eroiche seguite da morti esemplari, come quella di Dante Di Nanni, (recentemente rivisitata in modo criticamente impeccabile da Nicola Adduci) e di combattenti dalle doti militari e morali straordinarie, il cui modello di riferimento è costituito da Giovanni Pesce. Già nei precedenti lavori di Borgomaneri non mancavano cenni critici alle versioni ufficiali della vicenda gappista, ma è nei capitoli centrali dello Straniero indesiderato che l’autore finalmente ingaggia un serrato confronto con un immagine del gappismo sostanzialmente scolpita, una volta per tutte, dalla prosa di Giovanni Pesce, e del suo fortunatissimo Senza tregua (1967). A partire da un archetipo incarnato dal mitico Pesce-Visone, la narrazione canonica del gappismo ha comportato “l’appiattimento delle diversità”, ha censurato “le improvvisazioni, le forzature volontaristiche e le scollature verificatesi in alcuni casi tra combattenti e dirigenza politica”, l’esistenza di più “gappismi”, appiattiti su un unico modello derivante direttamente dalla tradizione comunista dei Franc-tireurs et partisans. Soprattutto, “ha impedito di cogliere la dimensione umana delle debolezze e degli errori dei suoi protagonisti, sia pure valorosi, molti dei quali, non dimentichiamolo, poco più che ragazzi”. Recuperare la “storia coraggiosa e disperata dei ragazzi e degli uomini del primo gappismo milanese” è la rilevante posta storiografica, e prima ancora etica, della appassionata ricerca di Luigi Borgomaneri. Se è vero, come anch’io credo, che sia urgente sottrarre drammatiche ed avvincenti scelte di lotta alla “oleografia a tutto tondo della madre di tutti i revisionismi-quella delle ricostruzioni a posteriori di partito e ufficiali”, allora questo libro costituisce un passaggio innovativo e coraggioso in questa direzione. Che poi continua a essere quella via maestra tracciata tanti anni fa da Italo Calvino, quando invitava a “lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza, e nello stesso tempo ai sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata” (Italo Calvino, prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno).