John Ruskin: estetica ed etica letteraria
John Ruskin (Londra, 1819 - Coniston, 1900), scrittore e critico d’arte, dedicò la sua vita a una fervida opposizione al materialismo e all’utilitarismo della civiltà industriale. Di origini scozzesi, la sua educazione fu improntata ai più rigidi principi del puritanesimo e all’amore per l’arte, la letteratura, i viaggi. Studiò dapprima al King’s College di Londra e poi, dal 1836, a Oxford, dove entrò al Christ Church College.
Nei primi lavori, Ruskin si concentrò sulla storia dell’arte e sulla natura della creazione artistica. Con Pittori moderni (Modern Painters, 1843-60), opera in sei volumi, iniziata come difesa ed esaltazione del paesaggista inglese William Turner, propose un vero e proprio trattato estetico sull’arte della pittura. In Le sette lampade dell’architettura (The Seven Lamps of Architecture, 1849), illustrò i principi fondamentali dell’architettura, magnificando lo stile gotico e cercando di cogliere i rapporti tra arte e morale. In Le pietre di Venezia(The Stones of Venice, 1851-53), in tre volumi, celebrò le origini e il significato del gotico riconducendolo alle virtù morali della società medievale. Nel saggio Il preraffaellismo(The Pre-Raphaelitism, 1851) si fece paladino del movimento preraffaellita rinsaldando la sua visione elevata dell’arte prima di Raffaello e la sua critica al Rinascimento come età di declino.
A partire dal 1860 circa, passando gradualmente dagli studi sull’arte a riflessioni sulla realtà socio-economica del suo tempo, Ruskin mosse critiche aspre e sempre più esplicite alla società industriale, accusata di degradare la persona umana e di rendere gli uomini simili a macchine, impedendo ogni iniziativa individuale. Elaborò quindi teorie economico-sociali esposte in scritti quali Fino a quest’ultimo (Unto This Last, 1860-62), Munera pulveris (1862-72), La corona di olivo selvatico (The Crown of the Wild Olive, 1866), Fors clavigera (1871-84).
La lotta contro il dominio delle macchine per l’autore era anche una lotta contro il brutto condotta in nome dei valori morali di bellezza e umanità. Ruskin fu tra i primi a denunciare il deterioramento del paesaggio inglese seguito alla rivoluzione industriale e l’orrore per le condizioni disumane in cui lavoravano uomini, donne e bambini. Nominato Professore di Belle Arti ad Oxford per il decennio 1869-79 (con rinnovo dell’incarico nel 1883), egli si affermò pertanto come autorità nel campo dell’estetica lasciando insegnamenti carichi di significato nei territori dell’etica.
Nell’ultimo periodo di vita, Ruskin soffrì di insania mentale; prima di morire, durante sporadici momenti di lucidità, riuscì a comporre l’autobiografia Praeterita (1885-1889). L’opera andava ad aggiungersi ad un’imponente mole di scritti, pubblicati in edizione completa nei 39 volumi di The Works of John Ruskin (1903-1911), a cura di Edward Tyas Cook e Alexander Wedderburn.
Negli anni Sessanta, riferendosi alla monumentale edizione Cook-Weddernburn (la cosiddetta Library Edition), lo storico dell’arte Kenneth Clark la definì una pietra tombale posta sull’opera di Ruskin. Oggi, provando a sollevare appena quella pietra che schiude un universo di ricca scrittura, dove la lingua inglese avanza flessuosa tra gli incisi, i dettagli descrittivi, le citazioni, riportiamo alla luce tre scritti sulla letteratura: Fiabe (Fairy-Stories, 1868 – incluso nel volume 19 della Library Edition, a cura di Edward Tyas Cook e Alexander Wedderburn), Mondo di fiaba (Fairy Land, 1884, incluso nel volume 33) e l’articolato Letteratura. Bene e male (Fiction. Fair and Foul, 1880, incluso nel volume 34). Offrendoli in traduzione ai lettori italiani ci proponiamo di far conoscere le questioni affrontate da Ruskin al loro interno e di indicarle come punti chiave di una riflessione letteraria che solo l’endiadi “estetica ed etica” può, forse, rendere al meglio. A seguire, presentando gli scritti tradotti, ripercorriamo brevemente tali punti.
Fiabe: sulla verità del fiabesco
Fiabe (Fairy stories) è la prefazione scritta da John Ruskin nel 1868 a German Popular Stories, una raccolta di fiabe dei Grimm tradotte in inglese da Edgar Taylor e illustrate da George Cruikshank. Il volume fu pubblicato a Londra dall’editore John Camden Hotten, la cui attività editoriale, dopo la sua morte, sarebbe diventata la casa editrice Chatto & Windus. La raccolta si presentava come una riedizione di German Popular Stories pubblicato da Baldwyn nel 1823, prima traduzione inglese (realizzata, appunto, da Taylor) delle fiabe dei Grimm, già con apparato di immagini ad opera del noto illustratore Cruikshank.
Nella sua prefazione, Ruskin assume da subito i toni dell’elogio aperto nei confronti delle fiabe tradizionali, a lui care fin dall’infanzia e alle quali contrappone la nuova letteratura per bambini. In quest’ultima, l’autore riscontra raffinatezza di ragionamento, modi satirici e intenti palesemente istruttivi che contrastano con la forza morale tratta, nel caso delle fiabe dei Grimm, dalla loro pura bellezza, ossia dal loro "merito letterario“. Quindi, additando l’ipocrisia di certa narrativa ottocentesca per l’infanzia, la prefazione diviene un’appassionata analisi di quella che potremmo chiamare la “verità del fiabesco”.
Secondo Ruskin, infatti, sulla letteratura a lui contemporanea pesa l’ombra della preoccupazione precettistica in nome della quale i soggetti di pura invenzione vengono rifiutati e il divertimento della lettura viene subordinato al saggio ammaestramento dei bambini. Tale preoccupazione si determina all’interno di una società immorale o amorale, ormai incapace di dare il buon esempio con l’azione e convinta di poterlo imporre con le acute parole di qualche racconto. Le fiabe tradizionali, invece, aliene da dichiarati propositi d’istruzione, ricorrendo a “chiari inganni” ed “errori innocenti”, si rivelano dotate di un profondo valore educativo, in grado di nutrire veramente il cuore e le menti infantili. La sincerità d’intenti, l’autenticità storica e la semplicità artistica che si distinguono nelle fiabe disegnano, perciò, i contorni della “verità del fiabesco”.
Ruskin osserva, innanzitutto, che le fiabe tradizionali raccontano perlopiù vicende “apparentemente assurde e bizzarre” assurde e bizzarre, le quali non nascondono il loro carattere di finzioni meravigliose, sono dunque sincere e volte a preservare “l’originaria purezza della virtù spontanea dei bambini”, senza smaliziarli anzitempo. Esse forniscono “insegnamenti insostituibili e dalla forza ineguagliabile, in grado di animare il suo [del bambino] mondo materiale di vita inesauribile, fortificarlo contro il freddo glaciale dell’egoismo della scienza e prepararlo sommessamente” ad affrontare i casi della vita; soddisfano perciò elevati intenti morali, senza cadere nelle imposizioni del moralismo, bensì lasciando che l’“inutilità” dei loro soggetti immaginari sia “utile” alla sana formazione dei piccoli.
Ruskin, inoltre, insiste sull’autenticità storica delle fiabe tradizionali, le quali sorgono “dallo spirito di un popolo in speciali circostanze e non senza significato” traendone un valore che “con il passare del tempo, […] si rigenera attraverso i timori autentici o la fantasia delle generazioni successive; prende nuovo colore dalle loro maniere di vita e nuova forma dai loro temperamenti morali mutati”. Con considerazioni quasi da scuola storica, l’autore suggerisce come le fiabe, che pure sembrano non aver alcun rapporto con la realtà e con la storia, ne sono invece una rielaborazione spirituale, mantenuta viva attraverso il continuo rinnovamento della tradizione.
Prova efficace dell’autenticità storica delle fiabe tradizionali è data forse dalla fiaba che, sul modello dei Grimm, Ruskin stesso scrisse nel 1841: Il re del fiume d’oro (The King of the Golden River). Essa racconta le vicende dei tre fratelli Hans, Schwartz e Gluck: i primi due, malvagi ed egoisti, a causa del loro avido sfruttamento della Valle del Tesoro sono puniti prima con l’infertilità della valle, poi con la loro trasformazione in pietre; il terzo fratello, generoso e altruista, grazie alla sua bontà di sentimenti è invece premiato dal ritorno fertile della valle e dal ritrovamento della ricchezza perduta. Difficile non cogliere nella fiaba ruskiniana una denuncia dell’avido sfruttamento industriale dell’Inghilterra nell’Ottocento e della desolazione umana e naturale di un mondo moderno dimentico dei valori della solidarietà e del rispetto.
Ruskin, infine, si sofferma sulla semplicità letteraria delle fiabe, nel cui linguaggio rileva imperfezioni e irregolarità dovute agli umili contesti ai quali è legata la migliore tradizione: campagne, boschi, piccole città. “D’altra parte, un tono rozzo e più o meno illetterato è sempre presente nelle forme autentiche della letteratura fiabesca, che è una tradizione minore. Infatti, tutte le fiabe più belle devono la loro nascita e la loro forza a condizioni sociali di ristrettezza”, pertanto è inevitabile che tratteggino le loro figure con un linguaggio “necessariamente limitato”. Quindi – aggiunge l’autore – “l’arte si limita a riprenderle [le figure delle fiabe] nello stile grottesco, irregolare e rozzo” istituendo così una sorta di parallelo stilistico tra letteratura e arte, nella fattispecie tra fiabesco e grottesco. Ruskin non è nuovo a questi paralleli: già nel terzo volume di Pittori Moderni, per definire proprio il “grottesco”, si richiama all’allegoria di Spenser e mostra come grottesco, allegorico e – possiamo ora aggiungere – fiabesco siano stili in cui si concentrano verità spirituali con una carica visiva che si imprime nella mente del lettore o spettatore.