Per intendere adeguatamente certi caratteri dell’epistemologia di Giulio Preti riteniamo sia necessario riferirla ad un duplice sfondo problematico. Da un lato ci pare eccessivamente restrittivo assumere come punto di riferimento internazionale il neopositivismo, in quanto esso è un oggetto storiografico troppo vasto per certi aspetti e troppo limitato per altri, bensì assumere come punto di riferimento la cosiddetta «filosofia scientifica» la quale – se presenta indubbie intersezioni col positivismo – tuttavia non è totalmente riducibile ad esso; e vedremo tra breve quale sia il significato di questa delimitazione. In secondo luogo è indispensabile vedere in che modo egli si collochi all’interno della filosofia italiana non nel suo complesso, ma in relazione a quelle componenti e a quelle tendenze che dalla filosofia scientifica hanno cercato di trarre ispirazione ponendola in contrapposizione alla tradizione specificatamente italiana di intenderne lo statuto. In questa direzione è particolarmente significativo il confronto con Ludovico Geymonat, che non solo gli fu contemporaneo, ma ebbe anche numerosi momenti di intersezione con lo sviluppo del suo pensiero nel corso dei quali le reciproche posizioni ebbero a chiarirsi per contrasto o anche per reciproca influenza. Infine, limiteremo la nostra analisi anche temporalmente, ponendo come terminus ad quem il 1955 in quanto riteniamo non solo che gli anni 1950-1955 sono stati i più decisivi per la formazione dei caratteri peculiari dell’epistemologia italiana del secondo dopoguerra, ma che è in quel torno di anni che si vengono a definire in modo abbastanza compiuto le rispettive posizioni di Preti e Geymonat sulla filosofia scientifica.
Nel far questo duplice confronto si assume esplicitamente un profilo metafilosofico, che eviti di entrare nel merito delle singole soluzioni che Preti o Geymonat hanno fornito alle maggiori questioni di tipo epistemologico e che li vedono tra gli interpreti più significati in ambito italiano, privilegiando piuttosto l’interrogazione della filosofia su se stessa, sul proprio statuto e sul suo rapporto con le scienze così come si sono venute a costituire dopo la rivoluzione scientifica galileiana; una interrogazione, tuttavia, che assume a proprio perimetro l’ambito problematico della filosofia scientifica.
1. Se ci poniamo sul primo versante – quello internazionale – possiamo facilmente notare come i connotati propri della filosofia scientifica siano spesso o sfumati nella genericità oppure siano identificati di volta in volta, a seconda dell’interprete o dell’indirizzo storiografico, con particolari correnti ed autori che sono ben lungi dal rappresentarne in modo esclusivo le peculiarità. Nel primo caso, si indicano tutte le filosofie e i filosofi che intessono in qualche modo un rapporto privilegiato con la scienza, che la tengono in grande considerazione, che ad essa si ispirano e dei cui risultati tengono conto nelle proprie riflessioni, o che genericamente ne voglio imitare lo stile e il modo di procedere. Nel secondo caso la si sovrappone al positivismo, al neopositivismo, alla filosofia analitica o se ne fanno rappresentanti singoli autori, come Russell, Carnap, Reichenbach, Popper, Hempel, Quine, Dummett, Searle o Bunge, e molti altri ancora, che non sempre con essa hanno una stringente coestensione semantica o una adesione lungo tutto l’iter della propria riflessione.
In effetti la filosofia scientifica – per dirla in maniera assai sintetica – è un progetto sui generis che (per limitarci al Novecento), inteso in senso proprio vede nella scienza il modello per la filosofia, la quale deve porre e risolvere i suoi problemi secondo quegli stessi metodi e criteri, in base alle stesse esigenze di precisione, delle scienze particolari. In tale accezione la filosofia scientifica ha un proprio oggetto, diverso dalla scienza, e quindi è in grado di portare ad una conoscenza distinta da quelle da essa forniteci; tuttavia ciò deve essere effettuato imitando il metodo e le procedure della conoscenza scientifica, ispirandosi al suo ‘stile’ di pensiero. Tuttavia a questa definizione in senso stretto si sono associati altri significati che ne hanno accompagnato la storia e hanno alimentato la discussione su di essa: è stata infatti intesa anche come metascienza, teoria della scienza, che assume come proprio oggetto la scienza, cercando o di comprenderne le strutture logico-sintattiche, riducendosi a «sintassi logica del linguaggio scientifico», come avverrà compiutamente con il Carnap; oppure le si è assegnato il compito di trarre fuori dalla scienza quella filosofia che le è implicita e che è l’unica possibile, in grado di pervenire alla soluzione dei problemi che la tradizionale filosofia aveva lasciato sempre irrisolti. In entrambi questi casi la filosofia viene privata di un proprio oggetto autonomo di indagine per diventare «filosofia di…» (della scienza, della fisica, della biologia ecc.), o nell’accezione logico-metodologica proposta da Carnap, oppure nella versione contenutistica fatta propria da altri autori, come Feibleman. Infine la filosofia scientifica è stata anche intesa come filosofia che ha a proprio fondamento la scienza, i risultati della quale dovrebbe utilizzare o per arrivare a sintesi più generali, non raggiungibili all’interno della scienza a causa della sua frammentazione specialistica; oppure per stimolarne l’ulteriore avanzamento, indicando nuovi orizzonti cognitivi e mettendone in luce i presupposti teoretici spesso impliciti o taciti, grazie a una riflessione meno segnata dai limiti dello specialismo e più libera di spaziare all’interno di scenari teorici inconsueti: filosofia scientifica, dunque, come riflessione filosofica sulla scienza, che si preoccupa di estenderne i risultati al di là del loro ambito specialistico e di favorirne l’ulteriore avanzamento.
Sebbene il movimento della filosofia scientifica abbia le sue radici nei filosofi-scienziati della seconda parte dell’Ottocento, con il loro richiamo al «metodo induttivo» quale strumento procedurale da applicare anche alla ricerca filosofica, essa ha tuttavia la sua più grande fioritura e diffusione con il grande sviluppo della scienza agli inizi del Novecento e in particolare con la rinascita e la straordinaria vitalità della nuova logica che, dopo l’impulso originario fornito da George Boole, ha nei Principia Mathematica di Russell e Whitehead di inizio secolo la sua consacrazione e il suo monumento. Da allora sembra che la filosofia che voglia farsi scienza abbia trovato il metodo suo proprio; come afferma Russell, allo stesso modo in cui la filosofia naturale rinascimentale era potuta diventare fisica sperimentale grazie all’utilizzo del metodo matematico, così la filosofia sarebbe diventata scientifica grazie all’impiego della logica; o, come avrebbe icasticamente sostenuto Schlick, «La filosofia è malata, la sua unica cura è la logica». E Reichenbach riteneva a sua volta che la filosofia, ammalata di spirito di sistema, si stia ora, con l’affermarsi della filosofia scientifica, riprendendo dalla malattia ed è in «convalescenza». È una fiducia smisurata, direi quasi temeraria, nei poteri taumaturgici della logica, la cui importanza per l’intera filosofia – scrive nel 1928 Carnap – è stata avvertita ancora da pochi; ma – continua – «se la filosofia ha l’intenzione di incamminarsi per la via della scienza (in senso rigoroso), non potrà rinunziare a questo strumento energico ed efficace per la precisione dei concetti e per la chiarificazione delle situazioni problematiche».
Eppure, abbiamo detto, non è stato solo questo il modo in cui è stata propriamente intesa la filosofia scientifica: indipendentemente dalla accettazione o meno della logica come strumento terapeutico in grado di rimettere in salute la filosofia, essa aveva vissuto la grande stagione del positivismo europeo nel corso della quale la sua sorte era stata in bilico o tra l’essere pericolosamente risucchiata da una onnivora scienza, o di autolegittimarsi (oppure venire dagli stessi ‘scienziati’ legittimata) come diversa da essa e tuttavia in sua stretta correlazione. E in quest’ultimo caso, poteva condividerne i metodi, accettarne le conclusioni – dalle quali non può prescindere se non correndo il rischio di finire come la colomba kantiana – o, infine, ritenere di starne alla base, anche se in modo il più delle volte tacito ed inconsapevole. È in questa fase che le diverse accezioni prima rilevate si sovrappongono, si intersecano, a volte si distinguono nelle diverse fasi del pensiero di uno stesso autore, altre invece scolorano in una generica attenzione per la scienza.
2. Se ora volgiamo l’attenzione alla specifica situazione italiana, non è difficile constatare come il positivismo, al di là e indipendentemente dalla specifica consistenza teorica delle proprie tesi filosofiche, si sia collocato – il più delle volte in maniera inconsapevole – all’interno di questo generale clima, cercando di declinare anch’esso una filosofia scientifica, che nella figura di Ardigò e nella Rivista di filosofia scientifica (1881-1891) di Morselli hanno avuto i loro esempi più significativi, sino a giungere a quei positivisti che di solito vengono salvati dalla generale reprimenda che ha colpito il positivismo italiano, cioè Vailati, Enriques e Calderoni. In tutti costoro è tuttavia presente – con le caratteristiche e l’acume propri di ciascuna biografia e del background filosofico-scientifico che ne ha retto la riflessione – l’esigenza di un avvicinamento tra pensiero scientifico e pensiero filosofico e non solo nel senso semplici...