«Di qua» e «di là da' monti». Sguardi italiani sulla Francia e sui francesi tra XV e XVI secolo
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«Di qua» e «di là da' monti». Sguardi italiani sulla Francia e sui francesi tra XV e XVI secolo

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In una «cultura senza Stato», quella della penisola italiana agli albori dell'Età moderna, la Francia rappresenta un'incombente presenza, giocandovi un ruolo non soltanto politico e militare, ma anche culturale. Quest'opera cerca di ricostruire, attraverso un approccio il più possibile multiforme e multidisciplinare, tale 'entità' dai molteplici significati, indagando le forme, i modi e i tempi della cultura che ne osserva (soggetto osservante) la storia politica, istituzionale, diplomatica (oggetto osservato), inevitabilmente conformandone e contribuendo a determinarne forme, sostanze, aspetti. L'età delle guerre d'Italia quattro-cinquecentesche seziona così più stratigrafie cronografiche, diverse profondità temporali, differenti durate: un cinquantennio dell'evoluzione storico-climatica e storico-ambientale nell'area alpina; un frammento della storia 'presente' del più antico regno della Respublica christiana; il risultato del sedimentarsi sullo sguardo dei contemporanei di topoi classici sui caratteri e peculiarità dei diversi popoli. Igor Melani è Ricercatore in Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze, dove insegna Storia della cultura europea nella prima Età moderna in qualità di Professore aggregato. Si occupa di storia della cultura e delle mentalità in Europa tra Quattrocento e Seicento. Tra le sue pubblicazioni Storici moderni del Novecento (con Leandro Perini e Corrado Vivanti, CISU, 2005), Il tribunale della storia (Olschki, 2006), La luce e le tenebre (Istituto Storico Lucchese, 2011).

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788866550716
Terreni d’incontro. Descrivere un regno
1. Confini e frontiere
Dove iniziava la Francia? La geografia, e non meno il senso comune degli uomini del Cinquecento1 nonché l’esperienza pratica dei viaggiatori italiani avrebbero detto: di là dai monti. Tuttavia, le vicende politiche e militari di un cinquantennio di guerre (le Guerre d’Italia), e prima ancora le incertezze geografiche e politiche di un secolo (il XV) fatto per la corona francese di una politica matrimoniale di annessioni e dei portati della fine di un’altra guerra ad un tempo territoriale e dinastica (la Guerra dei cento anni) che aveva condotto alla cacciata degli inglesi dal continente, avrebbero reso le considerazioni necessarie alla formulazione di una risposta non proprio facilmente determinabili.
Tra questi fattori, ad esempio, si inseriva una certa frammentazione tra la percezione comune, che aveva basi geografiche e culturali, e quella politica, che aveva basi giuridiche, anche a proposito di un altro problema, complementare al primo, quello di dove finiva l’Italia. In questo senso, si può ribadire che erano i monti la vera frontiera. Tornando dalla Francia, nel settembre 1528, l’ambasciatore veneto Andrea Navagero ritrovava che «la Novalese è il primo loco d’Italia». È bene ribadire come egli stesso aveva poco prima affermato come proprio alla «Novalese» finisse (cioè iniziasse, per chi si fosse recato, nella direzione opposta, in Francia) la montagna del Moncenisio, mentre il giorno successivo, di fianco alla registrazione sul taccuino di viaggio della sua partenza da Susa, testa della biforcazione stradale Moncenisio-Monginevro, annotava che «de lì innanzi si comincia a parlar a miglia, alla foggia d’Italia», testimoniando un ulteriore arretramento al di qua dei monti per una frontiera culturale fondamentale al mondo dei trasporti e delle comunicazioni transalpine, quella del mutamento dell’unità di misura della lunghezza percorsa, il cui limite ultimo era, per l’appunto, l’inizio delle strade per la Francia2.
Uno dei luoghi da cui i viaggiatori italiani facevano più sovente iniziare la Francia era senz’altro il Ponte Belvicino. Nel 1528 Andrea Navagero vi costruiva un triplice livello di confine: politico-dinastico (tra i territori del re di Francia e quelli del duca di Savoia), viario (per la maggiore o minore vicinanza dal confine di località poste su cammini differenti), storico-geografico (il tracciato visto come funzione storica della natura geografica della regione, da cui era derivata la decisione di marcare il confine secondo il corso del fiume, «riviera [...] detta le Chi», Le Guiers, un affluente «che va nel Rhodano», passa per Ponte Belvicino, «& è il confino & quel che parte da questo canto il Delphinato dalla Savoia»)3. Egli affermava così che «Ponte Beau visin mezzo è del Re di Francia, dalla parte del fiume verso Francia, l’altro mezzo è del Duca di Savoia, molto più innanzi confina il Duca di Savoia con Franza, perche per uno altro camino, uscendo de Lion a mezzo miglio comincia quel del Duca di Savoia, ilche forsi fanno le volte & camino di questo fiume»4.
A meno di quindici anni di distanza, nel 1542, un altro ambasciatore veneto, Matteo Dandolo, passando per il medesimo luogo, univa in una serie di molteplici considerazioni il ruolo di quel tratto di confine. Anzitutto, metteva in luce il mezzo fisico della divisione, frutto dell’azione dell’uomo («una piccola trinciera»), poi evidenziava il suo significato culturale (linguistico ed etimologico): «così si chiama perché anticamente il re era chiamato da quel duca il Belvicin». Dopodiché, rendeva la sua descrizione più precisa attraverso l’introduzione di differenti elementi che si potrebbero disporre su di un duplice piano di lettura, ad un tempo territoriale e dinastico. Dopo una sintetica introduzione alla località, che «divide la Savoia dalla Francia», Dandolo passava infatti, attraverso quello che appare come il risultato dell’evocazione di un suo passaggio fisico (da viaggiatore) sul luogo, a una più complessiva descrizione dell’assetto dei territori di tutta la zona di confine: «di qua da quel ponte, a man sinistra nell’andare, ha anco sua maestà il Delfinato, ch’è un grande e buon paese, che dà il nome ai primogeniti del re, i quali si chiamano Delfini»5.
La struttura della descrizione di Dandolo proseguiva poi attraverso un ulteriore scarto, che conduce narratore (l’ambasciatore) e lettori/ascoltatori (il Senato veneto) al punto di passaggio ad una descrizione che coniuga le vicende storico-politiche con i loro risultati sul piano geo-politico, militare ed architettonico. Pur senza che venga analizzata la situazione delle frontiere francesi da un punto di vista ‘complessivamente’ politico come avrebbero fatto alcuni suoi successori diplomatici residenti veneziani in Francia (di cui ci occuperemo), nella descrizione di Dandolo, il cui assetto è ancora per certi aspetti molto vicino alla forma narrativa propria del resoconto di viaggio, emergono elementi essenziali per la formulazione ed elaborazione di analisi più complesse: la storicità dei confini (il loro divenire nel tempo, cioè nella storia) e il rapporto tra la loro natura geografica (dato) e quella politico-militare (dato e conseguenza). La formulazione più ambiziosa da questo punto di vista l’ambasciatore la offre nell’esempio relativo alla contea di Bresse («Bres»): «ha poi questa corona di Francia, per averla levata ultimamente al duca di Savoia, la contea di Bres a man dritta, buonissimo e bel paese, per il quale il duca veniva ad’ esser signore sin di mezzo il fiume Rodano: nella qual contea si trova Borgo [Bourg-en-Bresse], buonissima terra che questa maestà ha fatto e va facendo molto forte per esser frontiera da quella parte»6.
Ancora di seguito, il piano su cui Dandolo poggiava la sua analisi del territorio di confine tra regno di Francia e ducato di Savoia prosegue scorrendo su un ulteriore, duplice binario sul quale egli colloca la questione dei territori che il Duca possedeva o aveva posseduto non solo in Savoia ma anche in Piemonte (cioè al di qua dei monti). Su tale duplice binario egli avviava un processo di analisi e di ‘codificazione’ del presente ‘politico’ e militare del confine franco-savoiardo alla luce degli ultimi e più recenti eventi politici, di cui addirittura tentava un’analisi attraverso il rimando ‘intertestuale’ alla corrispondenza che aveva scandito i suoi rapporti di ambasciatore con il Senato durante la missione in Francia, vale a dire in un tempo che (almeno sulla carta) doveva essere immediatamente precedente a quello della relazione. Dandolo osservava dunque i mutamenti politico-dinastici nel passaggio tra le due dominazioni (francese e sabauda) sul territorio di confine, attraverso quel complesso sistema di riferimenti alla sfera politica, militare, e non meno simbolica e rituale che era più proprio del suo compito di funzionario politico: «ha poi [il Re] nel Piemonte quanto l’EE. VV. intesero per le mie da Torino nell’andar di là, dove scrissi che vedevo i francesi fortificare di sorte il paese, che mi pareva avessero in animo di non più restituirlo; e siccome nell’andare non trovai terra nella Savoia che avesse l’arme di Francia, così a questo mio ritorno le ho trovate anco in ogni minimo luogo, nuove e bellissime; il che conferma quanto già scrissi questo giugno alla S. V., che sua maestà aveva detto a Montepulciano [Legato pontificio] che ella aveva unita la Savoia alla corona».
Poco sopra, in apertura del passo, Dandolo aveva offerto la chiave di lettura non solo militare, ma ancora una volta personale (della sua esperienza di viaggiatore diplomatico) di queste circostanze e delle ultime vicende della politica annessionistca della corona francese (un’introduzione che era ad un tempo conclusione e bilancio): «ha poi [il Re] la Savoia quasi tutta, per la quale si viene da quel Ponte Belvicino sin a Torino sempre per il paese suo, senza impedimento alcuno». L’osservazione geografica (ancora una volta diretta, propria cioè del viaggiatore) lo spingeva in questo caso a precise considerazioni politiche: «sono tanti passi così forti, che sua maestà manifestamente ha compreso che se il duca l’avesse voluto difendere, essa avrebbe avuto di gran fatiche ad ottenerlo»7.
Per mezzo di un ulteriore passaggio attraverso il vicolo non impervio ma certo piuttosto angusto della narrazione diretta – questa volta esplicita – della propria esperienza personale di viaggiatore politico, quasi svolgendo un lavoro che oggi diremmo di antropologo o di etnografo, ma che al tempo si sarebbe senza dubbio connotato come il lavoro di uno storico, Dandolo presentava il resoconto di un suo dialogo (una sorta di intervista orale, simile a quelle condotte talora per iscritto da Paolo Giovio)8 con gli abitanti di Chambéry, principale città all’interno del territorio del ducato di Savoia (diremmo, anzi, la capitale, se non fossimo negli ultimi decenni di un’epoca che ancora non prevedeva capitali stanziali): «essa terra di Zamberi per esser tra le montagne che è assai buona terra, & nella qual vi sta un numero de mercatanti, è la principal terra del Ducato di Savoia, & nellaqual il piu del tempo sta il Duca, et la corte»9. Il fulcro del suo interesse non era per così dire ‘psico-sociale’, come si potrebbe incorrere nell’errore di ritenere oggi, ma evidentemente politico, legato, come vedremo di seguito (e come abbiamo già accennato) a formulazioni più complesse di problematiche legate ai confini e al territorio francese, e consistente essenzialmente nell’analisi degli effetti di un mutamento delle linee di confine su uno degli elementi costitutivi («forze») di uno stato (in questo caso il regno di Francia): la popolazione. Gli strumenti con i quali Dandolo si trovava ad affrontare la tematica del senso di appartenenza politica («il cuore») delle popolazioni savoiarde erano il risultato della commistione di elementi diversi, che si rifacevano ad ambiti culturali tra loro differenti, come tendono a dimostrare le spie semantiche e concettuali «cuore costante» (al grado superlativo) e «animo fermo».
Di tali espressioni si noterà, nel caso della prima, il tenore letterario, o per meglio dire poetico e lirico, come dimostrano le sue frequenti occorrenze – per limitarci ai secoli XV e XVI – nell’opera di Luigi Pulci («amor costante»), Lorenzo de’ Medici («spirti miei costanti»), Torquato Tasso («la costante pietà, la fede invitta»)10. Nel secondo caso, invece, si dovrà rilevare una molteplicità di impieghi, e una loro evoluzione, da quelli più propriamente lirici due-trecenteschi (Rinaldo d’Aquino: «ferma sicuranza»; Guittone d’Arezzo: «grande e ferma voglia»; Meo Abbracciavacca: «lamento [...] quasi fermo per la molta usanza»; Ricciardo da Cortona: «el cuore fermo e forte»), ad uno più propriamente filosofico e storico, tre-quattro e cinquecentesco (Brunetto Latini: «fare fermissime compagnie»; Bono Giamboni: «la confermata e fermissima Ecclesia di Cristo»; Matteo Palmieri: «mai alcuni popoli furono sì stabiliti e fermi»; Pier Francesco Giambullari: «mantenimento fermissimo della pace del Cristianesimo»), e finanche teologico-politico (come nella Bibbia tradotta da Diodati: «io renderò fermo il suo trono in eterno»), i quali, si può dire, hanno tutti o quasi tutti la risultante in quello tra gli usi cinquecenteschi che appare a nostro avviso più vicino al significato del compendio nel passo di Dandolo, vale a dire la formulazione di Giovanni Botero secondo cui «Stato è un dominio fermo sopra popoli; e Ragione di Stato è notitia di mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un Dominio cosi fatto»11.
È piuttosto naturale immaginare come e quanto l’uso di termini compendiosi talmente generali e dalle implicazioni di tale vastità costituisse ad un tempo la causa e l’effetto di una scelta precisa, quella cioè di confezionare una descrizione che non potesse non tener conto di un’ampia gamma di elementi, tale da condurre l’analisi dell’ambasciatore al di fuori di criteri di stretta ‘convenienza’ politico-istituzionale («danno», «ingiustizie infinite») nel momento stesso in cui avrebbe presentato la situazione della popolazione di Chambéry, che a suo avviso si sentiva sabauda e non francese: «ragionando meco quei di Ciamberì, principal terra in essa regione, mi dissero che quando il re la mandò a dimandare, e lui rispose che non voleva il danno loro, onde si dessero e conservassero il cuore. Il quale glielo mantengono costantissimo, promettendo che se il re proprio glielo venisse a domandare gli risponderebbono d’aver in ciò l’animo fermo, se ben da molti vien detto ch’esso duca faceva dell’ingiu...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Pagina del copyright
  3. Dedica
  4. Sommario
  5. Prefazione. Umanesimo o barbarie – Robert Descimon
  6. Introduzione. Lo sguardo e la storia
  7. PARTE I. «DI LÀ DA’ MONTI»
  8. «La montagna è altissima». Strumenti e strategie mentali e culturali
  9. «Cosa minima e ridicula». Modi e mezzi di un contatto tra culture
  10. Terreni d’incontro. Descrivere un regno
  11. «Non so che de la bella Italia»: vivere Lione
  12. «Bellissima, grandissima, ricchissima». Ammirare Parigi
  13. «Della guerra» e «dello stato». Sguardi italiani sulla politica francese
  14. PARTE II. «DI QUA» DAI MONTI
  15. Sovrani in cammino
  16. Genti, armi e peripezie di luoghi comuni. Percezioni e descrizioni di eserciti francesi
  17. Frammenti di un’Italia francese
  18. Collana Biblioteca di Storia – Titoli pubblicati