Capitolo 1
L’Italia fuori dall’Italia e il voto italiano all’estero
Per meglio inquadrare la storia e le esperienze di voto degli italiani all’estero dobbiamo capire chi sono questi connazionali residenti all’estero, non solo come corpo elettorale a sé ma in quanto parte di collettività formatesi nel tempo in cui il rapporto con le istituzioni italiane è stato segnato da ‘incomprensioni, mediazioni e conflitti’. Nel 1994 il ministero degli Affari Esteri (Mae) stimava in circa 60 milioni le persone nel mondo che potevano vantare una discendenza italiana. Recenti stime calcolano la popolazione di origine italiana tra i 60 e i 70 milioni. La maggioranza di questa popolazione vive nelle Americhe: il 66,2% in America latina, concentrati soprattutto in Brasile e Argentina e il 27,5% in America del Nord. Solo il 3,4% vive in Europa e lo 0,9% in Oceania, e il rimanente 2% nel resto del mondo. L’elemento italiano presente nelle comunità multi-etniche americane è tutt’altro che marginale; ad esempio in America Latina si stima che siano 15 milioni e 26 milioni rispettivamente gli argentini e i brasiliani di origine italiana.
Di tutt’altra dimensione la comunità di italiani all’estero oggetto di questo studio, ovvero quella dei cittadini italiani. Essa è assai più contenuta di quella allargata a tutti i discendenti di origine italiana. Se si prendono come riferimento le anagrafi consolari, le persone in possesso di passaporto italiano all’estero erano quasi 3,9 milioni alla fine del 2007.
Ma chi e quanti sono gli italiani all’estero? Qual è il flusso emigratorio italiano contemporaneo? Compito di questo capitolo è quello di tracciare un quadro storico degli italiani nel mondo dal secondo dopoguerra ad oggi, identificare dove e che profilo hanno gli italiani all’estero nonché analizzare le politiche che lo Stato italiano ha sviluppato nei confronti delle comunità all’estero e dei propri connazionali, connazionali che negli ultimi decenni vengono sempre più considerati come ‘italiani nel mondo’ e sempre meno come ‘emigrati all’estero’. Nella seconda parte del capitolo verranno approfondite invece le tematiche del voto italiano all’estero, dall’origine ai giorni nostri.
1.1 L’emigrazione dal secondo dopoguerra a oggi
La storia dell’emigrazione italiana dal secondo dopoguerra a oggi va ad inquadrarsi nel fenomeno migratorio italiano nel suo complesso e in un arco di tempo più ampio, che va dalla fine del XIX secolo alla fine del XX secolo. Nel periodo compreso fra il 1876 e il 1999, si ritiene che poco più di 27 milioni di italiani siano espatriati all’estero mentre sono quasi 10 milioni gli italiani che sono rientrati in patria tra il 1905 (inizio della rilevazione dei dati dei rimpatri) e il 1999 (vedi tabella 1.1). Sebbene il fenomeno migratorio italiano, sottolinea Donna Gabaccia, abbia caratterizzato l’Italia già nel periodo pre-unitario (è stato calcolato che quasi 2 milioni di italiani siano emigrati fra il 1790 e il 1870), è tra la metà degli Settanta del XIX secolo e la metà degli anni Settanta del secolo successivo che l’emigrazione italiana raggiunge dimensioni uniche nella sua storia. Gli storici convenzionalmente indicano nel 1876 l’inizio e nel 1976 la fine della migrazione italiana moderna. In questi cent’anni, i flussi migratori hanno registrato picchi storici, come l’emigrazione registrata nell’anno 1913, quando emigrarono 872.598 italiani, ovvero il 2,4% della popolazione nazionale 7.
Il fenomeno dell’emigrazione moderna può essere suddiviso, come suggerito da Maffioletti e Colaiacomo, in quattro periodi: (1) 1876-1915; (2) 1916-1945; (3) 1946-1976; (4) 1976-1999. Oltre metà dei flussi migratori avviene nel primo periodo, tra il 1876 e il 1915. Entro i primi del Novecento circa 5 milioni di italiani erano già emigrati, due terzi di questi emigranti provenienti dal Nord Italia. Dall’inizio del secolo, e prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, sono circa 9 milioni gli italiani, per la maggior parte provenienti dal Sud Italia, che emigrano negli Stati Uniti d’America. È il periodo della ‘Grande emigrazione’ che ha inciso in maniera così profonda sul tessuto socio-economico delle regioni meridionali, date le dimensioni e l’impatto dell’esodo sul territorio interessato. Audenino e Tirabassi, nel volume Migrazione italiane, danno un’idea del carattere temporaneo dell’emigrazione verso gli Stati Uniti:
Si trattava, per lo più, di immigrati temporanei, in maggioranza giovani, maschi e di origini contadine; ma tra di loro era pure presente una significativa minoranza di artigiani. Pochi erano quelli che avevano una qualche istruzione o che possedevano un capitale proprio; pochissimi i professionisti e i mercanti. Benché tutte le regioni italiane fossero rappresentate, i quattro quinti circa degli immigrati italiani provenivano dal mezzogiorno, in particolare dalla Calabria, dalla Campania, dall’Abruzzo, dal Molise e dalla Sicilia.
La politica dei governi italiani di allora mirava a incoraggiare e agevolare l’emigrazione non a contrastarla, vedendo in essa una leva per promuovere il commercio italiano e il nome dell’Italia all’estero. Il perché l’Italia sia stata soggetta ad un così alto livello di flussi migratori è da ricercarsi in una molteplicità e sovrapposizione di cause: miseria, povertà, sovrapopolazione, disoccupazione e sotto-occupazione, crisi dei principali modelli agricoli italiani, arretratezza di molte aree rurali, mancanza di assistenza da parte dello Stato, alienazione dei beni comuni, declino di vecchi mestieri e manifattura contadina, così come la rivoluzione dei trasporti (treni e navi a vapore) e lo sviluppo economico di paesi e aree emergenti (ad esempio gli Stati Uniti, l’Argentina e il Brasile). Circostanze storiche, politiche e sociali che hanno aumentato il disagio sociale e spinto masse d’italiani a prendere in considerazione, oltre all’emigrazione compagna-città o quella stagionale, quella oltre confine e oltremare. Gradualmente il declino del livello di vita, soprattutto in certe aree rurali del paese, ha reso le condizioni di vita dei contadini e del sotto-proletariato al limite della sopravvivenza, favorendo l’alternativa dell’emigrazione.
Questo periodo compreso tra il 1876 e il 1915, è inoltre caratterizzato da un aumento dei flussi migratori soprattutto dalle zone rurali e più povere del Sud e del Nord del paese – fenomeno reso ancora più grave dalla crisi agricola degli anni Settanta dell’Ottocento, che con il crollo dei prezzi dei cereali, «costituì un ennesimo stimolo alla partenza». A queste cause se ne devono aggiungere delle altre quali, ad esempio, le partenze in seguito a disastri naturali. Il Sud, carente di terreni agricoli fertili, con una popolazione in costante crescita, il disboscamento e la mancanza di materie prime quali il carbone, si trovava in una posizione particolarmente vulnerabile e soggetta al fenomeno migratorio nonché allo spopolamento delle campagne. Nel 1908 un terremoto, seguito da un maremoto, avevano colpito l’area dello Stretto di Messina, che causò, secondo alcune stime, più di 100.000 vittime. Furono migliaia gli abitanti della zona che emigrarono per ricostruire il proprio futuro altrove.
Nel secondo periodo, quello compreso fra il 1916 e il 1945, si osserva un forte calo nei flussi migratori, frutto delle politiche migratorie restrittive sia del Regime fascista sia di paesi stranieri, ad esempio degli Stati Uniti. Si passa infatti da un saldo negativo di -536.113 nel 1920 (614.611 espatriati e 78.498 rimpatriati) ad un saldo positivo di 57.790 nel 1939 (29.489 espatriati e 87.279 rimpatriati). È un periodo caratterizzato da una migrazione verso l’estero e l’interno che interessa soprattutto spostamenti dal Nord Italia verso la Francia, e dal Sud Italia verso il Nord. Si osserva pure una migrazione assistita verso le terre bonificate del Centro Italia, dove erano stati creati nuovi insediamenti, e nelle colonie estere. Dall’inizio del Novecento gli Stati Uniti sono stati una delle principali destinazioni dell’emigrazione italiana. Questo processo cessa bruscamente quando gli Stati Uniti nel 1924 promuovono una legge immigratoria restrittiva, l’Immigration Act (conosciuto anche come Johnson Act) che stabiliva quote precise per gruppi nazionali e limitava drasticamente il numero degli immigrati, specialmente dal Sud Europa.
Dal 1927 in poi, il regime Fascista portava avanti una politica di opposizione e dissuasione nei confronti dell’emigrazione. Uno dei sistemi usati dalle autorità fasciste era quello riportato da Cometti: «[…] non c’era più una veloce consegna di passaporti, nemmeno uno sconto sulla ferrovia per i lavoratori; queste agevolazioni invece furono offerte ai lavoratori che ritornavano». Tra le due guerre, un ulteriore ostacolo all’emigrazione italiana era rappresentato dai funzionari consolari che scoraggiavano gli immigrati italiani a integrarsi nel tessuto sociale della comunità locale. Eppure prima di allora, la classe politica italiana continuava ...