Scritture storiche
fra Cinquecento e Settecento
Gian Maria Varanini
Università di Verona
Storie di piccole città. Ecclesiastici e storiografia locale in età moderna (prima approssimazione)*
Scritture storiche ‘civili’ di ecclesiastici
(XVII-XVIII sec.)
A sollecitare gli ecclesiastici italiani a scrivere e ad occuparsi di storia, nel Seicento e Settecento, è in primo luogo – come è ovvio – la spinta potente dell’istanza apologetica e filo-romana; essa veniva da lontano e si incarnava nella grande tradizione inaugurata da Cesare Baronio, che aveva in vario modo e attraverso varie strade pervaso e fecondato anche l’erudizione locale.
Ne è prova, tra le tante che si potrebbero citare, una lettera indirizzata nel 1739 da Ludovico Antonio Muratori a Giuseppe Bianchini. Prendendo in qualche modo le distanze rispetto a quella tradizione (pur nel grandissimo apprezzamento e rispetto per il ‘predecessore’), lo storico modenese non esitava a come il riferimento a Roma e lo scrivere «a tenore di Roma» costituisse un impulso efficace, ma anche un limite di fondo per lo scrivere di storia di molti ecclesiastici radicati nelle cento città d’Italia.
In questa cornice di ‘promozione dal centro’ si inquadra in effetti l’input all’erudizione e alla storiografia inscritto nel DNA di molti ordini religiosi; e influiscono ovviamente molto anche le motivazioni identitarie legate a una determinata condizione canonica (l’appartenenza a questo o a quell’ordine, ecc.). Ma vi sono, in posizione subordinata, anche patriottismi e identità cittadine e territoriali, dai quali gli autori ecclesiastici (basti pensare alla ‘categoria’ dei canonici delle cattedrali, portabandiera delle tradizioni di capitoli sempre antichi e sempre onusti di tradizione: ma non soltanto a loro) non sono certo immuni. Questo intreccio e questa sovrapposizione costituiscono il punto di partenza di queste note.
Va aggiunto a ciò il fatto che, ben prima di Muratori ma anche dopo di lui, l’attenzione al passato dei ‘luoghi’ poté essere sollecitata dai fattori più diversi (i contrasti giurisdizionalistici, il gusto antiquario e collezionistico, la motivazione religiosa…), e poté incanalarsi, nell’ambito della storia locale, verso generi editoriali e verso scelte tematiche abbastanza varie. Fatto sta, in conclusione, è che la presenza di autori ecclesiastici nelle compilazioni, nei trattati, negli opuscoli dedicati alla storia ‘locale’ è un dato di fatto piuttosto consistente nel Seicento e nel Settecento.
Ce ne dà testimonianza un celebre catalogo, edito a Venezia nel 1779, che illustra la privata biblioteca di una ben nota famiglia di editori e di eruditi, i Coleti. Questo repertorio vastissimo (e ancor oggi utile per il suo contenuto informativo, visto che un’attenzione sistematica a questa produzione storiografica non c’è stata) menziona oltre 2500 «storie particolari civili ed ecclesiastiche», che rappresentano ovviamente solo una parte del ricchissimo patrimonio di testi che le élites culturali italiane dell’età moderna hanno elaborato ripensando origini leggendarie e fondazioni, o momenti specifici e connotanti del passato classico e post-classico delle proprie città, cittadine, territori.
Già la riflessione sul titolo del catalogo coletiano potrebbe offrire spunti di riflessione. Oltre alla distinzione tra le «storie civili ed ecclesiastiche» appare in effetti significativa anche quella tra «città e luoghi». E non solo per l’ambiguità e problematicità ben nota del termine di ‘città’, inteso da Coleti nell’accezione larga che comprende anche quei centri minori che qui particolarmente interessano; ma anche per il riferimento più general-generico ai ‘luoghi’, visto che l’autore veneziano prende in considerazione tutti i soggetti dotati di una fisionomia istituzionale o anche geografica che abbiano prodotto erudizione, comprese per esempio le comunità di valle. E a prova del gran numero di testi di questa natura editi nel Seicento e nel Settecento si può ancora ricordare il fatto che quella delle bibliografie regionali o per stati territoriali è una tipologia non priva di riscontri. Nel 1792 fu per esempio pubblicata la Bibliografia storica delle città, e luoghi dello Stato pontificio, di Luigi Ranghiasci, redatta secondo gli stessi criteri alfabetici del catalogo della biblioteca Coleti, adottando le categorie di ‘città vescovile’, ‘città già vescovile’ e ‘terra’.
Dunque, i quesiti rispetto ai quali intendo abbozzare in queste pagine una qualche risposta, attraverso un primo sondaggio all’interno di un materiale vastissimo, sono in sostanza i seguenti: chi, quando, come e perché tra gli ecclesiastici italiani del Seicento e del Settecento si è dedicato alla storia locale, e specificamente alla storia ‘civile’ di questi luoghi? In quale misura questi autori si sono adeguati al, e hanno supportato il, patriottismo municipale? Come si sono rapportati all’altra cospicua categoria sociale che elabora e produce storie locali, vale a dire i patriziati locali (e/o le aristocrazie)? Costoro sono in effetti, a questa tavola un po’ i convitati di pietra, perché non compaiono direttamente, ma se ne individua talvolta il profilo – per appartenenze familiari, se non altro – dietro il volto degli autori ecclesiastici.
Prima di proporre alcuni esempi e di svolgere qualche considerazione nel merito – che svilupperò cercando di tener conto in particolare del passato ‘medievale’ dei centri presi in esame –, occorre per un verso definire preliminarmente le realtà istituzionali alle quali queste ricerche sono dedicate; e per un altro verso collocare questo particolare comparto dell’attività culturale degli ecclesiastici italiani di età moderna sullo scenario più ampio del rapporto tra clero regolare e secolare ed erudizione del Seicento e del Settecento.
Centri minori, città, territori
Come si è insinuato nelle righe precedenti, questo contributo si concentra in primo luogo sulla categoria felicemente ambigua, e storiograficamente fortunata, di centro minore (borgo, terra, castrum…). La ricchissima produzione storiografica dedicata ai centri urbani maggiori dell’Italia centrosettentrionale del Seicento e del Settecento sarà qui usata, nella misura del possibile, come termine di paragone rispetto appunto ai centri minori: il termine città figura anch’esso, inevitabilmente, nel titolo. L’una e l’altra realtà, i centri minori e i capoluoghi provinciali – la maglia urbana dell’Italia centrosettentrionale di tradizione comunale – sono del resto in costante trasformazione, difficilmente separabili con una linea di distinzione netta.
È ben noto che proprio la tipologia delle istituzioni ecclesiastiche presenti in un determinato centro demico – e di conseguenza anche le scritture di autocoscienza e di identità elaborate dagli ecclesiastici di quel luogo – costituisce fino al Rinascimento incluso la chiave di volta per il riconoscimento della qualifica di città a un centro minore o a un borgo o a una terra o a un castrum; e che la presenza del vescovo è un elemento decisivo. Emblematico è il titolo di un ben noto contributo di Aldo Settia, ‘Fare Casale ciptà’, a proposito del quattrocentesco tentativo (coronato da successo) del marchese del Monferrato di promuovere a sede vescovile l’antica Casale di S. Evasio; e infatti metà del Cinquecento Leandro Alberti menziona in questa ottica, come ‘nuove’ città vescovili, appunto Casale Monferrato, e inoltre Saluzzo, Pienza, Borgo San Sepolcro, Vigevano. Va peraltro aggiunto, come è stato giustamente osservato, che la condizione di questi centri nei secoli dell’età moderna non è affatto statica, e che «allo scadere del Cinquecento il criterio vescovile da solo appariva superato: il nome di città andava allora perdendo la sua antica pregnanza mentre mutavano i parametri di percezione ad essa relativi».
Gli stessi protagonisti, le élites locali, si rendevano conto dell’allentamento dei vecchi schemi, e cercavano di elaborarne di nuovi. Una cronaca anonima del 1588 di Conegliano Veneto – quella Conegliano che già dal XII secolo era stata così ambiziosa, nei suoi tentativi di emancipazione da Treviso, e che durante la dominazione veneziana pretende la sostituzione di terra con civitas negli atti ufficiali – lascia intravvedere il tentativo di elaborare una griglia valutativa diversa, e dopo aver descritto la città dal punto di vista urbanistico e funzionale conclude
onde dir si puote che se ben in Coneian non risiede episcopo, essa terra sia veramente città, poiché ha tutte le parti deve haver una città segondo la deffinition de’ savii.
«Aver tutte le parti deve haver una città», la «deffinition de’ savii»: dunque c’è l’implicito riferimento a un ‘senso comune’ che rinvia in ogni caso a un’idea anche civile di respublica, fondato su criteri oggettivi e ‘scientifici’, che ormai consente una definizione o auto-definizione a prescindere dalla presenza del vescovo.
Sulle questioni qui sopra velocemente evocate non sono mancati nella storiografia recente contributi importanti, anche sul versante – che qui esclusivamente interessa – della sistemazione concettuale e della rilettura del passato da parte di ‘intellett...