Capitolo 1
Nel Pci dalla porta sbagliata: il ’68
Tutto comincia nel mitico ’68, appunto. Io ero venuto a Firenze per assecondare la mia presunta vocazione filosofica: qui – a differenza di Padova, dove sopravvivevano gli ultimi epigoni della scuola gentiliana – c’era un corpo docente di alta levatura e di prevalente orientamento marxista. Questa la motivazione ufficiale del trasferimento. Solo dopo un certo numero di anni mi appariranno chiare inconsistenza della vocazione ed infondatezza della motivazione. La verità, banale quanto inconscia, è che dovevo al più presto liberarmi dal guscio di un ambiente familiare e culturale che mi stava adorabilmente stretto.
Al punto che non sono mai diventato un filosofo e sono stato invece trascinato da subito nella politica.
Ci ho provato a resistere, per la verità. Ricordo ancora le mie giornate da studente modello nei primi mesi dell’anno accademico ’67-68: lezioni, biblioteca, mensa (pranzo e cena: 300 lire a pasto ed una costante sensazione di iponutrizione). Degno epilogo, giusto per prepararsi alla notte: lettura de L’Organon di Aristotele. Una scena davvero struggente! Questo giovine studioso chino sul ponderoso (e inaccessibile) tomo, chiuso nella sua camera ‘a pigione’ (6 mq)… E con i tappi alle orecchie per difendersi dal rumore del traffico, nell’unica zona della città in cui, all’epoca, non conosceva soste.
Il tutto in una condizione di solitudine pressoché assoluta che mi faceva sentire molto, molto engagé. Unica eccezione, l’episodica frequentazione di qualche conterraneo conosciuto in facoltà. Roba da immigrati veneti: una cena ogni tanto (“Da Marione”). Un vero lusso: 3 piatti di tortellini in brodo a testa e un fiasco di vino. Totale: 500 lire pro-capite. Talora perfino con seguito di film (cinema “Fulgor”, d’essai!).
E poi anche una puttana, molto rispettosa. Anziana, ordinata, con gli occhiali, sembrava una maestra di scuola. La incontravo tutte le sere, verso le otto, sul percorso fra mensa e casa, in direzione Il Prato. Lei, credo, iniziava il suo turno di lavoro. Io mi dirigevo verso L’Organon. Non ci siamo mai scambiati niente di più di un tacito cenno di saluto. Ma si era instaurata fra noi una silenziosa, e mutualmente rassicurante, relazione umana. Ad ognuno la sua pena!
Il fatto è che, all’inizio del nuovo anno, cominciano anche a Firenze le agitazioni studentesche. Non ho nessuna intenzione di raccontare come quel movimento reale, nato in opposizione al progetto governativo di riforma (il famoso D.L. 2314 del ministro Gui), e poi misuratosi con i problemi specifici delle diverse facoltà, sia stato rapidamente dirottato verso una surreale dimensione ‘anti-sistema’.
Tanto per fare un esempio, ricordo ancora, non senza un certo raccapriccio, una scena svoltasi durante l’occupazione del rettorato demenzialmente proclamata in solidarietà con il maggio francese. Era in corso l’ennesima assemblea d’ateneo. Non so quale fosse, e se ci fosse un qualche punto definito all’ordine del giorno. E infatti si girava, stancamente, intorno al palo. Ma l’atmosfera si scaldò – e di molto – quando prese la parola uno (il più di fuori) dei fratelli Faillace e si produsse in una clamorosa, quanto risolutiva, rivelazione: era stato appena informato, da fonte certa (?), che il mandante dell’assassinio di Che Guevara era niente meno che Fidel Castro. Una vera bomba, che scatenò lo scontro fra le varie fazioni! Strabiliante, dissi dentro di me! Ma, se anche fosse vero – mi chiesi subito dopo – che cosa c’entra?
Come si vede, cominciavo già a permettermi delle domande, per quanto in privato. Sì. Piccola matricola immigrata, priva di ogni esperienza e ancora alle prese con L’Organon, timida al punto da non prendere parte alla fase notturna delle occupazioni (a detta di tutti, la più eccitante), ebbene io cominciavo a sentire puzzo di bruciato.
Da principio, ero rimasto letteralmente incantato, se non affascinato, dai capi (pardon, leader) del movimento. Generalmente erano tutti fiorentini, di buona famiglia. Si conoscevano tutti dal liceo o addirittura dalle medie ed erano vicini alla laurea, od oltre. Per lo più, singolarmente o, più sovente, in coppia, venivano, o stavano per uscire, dal Pci. Del quale parlavano, giustificatamente, malissimo.
Avevano tutto chiaro, soprattutto visione e strategia. Più per combattere il Pci che il governo, a dire il vero, anche se in nome di una più efficace lotta al capitalismo. Ma erano veramente fenomenali. Ascoltarli era un genuino nutrimento intellettuale, almeno in parte compensativo dell’effetto-mensa a cui io – non loro, ovviamente – ero esposto.
Eppure, c’era qualcosa che non mi convinceva. Dapprima una sensazione, un sospetto, che solo col tempo si è fatto convinzione: a loro, del movimento, della sua crescita e della sua autonomia, non interessava un granché. Sì, a dominare era la forma della democrazia assembleare e, quindi, l’assoluta parità di espressione e di decisione, per tutti e per ciascuno. Ma si trattava di un’illusione ottica, se non di un inganno. Quello era solo un involucro, lo sfondo più adatto per il conflitto e l’affermazione di ambizioni personali, anche quando mascherate e strutturate sotto la specie delle formazioni organizzate, come Potere Operaio, Lotta Continua, i Marxisti Leninisti, Servire il Popolo e via siglando e frazionando.
Narcisismo e gusto del comando in sé, talora. O anche supporto di già profilate carriere, prevalentemente accademiche, talaltra. Poco importa. Quel che conta è che quel raffinatissimo tipo di ‘leadership’ non ci avrebbe portato da nessuna parte.
Ne fu la riprova proprio la già menzionata occupazione del rettorato. Un vero capolavoro! L’idea di promuoverla fu di due grandi strateghi, Bacciardi e Colaianni, destinati in più tarda età, e con le loro consorti, a svolgere ruoli politici di rilevo in quel che ne sarà del Pci, e delle sue schegge, dopo l’89. Capitanavano allora la LSR. Che non era una sostanza stupefacente, come si potrebbe supporre. Si trattava, al contrario, della Lega degli Studenti Rivoluzionari, una formazione fantasma di confine con il Pci, un piede dentro ed uno fuori. Insomma, una estrosa forma di copertura. Bene. Fu proprio in virtù di quella trovata, l’occupazione, che il movimento venne consegnato nelle mani di Potere Operaio e del suo untuosissimo capo, Caponnetto. Grazie a quella centralizzazione forzata, ed al conseguente sradicamento dalle facoltà, non fu difficile per loro impadronirsene, ben organizzati com’erano, innanzitutto sotto il profilo dei cosiddetti ‘servizi d’ordine’. Manu militari, si potrebbe dire. Riducendone progressivamente il carattere di massa ed assestandogli così una randellata da cui non si sarebbe ripreso se non dopo qualche tempo e solo parzialmente.
Per farla breve, con qualche altro giovane migrante (i cosiddetti ‘fuori sede’), fummo così costretti a prenderci delle premature responsabilità. Un po’ alla volta, passata l’estate del ’68, cominciammo a ricostituire una presenza organizzata del Pci – sì, dichiaratamente del Pci! – prima nella mia facoltà (Lettere e Filosofia) e poi tessendo una rete di altre ‘Cellule’ con i pochi che avevano l’ardire di manifestarsi apertamente a Scienze Politiche, Legge, Matematica, Agraria, e addirittura ad Architettura. Cosa difficile, perché quello era proprio il feudo di Caponnetto e, secondariamente, di Bacciardi, i due portenti di cui sopra.
Nella fase d’avvio di questa oscura opera di riorganizzazione, la centrale operativa divenne l’appartamento che, lasciata la cella di Porta a Prato, avevo affittato assieme a Giovanni Contini e Stefano Giunchi in Borgo Degli Albizi. Anzi, a voler essere pignoli, la mia camera. Era la stanza più grande, va bene, ma anche la più buia, e, quel che più conta, di passaggio. Un ampio ingresso-soggiorno dal quale si accedeva alla cucina, al bagno ed alle due, vere, camere da letto.
Vorrei chiarire che non ho mai contestato questa assegnazione degli spazi, peraltro concertata: dei tre, io ero l’unico single! Ciò che, comunque, ha messo a rischio il mio precario equilibrio psicologico non è stata tanto la naturale invidia per i miei coinquilini che scattava quando – spesso! – le loro fidanzate si fermavano a pernottare chez nous. Il fatto è che, per mesi e mesi, quello che avrebbe dovuto essere il mio luogo più intimo si era trasformato in una specie di cave carbonara. Niente di attinente alla clandestinità, intendiamoci: tutta gente tranquilla, anche se tabagista. Come me, peraltro. In un tornante della storia in cui si fumavano solo Gauloises o Nazionali, senza filtro, ça va sans dire. Ma ve lo immaginate in che condizioni ambientali finivo per coricarmi io, alle 3 di tutte le mattine che Cristo mandava in terra, dopo che qualche dozzina di persone aveva discusso, bevuto e fumato lì dentro? Buona parte delle quali sedute sul mio letto! Non vi dico lo stato in cui si era ridotto il materasso ricostruito che avevo acquistato per una miseria da un rigattiere lì vicino: ormai non superava i tre millimetri di spessore. Tanto valeva dormire direttamente sulla rete, e a finestra aperta! E poi tutti mettevano le mani sulle mie cose, invano riordinate – giorno dopo giorno – su una specie di scrivania. Per non parlare dei libri che, ogni tanto, qualcuno pensava bene di fregarmi. Facendomi incazzare a morte.
A onor del vero, devo dire che tutte queste riunioni, per quanto devastanti, non erano fini a se stesse, come invece in politica si verifica quasi sempre. Servivano a ‘decidere la linea’. Quella da ‘portare’ – giorno dopo giorno – nelle varie sedi ed in specie da noi, a Lettere e Filosofia, dove eravamo protagonisti di un serrato confronto, nel movimento e con il corpo docente, per una vera riforma della didattica (la ‘sperimentazione’). Sto parlando di qualcosa che resterà uno dei frutti più positivi ed innovativi di quella ricca stagione di ricerca culturale e politica. Anche grazie alla compartecipazione dialettica di figure come Casari, Garin, Luporini, Ragionieri, Seppilli ed altri. Secondo la vulgata, i «baroni del Pci», e dintorni, rispetto ai quali non era fortunatamente difficile mantenere un buon grado di autonomia. Se non altro perché ognuno di loro la pensava a modo suo, solitamente in opposizione all’altro.
In pratica, però, il problema era che, a ‘portare la linea’, dovevo essere io. Nessuno aveva mai formalizzato questo ruolo di portavoce. E non c’è da pensare che si trattasse di una sottintesa forma di risarcimento per l’uso improprio ed intensivo della mia tana. La verità è che – dopo le notti in bianco – quasi nessuno dei miei compagni era, giustificatamente, in grado di svegliarsi in tempo utile per partecipare fin dall’inizio alla quotidiana assemblea alla quale tale ‘linea’ avrebbe dovuto essere annunciata.
Farlo, quindi, toccava quasi sempre a me. E così, in forma strisciante e malvolentieri, stavo diventando il capo. Colpa di un metabolismo (lanzichenecco?) che mi consente di dormire anche pochissime ore. E di essere subito cosciente ed attivo. O quasi.
Posso attestare che questa posizione di condottiero era tutt’altro che inebriante. Non solo per la mia naturale riservatezza ma principalmente per i rischi a cui venivo esposto.
Già parlare in pubblico non era esattamente la mia vocazione, ripeto. E, quando dico ‘pubblico’, mi riferisco a qualche centinaia di persone che, per mesi interi, ha gremito sistematicamente l’ormai leggendaria ‘Aula 8’. Ancora oggi mi domando perché, per quale inesauribile esigenza di partecipazione.
Il peggio era che i miei interventi si svolgevano sotto le più varie forme di costrizione psicofisica. Intanto, sul bancone della presidenza, lì, vicino al microfono, ci stava scritto, bello in grande: Sacconi è una suora! Pregevole incisione di scuola altoatesina, realizzata da un tale Mariani, anarchico di origine bolzanina e bestemmiatore di inimitabile creatività e ricercatezza. Poi, per aiutarmi nella mia esposizione della ‘linea’, erano due o tre gli scherani di Potere Operaio (‘servizio d’ordine’) che si piazzavano solitamente alle mie spalle. La frase più garbata che riuscivano ad articolare ed a sussurrarmi nelle orecchie era circa di questo tenore: «Se non la finisci entro un minuto, ti spacchiamo il culo!».
Ma di questo non mi lamento. Anzi, a loro mi ero quasi affezionato. Non sapevano, quegli scagnozzi, che così finivano per caricarmi, per iniettarmi quel tanto di adrenalina sufficiente a finire il mio discorso. E, in ogni caso, erano molto preferibili ai loro leader. Due dei quali, il solito Caponnetto ed uno dei suoi vice, Pancho Pardi (in futuro Senatore eletto nella lista Idv), mostrarono ben altro ardimento quando una mattina presto mi trovarono solo (sempre per effetto del metabolismo lanzichenecco) a volantinare davanti alla facoltà e mi dissero: «Se non ti togli dai coglioni, ti facciamo spaccare il culo!». Come si dice: attitudine al comando. Confesso che, da quel momento, tanto per non passare da bischero, ho tenuto stabilmente nella mia fedele cartella un rudimentale strumento di autodifesa: un martello avvolto in numerosi fogli di giornale fissati da tanti giri di scotch. Non disponendo di una falce…
Le cose che mi davano francamente fastidio erano però altre due. La prima era costituita dall’intervento di Valerio Nardini, che prendeva sempre la parola dopo di me e sistematicamente esordiva, con fare sussiegoso: «Come ha detto quel socialdemocratico del Sacconi…». Ora, è bene rammentare che all’epoca, e in quegli ambienti, rivolgere a qualcuno quell’epiteto era molto, molto più offensivo che dargli della suora e addirittura di mettere in dubbio la moralità della sua genitrice. Il fatto poi che questa cocente accusa venisse mossa da Nardini era proprio insopportabile. Lui, più che organico al Pci, e divenuto una specie di icona per aver frequentato l’Accademia di Mosca. Ma ancor di più per aver rivendicato di essere stato concepito – credo in quel di Impruneta – sotto il ritratto di Stalin! Così, almeno, si favoleggiava. Di sicuro lui, ai nostri meeting notturni, non ci metteva piede, forse anche per le difficoltà logistiche che incontrava per raggiungerci da Impruneta, destinata peraltro alla devastazione urbanistica a causa della sua successiva gestione come sindaco. Ma, chissà perché, si sentiva investito della missione di attaccare le nostre posizioni prendendomi di mira con la sua ironia di autentico stampo sovietico.
C’era poi l’altra, insostenibile, faccenda della ‘maggioranza silenziosa’. Sinceramente non sono sicuro che fosse una vera maggioranza, ma silenziosa lo era assolutamente. Mi riferisco a quella, comunque nutrita, moltitudine di supporter che, finita la quotidiana assemblea, facevano capannello attorno a me per manifestare adesione ed apprezzamento: «Bravo, gliele hai cantate, continua così ecc.». Peccato che abitualmente si limitassero a questo tardivo tipo di sostegno, non partecipando quasi mai neppure alle votazioni conclusive delle medesime adunanze. Tanto è vero che, magari di poco, ma finivamo quasi sempre in minoranza.
Tutto ciò nonostante, le cose andavano avanti e il nostro oscuro lavoro di ricostruzione della presenza del Pci produceva discreti risultati in termini di crescita e anche di autorevolezza. Senza lode ma anche senza infamia.
Tanto è vero che – mi sembra agli inizi del 1970 – si arriva al congresso costituivo della sezione universitaria.
Vi è da dire che la federazione del Pci non aveva mai manifestato un particolare trasporto nei nostri riguardi. Effettivamente, non eravamo niente di più che un gruppo di attivisti autodidatti e disinseriti dal contesto politico fiorentino. Niente a che vedere con gli eruditissimi quadri che ci avevano preceduto e che avevano riempito di elevati contenuti politico-culturali la vita del vecchio sistema di rappresentanza universitario che il ’68 aveva spazzato via. Peccato che – credo per insanabili conflitti personali – a costituire una vera sezione non mi risulta che ci fossero mai arrivati.
Noi, invece, per quanto alle prime armi, ci eravamo radicati in molti istituti fino al punto di diventare, nel movimento e nell’intero ambiente universitario, una realtà riconosciuta, con la quale fare i conti. Ed avevamo anche intrecciato una serie di rapporti con alcune delle principali sezioni di fabbrica, dalla Galileo alle Officine FS di Porta a Pra...