Gross violations dei diritti delle donne in Messico. La risposta del diritto internazionale
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Gross violations dei diritti delle donne in Messico. La risposta del diritto internazionale

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Le violenze contro le donne di Ciudad Juárez, hanno fatto del "femminicidio" una categoria analitica adatta a spiegare lo stato di violenza patriarcale impunita perpetrata da una società machista. È lecito pensare che, davanti a esse, lo stato messicano debba assumersi le conseguenze di un illecito internazionale? Misure preventive insufficienti e gravi irregolaritá nelle fasi investigative e processuali, infatti, denunciano il mancato rispetto dell' obbligo in capo allo Stato di prevenire, indagare e punire con due diligence le violazioni dei diritti umani.
Siciliana di nascita, toscana di adozione, frequenta la Cesare Alfieri di Firenze, dove consegue la laurea in Relazioni Internazionali. Nel 2012 si trasferisce in Spagna dove inizia a lavorare nella cooperazione allo sviluppo, passione che la porterá in Nicaragua, dove oggi lavora per il WFP.

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Informazioni

Capitolo II
Il quadro giuridico di riferimento
Allo scopo di inquadrare da un punto di vista giuridico internazionale i fatti relativi a Ciudad Juárez descritti nel precedente capitolo, procediamo a esaminare le norme internazionali applicabili in materia di discriminazione e violenza contro le donne. Si farà altresì riferimento alle norme internazionali sul divieto di tortura per valutare la possibilità di qualificare gli atti di violenza contro le donne, e in particolare lo stupro, come forma di tortura. Inoltre, si individueranno gli elementi costitutivi, quali emergono dalle convenzioni in materia, del crimine di sparizione forzata, allo scopo di verificarne la sussistenza nei casi di scomparsa avvenuti a Ciudad Juárez.
Infine, ci occuperemo brevemente del diritto interno messicano, allo scopo di individuare le norme volte a fornire alle donne la tutela giuridica dei propri diritti fondamentali. Il diritto interno, infatti, viene in rilievo, ai fini del diritto internazionale, perché si presta a essere utilizzato come parametro per valutare la conformità, almeno da un punto di vista formale, della condotta del Messico rispetto agli obblighi che esso ha assunto sul piano internazionale. Il riferimento alle disposizioni di carattere interno, sarà quindi, propedeutico all’analisi che svilupperemo nel successivo capitolo III.
2.1 Il diritto internazionale
2.1.1 Il principio di non discriminazione su base sessuale negli strumenti universali e regionali
Com’è noto, la prima dichiarazione che contiene un elenco solenne dei diritti e delle libertà fondamentali, ossia la Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, si riferisce esplicitamente ai diritti dell’uomo. L’utilizzo del termine ‘uomo’ esprime la cultura dominante dell’epoca, basata sulla preminenza del maschio, che, anche nell’atto di redigere un documento giuridico quale la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, ritenne se stesso legittimato a rappresentare l’intera umanità.
Il primo trattato internazionale in cui si tocca, seppure marginalmente, la questione dell’uguaglianza dei sessi è la Carta delle Nazioni Unite (1945). Già nel Preambolo vi è un riferimento all’uguaglianza di diritti di uomini e donne (United Nations Conference on International Organization 1945: preamble)1, ripreso, poi, nel corpo della Carta, dove, tra i fini delle Nazioni Unite si include quello di promuovere il rispetto dei diritti umani: «without distinction as to race, sex, language, or religion» (United Nations Conference on International Organization 1945: art. 1.3).
Fu nel corso della redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che, grazie alle pressioni della Commissione sullo Status delle Donne e alla tenacia di Eleanor Roosevelt, presidente della Commissione sui Diritti Umani, a cui era stato affidato il mandato di affrontare, nella Dichiarazione, la questione dello status delle donne, fu inserita la frase «uguali diritti di uomini e donne» (General Assembly 1948: preamble). La bozza dell’art. 1 fu rivista nel senso di individuare gli esseri umani, piuttosto che gli uomini (General Assembly 1948: art. 1)2, quali titolari dei diritti sanciti e l’impersonale everyone fu usato nella maggior parte degli articoli. Il principio di non-discriminazione venne inserito nell’art. 2 della Dichiarazione, con il quale la comunità internazionale si impegnava a riconoscere i diritti e le libertà ivi enunciate a tutti gli esseri umani senza distinzioni basate, inter alia, sul sesso.
Il principio di non-discriminazione sulla base del sesso è, ormai, incluso nella totalità dei trattati universali e regionali in materia di tutela dei diritti umani. I due Patti del 1966 (UN General Assembly 1966), ad esempio, contengono tale principio all’art .2. A ciò si aggiunga che il Patto sui diritti civili e politici offre un’ampia garanzia di uguaglianza dinanzi alla legge, stabilendo che attraverso di essa sia assicurata la protezione da qualsiasi forma di discriminazione basata, inter alia, sul sesso3 e, attraverso l’art. 3, impone agli Stati Parte di assicurare agli ‘uomini’ e alle ‘donne’ un uguale diritto al godimento dei diritti civili e politici sanciti dal Patto.
Nell’ambito delle Nazioni Unite, si è assistito a un importante passo avanti nella specificazione del divieto di discriminazione con il General Comment No. 28, emesso nel 2000 dal Comitato sui Diritti Umani4, con cui quest’ultimo ha inteso specificare gli obblighi che derivano agli Stati in virtù dell’art. 3 del Patto. Il Comitato ha, quindi, sottolineato che gli Stati sono tenuti ad adottare tutte le misure necessarie a garantire a ‘ogni’ individuo il pieno godimento dei propri diritti.
Alla luce dell’interpretazione dei rilevanti articoli del Patto adottata dal Comitato, il principio di non-discriminazione impone agli Stati non solo di adottare misure giuridiche, quali la riforma della legislazione vigente in contrasto con il principio di uguaglianza dei sessi, ma anche di adottare tutte le misure positive necessarie a raggiungere un effettivo rafforzamento del potere di azione (empowerment) delle donne5.
Questo implica che gli Stati siano tenuti ad assicurare che pratiche tradizionali, religiose o culturali, spesso causa della discriminazione nei confronti della donna, non vengano invocate a giustificazione di violazioni del diritto delle donne all’uguaglianza dinanzi alla legge e al godimento dei diritti garantiti dal Patto.
Com’è noto, il salto di qualità nella garanzia del principio di non-discriminazione sulla base del sesso fu compiuto con l’adozione nel 1979, in ambito ONU, della Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW). La Convenzione esprime un forte impegno da parte della comunità internazionale a favore del miglioramento della condizione femminile. Già nel Preambolo, infatti, si riconosce che la discriminazione contro le donne costituisce una violazione dei principi di uguaglianza e di rispetto della dignità umana e un ostacolo alla partecipazione delle donne, su un piede di parità con gli uomini, alla vita politica, economica, sociale e culturale.
All’art. 1 della stessa viene enunciata la nozione, ampia, di discriminazione accolta:
any distinction, exclusion or restriction made on the basis of sex which has the effect or purpose of impairing or nullifying the recognition, enjoyment or exercise by women, irrespective of their marital status, on a basis of equality of men and women, of human rights and fundamental freedoms in the political, economic, social, cultural, civil or any other field.
Il seguente art. 2 esprime la volontà degli Stati di condannare la discriminazione contro le donne e sancisce l’impegno delle Parti ad adottare tutte le misure legislative, amministrative, politiche e culturali che siano necessarie a realizzare l’uguaglianza tra i due sessi.
La Convenzione, quindi, non vieta direttamente la discriminazione, ma, avendo come scopo quello di eliminare la discriminazione basata sul sesso, fa uso di una terminologia in molti casi neutra («on the basis of sex», «on a basis of equality of men and women») per imporre alle Parti di prendere misure atte ad assicurare «equal rights with men»6 o a fornire alle donne opportunità «on equal terms with men»7. Da ciò emerge, quindi, l’idea che i diritti e le opportunità offerte all’uomo debbano essere garantiti anche alle donne, restando gli uomini lo standard di paragone. Inoltre, laddove si debba verificare se una pratica, una politica o una legge siano discriminatorie nei confronti delle donne è necessario individuare quale sia il trattamento riservato agli uomini. Poche disposizioni della CEDAW fanno eccezione e lasciano la possibilità di affermare che in determinate circostanze vi possa essere discriminazione contro le donne anche in assenza di un termine di paragone maschile8.
Anche le convenzioni sui diritti umani stipulate in ambito inter-americano includono il principio di non-discriminazione in base al sesso. Ai sensi dell’art. 1 della Convenzione Americana sui Diritti Umani (1969), gli Stati Parte si impegnano a rispettare i diritti e le libertà riconosciute nella Convenzione e a garantire a tutti gli individui sottoposti alla loro giurisdizione, senza discriminazione sulla base, inter alia, del sesso, il pieno e libero esercizio di tali diritti e libertà. La Convenzione Inter-Americana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne del 1994 (Convenzione di Belém do Pará), invece, sancisce un vero e proprio diritto della donna a essere libera da qualsiasi forma di discriminazione9, senza fornire, tuttavia, una definizione del termine discriminazione.
Una questione spesso affrontata in dottrina riguarda l’inclusione, nella definizione di discriminazione sulla base del sesso, della cosiddetta ‘discriminazione indiretta’. Con tale termine ci si riferisce alla situazione in cui una legge, una pratica o un criterio mettono in una condizione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell’altro, anche se il sesso per se non è usato come criterio discriminatorio. Richiedere specifici requisiti per accedere a benefici, lavoro o educazione o per godere dei diritti politici, può, infatti, avere un effetto discriminatorio nei confronti delle donne. Ad esempio, fissare come requisito necessario per ottenere un posto di lavoro la disponibilità a lavorare a tempo pieno può qualificarsi come forma di discriminazione indiretta, dato che le donne possono avere l’esigenza di optare per il lavoro part-time, in modo da conciliare casa e lavoro (Froshell 1999: 43).
Sebbene il concetto di discriminazione indiretta non sia incluso in alcun strumento giuridicamente vincolante, è possibile, attraverso un’interpretazione testuale dei trattati di riferimento, valutare se la definizione di discriminazione contenuta in ognuno di essi possa implicitamente contenere un riferimento alla discriminazione indiretta.
L’art. 2610 del Patto sui Diritti Civili e Politici, in virtù dell’uso dell’espressione «any discrimination», potrebbe essere interpretato nel senso di includere anche la discriminazione indiretta, anche alla luce del fatto che l’elenco dei criteri discriminatori indicati non è tassativo e che l’inserimento tra questi dell’espressione «other status» lascerebbe spazio per includervi la discriminazione basata, ad esempio, sul peso o sulla forza fisica, che può definirsi discriminazione indiretta.
Anche il General Comment No. 18 emesso ...

Indice dei contenuti

  1. Sommario
  2. Presentazione
  3. Introduzione
  4. Capitolo I
  5. Capitolo II
  6. Capitolo III
  7. capitolo IV
  8. Conclusioni
  9. Bibliografia
  10. Sitografia