Il realismo teatrale nella narrativa del Novecento. Vittorini, Pasolini, Calvino
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Questo libro racconta il realismo della letteratura novecentesca da un'ottica straniata e inedita, ed esplora l'ipotesi che alcuni scrittori italiani – Vittorini, Pasolini e Calvino – abbiano guardato alle tecniche espressive del linguaggio teatrale come strumento privilegiato per l'elaborazione narrativa di un proprio personale "realismo teatrale". L'individuale approdo alla cultura teatrale da parte dei narratori presi in considerazione è inquadrato nell'ambito di una più ampia tendenza all'interdisciplinarietà e alla rottura delle barriere di genere che riguarda tutta la cultura novecentesca, con riferimenti puntuali alle teorie di Szondi, Brecht, Lukács, Gramsci, Contini e Bachtin. L'autrice completa la sua indagine teorica con un'analisi critica di capolavori narrativi del Novecento come Il barone rampante e Conversazione in Sicilia. Enrica Maria Ferrara è ricercatrice e docente di Letteratura italiana presso il Trinity College di Dublino. Oltre a due monografie su Italo Calvino (Calvino e il mare dell'altro, Napoli, Magma, 2008; Calvino e il teatro, Oxford, Peter Lang, 2011), ha pubblicato articoli di letteratura italiana e comparata su riviste specializzate e in volumi collettivi.

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Informazioni

Capitolo 1
Il realismo teatrale nella narrativa italiana
del Novecento
Questo libro si accampa su un’idea in un certo qual modo paradossale, e cioè che il teatro – con tutto il suo armamentario di costumi, apparati di scena, luci, battute mandate a memoria, tecniche attoriali, musiche, danze, indicazioni di regia, modalità di rappresentazione – sia stato adottato da un cospicuo numero di narratori novecenteschi come modello ispiratore di realtà, come modo di espressione più realistico del reale stesso. Sembra un’idea paradossale perchè tutti sappiamo, e così pure sapevano i narratori del Novecento italiano, che la ‘quarta parete’ era soltanto un’illusione e che i drammaturghi, almeno a partire da Pirandello in poi, avrebbero svelato – chi più, chi meno – i trucchi del mestiere, davanti allo sguardo sempre più straniato di uno spettatore sempre più disilluso. Ciononostante – ed è questo il nodo fondamentale della mia ricerca – il romanziere italiano del Novecento fa ricorso al teatro, alle tecniche espressive del linguaggio teatrale, per riprodurre la sua idea di realtà in prosa. E il teatro a cui il romanziere in questione fa riferimento non è, si badi bene, il teatro realista in senso stretto, e cioè il teatro naturalista della seconda metà dell’Ottocento, bensì tutto il teatro: il teatro di Goldoni, Shakespeare, Pirandello, Ibsen, Wilder, Brecht, Beckett. È il teatro italiano e quello straniero che diventa citazione, trasfigurazione, riferimento e ispirazione come contenuto e come tecnica, o tecniche, della rappresentazione. Questa teatralizzazione della prosa che, in alcuni casi, pare assumere i tratti di una vera e propria «drammatizzazione dell’epos»1 – per riprendere e capovolgere una famosa definizione di Szondi sull’epicizzazione del dramma moderno che svilupperemo più avanti – non è un fenomeno di facile individuazione perchè presenta caratteristiche di sperimentazione e di ricerca. Epperò, all’occhio allenato di chi, come la sottoscritta, ha speso gli ultimi dieci anni a ricostruire la sotterranea vocazione di Calvino alla scrittura teatrale, non potevano sfuggire certi segnali di teatralità nella narrativa di scrittori come Vittorini, Pasolini e lo stesso Calvino, segnali che mi hanno incoraggiato a percorrere un tragitto ermeneutico poco battuto e molto fertile.
La mia prima ipotesi, quando ho intrapreso questa ricerca sulla letteratura del Novecento, era che alcuni romanzieri italiani del dopoguerra avessero rivolto la propria attenzione al teatro per trovare un metodo espressivo che consentisse loro di sfuggire alla stagnazione dei processi creativi generata dal neorealismo letterario e dal realismo prescrittivo dell’ortodossia socialista negli anni Cinquanta. Era stato lo stesso Calvino a mettermi sull’avviso e ad indicarmi questa pista interpretativa con il suo discorso sul realismo dinamico ed eterodosso di Brecht in contrapposizione al realismo prescrittivo di Lukács. In un articolo del 1956, pubblicato in occasione della morte del drammaturgo tedesco, Calvino scriveva:
Le due più grandi intelligenze del marxismo mondiale (nel campo dell’estetica, e forse non solo in quello, e forse non solo del marxismo), tenute fino a ieri al margine del mondo comunista ufficiale, Lukács e Brecht, non potrebbero avere ideali più opposti: Lukács, per cui l’arte è «scoperta», il fautore del «rispecchiamento», il codificatore – con nostro scandalo – dei «generi»; Brecht, per cui l’arte è «invenzione», il fautore di generi spurii come il «teatro epico» in cui il costante intervento dell’autore tra l’oggetto della rappresentazione e il pubblico – deformazione, semplificazione, insomma stile – deve tener sempre vivo in esso pubblico la partecipazione critica, impedirgli d’immedesimarsi passivamente nell’azione (Calvino 1956).
La biforcazione fra sostenitori di Lukács e di Brecht è sottolineata da Calvino in tutto l’articolo che culmina, infine, nella professione di fede a favore del teatro epico brechtiano: «Io sono per Brecht» (Calvino 1956). È importante notare come nel testo in questione Calvino non solo si preoccupi di segnalare la divaricazione della cultura italiana fra due interpretazioni diverse di realismo ma suggerisca anche l’importanza che romanzo e teatro come generi letterari hanno avuto nella teorizzazione del realismo «classico» o prescrittivo alla Lukács e di quello sperimentale o dinamico alla Brecht. Vale a dire che lo sperimentalismo e la creazione di generi ibridi e spuri sarebbero incoraggiati dalle teorie brechtiane e dal teatro come genere letterario, mentre il rispetto della divisione fra generi e di un canone classico basato sulla gerarchia fra stili e generi letterari sarebbe prerogativa delle teorie lukácsiane che privilegiano il romanzo come forma espressiva ideale del realismo.
L’importanza di queste affermazioni di Calvino nel contesto di una cultura di sinistra che continuava a proporre, almeno fino alle polemiche sul Metello di Pratolini, l’ideale di una letteratura neorealista a scopo edificante e testimoniale in cui l’originalità espressiva e la sperimentazione formale venivano scoraggiate come esempi di arte reazionaria, decadente e borghese, non può e non deve essere sottovalutata. Il parteggiare per Brecht assume un valore emblematico e provocatorio perchè incoraggia gli intellettuali di sinistra a scardinare l’idea di neorealismo letterario dal di dentro, promuovendo appunto l’ibridazione dei generi e poi l’uso della favola, dell’allegoria, della satira, della parodia, e cioè di griglie formali inconsuete che non incontravano l’approvazione degli organizzatori politico-culturali. È chiaro che questa rivoluzione della forma era il preludio ed il significante di una critica alle politiche togliattiane negli anni dello stalinismo che sarebbe poi culminata nell’uscita di Calvino dal partito comunista dopo le rivelazioni del rapporto Chruščëv e i fatti d’Ungheria.
Se dunque inizialmente avevo ipotizzato, sulla scorta delle osservazioni calviniane, una ‘funzione Brecht’ che desse ragione della natura eterodossa e sperimentale di alcuni testi narrativi rispetto al canone ufficiale lukácsiano della letteratura neorealista, l’esito delle mie indagini si rivelava, da un lato, deludente, e dall’altro, molto più proficuo di quanto mi aspettassi. Se infatti la ‘funzione Brecht’ apriva nuovi orizzonti ermeneutici alla critica calviniana quando si prendeva alla lettera, come ho fatto appunto nella terza parte di questo volume, l’intenzione espressa da Calvino di voler «tradurre per la narrativa» (Calvino 1956-57) le teorie che Brecht aveva scritto per il teatro, non pareva possibile, per ragioni cronologiche e filologiche, di spiegare con gli strumenti teorici dell’estetica brechtiana la pur evidente teatralità di narrazioni come Ragazzi di vita (1955) di Pasolini o Conversazione in Sicilia (1938-39) di Vittorini. Nel caso di Pasolini, infatti, pare che l’incontro con Brecht sia avvenuto in un momento successivo alla stesura del romanzo di ambiente romano, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, mentre, per Vittorini, bisogna aspettare l’inizio degli anni Quaranta e poi le prime traduzioni delle poesie di Brecht ne «Il Politecnico» perchè si possa stabilire senz’ombra di dubbio un contatto fra lo scrittore siciliano e il drammaturgo tedesco.
La meccanica separazione fra lukásciani e brechtiani proposta da Calvino, se da un lato mi aveva messo sulla strada giusta, ipostatizzando l’importanza che il teatro aveva avuto nel processo di rinnovamento delle tecniche narrative, dall’altro mi poneva di fronte al rompicapo di una potenziale varietà di percorsi dalla narrativa al teatro (e viceversa) che l’ipotesi della ‘funzione Brecht’ avrebbe permesso di risolvere con una reductio ad unum e che adesso mi si spalancava davanti come una sorta di vertigine.
L’individuale approdo alla cultura teatrale come ricettacolo di soluzioni stilistiche che fornissero un’alternativa al proustismo, all’autobiografismo memoriale degli anni Trenta e alla tradizione verista verghiana, nel caso di Vittorini, o ancora al proustismo e al neorealismo documentario degli anni Quaranta-Cinquanta, in quello di Pasolini, imponeva di rivolgere l’attenzione al quadro storico-letterario di riferimento rispetto al quale la narrativa di questi autori cercava di porsi come innovativa. Qual era il canone stilistico da erodere, innovare, rinvigorire?
Il nodo della questione – partendo dal Neorealismo e percorrendo a ritroso la storia della letteratura e del romanzo italiano del Novecento per ricongiungersi con il cosiddetto realismo degli anni Trenta di Moravia, Alvaro, Bernari (un discorso a parte è quello di Silone), e con il verismo di Verga, Capuana e De Roberto –, pareva essere ancora e sempre quello del realismo come codificazione e prescrizione di un genere dai contorni e dalle regole ben definiti che lasciava poco spazio all’invenzione formale2. Così come il neo-realismo del dopoguerra imponeva, nella prospettiva marxista, il rispecchiamento documentario della realtà sociale presa ad oggetto dal narratore impegnato, l’adozione di un punto di vista oggettivo e la proposta di storie edificanti di riscatto sociale, allo stesso modo il verismo teorizzava la necessità di ritrarre il reale come fatto positivo adottando la tecnica dell’impersonalità narrativa implicita nel principio dell’invisibilità dell’autore. Si tratta, ovviamente, di una semplificazione; ma il punto è che, fatte le dovute distinzioni di intenti programmatici e di contesto socio-politico, la narrativa italiana appare dominata, dagli anni Ottanta dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, da un paradigma realista che rappresenta la tradizione e il canone di riferimento con cui gli autori interessati ad innovare la forma-romanzo devono confrontarsi. La rigidità dell’impostazione teorica postulata dalla poetica verista, che aveva dominato la cultura italiana per un ventennio, fece sì che il concetto di realismo mantenesse su di sè questa pesante ipoteca dell’inflessibilità formale e di un contenutismo che, nonostante la professione di fedeltà alla realtà, limitava però il proprio raggio d’attenzione alla sola realtà deprivata e deprimente delle classi disagiate. Che questa rigidità fosse il prodotto di una situazione culturale tipicamente italiana è un fatto dimostrabile sia da una disamina del concetto di realismo come metodo espressivo sia dalla sistemazione che un esimio teorico e critico letterario, Gianfranco Contini, propose negli anni Cinquanta per revitalizzare l’approccio critico alla tradizione del realismo italiano.
E dunque, in primo luogo, se passiamo da una prospettiva storico-letteraria ad una prospettiva sempre storicistica ma che si preoccupa di indagare l’oggetto narrativo come categoria espressiva – cosa che ci permetterà anche di comprendere somiglianze e differenze con l’oggetto teatrale e l’attrazione per quest’ultimo che i narratori novecenteschi da me esaminati sembrano manifestare – la nascita del romanzo moderno si può e si deve ricollegare, più che ad un’esigenza realistica, ad un bisogno di sfuggire alla tirannia della tradizione che imponeva il mito tradizionale come plot obbligato della narrazione epica, inizialmente solo orale. Alla ripetitività e formulaicità dell’epica, la narrativa scritta avrebbe progressivamente opposto la sua fedeltà alla realtà, dando vita ad una narrativa empirica di tipo storico e mimetico, e la sua fedeltà all’ideale, che avrebbe prodotto il romanzesco nelle due varianti di narrativa romantica e didattica. Secondo Scholes e Kellogg, a cui devo queste osservazioni sulla nascita della narrativa, il romanzo moderno sarebbe nato alla confluenza di due impulsi narrativi, quello «empirico» e quello «romanzesco»:
Il novel non è il contrario del romance, come si usa sostenere. È invece il prodotto della ricongiunzione fra elementi empirici ed elementi di finzione nella letteratura narrativa. La mimesi (che tende a forme narrative brevi come la personificazione di vizi e virtù e la tranche de vie) e la storia (che può diventare troppo scientifica e allora smette di essere letteratura) si mescolano nel novel con il romance e la favola – anche sotto forma di leggenda primitiva, racconto popolare e mito sacro originariamente uniti nell’epica – per produrre una grande e sintetica forma letteraria (Scholes et al 2006: 15)3.
Che la differenziazione tra romance e novel non sia granchè rilevante per la letteratura italiana è un fatto di poco conto4. Quel che a me pare interessante è che l’impulso mimetico, cui si attribuisce la creazione di narrazioni realistiche, si mescoli fin dalle origini del genere – Scholes e Kellogg parlano del romanzo post-rinascimentale a partire da Cervantes – con l’invenzione romanzesca, favolistica o fantastica, in altre parole con quella tendenza all’affabulazione che sembrerebbe caratterizzare generi di narrazione che imitano più esplicitamente la realtà come potrebbe essere piuttosto che la realtà com’è. Il dato fondamentale che caratterizza la nascita della narrativa scritta sembrerebbe essere, come accetta anche Watt, non tanto l’impulso alla riproduzione dell’esistente quanto l’opposizione all’autorità soffocante del mito tradizionale che non lasciava spazio alla vitalità dell’invenzione creativa5. L’originalità, dunque, e non il principio di imitazione, è il criterio-guida che informa il romanzo al suo apparire. Che poi le storie narrate siano caratterizzate da un maggiore o minor grado di corrispondenza con l’esperienza reale, questo è un dato che dipende più dalla volontà e dalla propensione del singolo autore che dall’organizzazione della forma romanzo nel suo insieme.
È pur vero però che un certo criterio di verosimiglianza tra eventi raccontati e realtà effettuale, che è alla base stessa del concetto di romanzo, ha creato le premesse per un’identificazione fra quello che Watt chiama «realismo formale» e la narrazione romanzesca:
In realtà, il realismo formale è la materializzazione narrativa di una premessa che Defoe e Richardson avevano accettato in maniera molto letterale ma che è implicita nella forma romanzo nel suo insieme: la premessa, o convenzione primaria, che il novel è un resoconto autentico e completo dell’esperienza umana. In tal senso, il novel ha l’obbligo di soddisfare il lettore fornendo dettagli della storia relativi, ad esempio, alla personalità degli attanti nonchè ai tempi e ai luoghi precisi delle loro azioni, dettagli che vengono presentati attraverso un uso del linguaggio più ampiamente referenziale di quello comunemente presente in altre forme letterarie (Watt 1974: 32)6.
La forma romanzo sarebbe basata, insomma, su una serie di convenzioni non scritte ma legate a criteri...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo 1
  2. Capitolo 2
  3. Capitolo 3
  4. Capitolo 4
  5. Conclusione
  6. Repertorio delle opere citate