La riforma universitaria nel quadro dei sistemi di governance europei
La recente riforma universitaria in Italia si inquadra nei processi di riorganizzazione di tutti i sistemi di istruzione superiore europei. Per valutarne pregi e limiti è dunque utile analizzare questi processi, e vedere se la riforma italiana dà o non dà risposte ai problemi generali che guidano la riorganizzazione in Europa e agli obiettivi che questa si pone.
Negli ultimi trent’anni circa, tutti i Paesi europei sono stati interessati da profondi processi di riorganizzazione dei propri sistemi di istruzione superiore (SIS), guidati dai rispettivi governi.
In questa sede discuterò due principali aspetti di questa riorganizzazione. Il primo, che è stato al centro del dibattito recente in Italia, riguarda i mutamenti nei modelli di governance di questi sistemi. Il secondo, che invece è largamente trascurato dal dibattito italiano ma ha svolto un ruolo cruciale in altri Paesi europei, riguarda i processi di differenziazione interna ai vari SIS.
Prima di discutere questi due aspetti, tuttavia, sono opportuni alcuni cenni a quelle che sono state le cause, ovvero i fattori strutturali e culturali, dei processi di riorganizzazione.
1. I fattori strutturali e ideologico-culturali della riorganizzazione
In estrema sintesi, possiamo richiamare tre principali fattori ‘strutturali’ dei processi di riorganizzazione comuni a tutti i Paesi europei. Si tratta di ‘sfide’ a cui tutti i sistemi di istruzione superiore hanno dovuto rispondere. Il primo è un fattore interno allo sviluppo dei SIS, e riguarda il passaggio da una università di élite a una ‘ad accesso generalizzato’: ovvero l’avvento di quella che viene comunemente definita l’università di massa. Il secondo è invece un fattore esterno e riguarda la diffusa percezione (non importa qui se pienamente fondata) di una crescente importanza della formazione e della ricerca – ovvero delle attività classiche svolte nelle università – per lo sviluppo economico: cioè il diffondersi del paradigma della ‘economia della conoscenza’. Il terzo è in qualche misura una conseguenza dei primi due: si tratta dell’esplosione dei costi che una università di massa, per di più considerata una leva cruciale per lo sviluppo economico, inevitabilmente comporta.
Vi è un consenso pressoché unanime sul fatto che il primo di questi fattori abbia rappresentato la sfida più importante. Oggi un ‘accesso generalizzato’ all’istruzione superiore è avvenuto ovunque e ben al di là delle previsioni formulate alcuni decenni fa (Trow 1974): nel 2008, la percentuale di immatricolati all’università sulla relativa coorte di età era in media del 56% nei Paesi dell’OCSE (del 51% in Italia), mentre un ulteriore 16% risultava iscritto ad altre istituzioni di istruzione terziaria (OECD 2011). In Italia la popolazione universitaria è più che sestuplicata in soli quarant’anni, dagli anni Sessanta del secolo scorso agli inizi del nuovo millennio, dopodiché si è assestata e ha iniziato una lieve decrescita. Questa espansione ha prodotto numerose conseguenze: ha destabilizzato la funzione tradizionale dell’università di socializzare le élite a codici culturali definiti dall’oligarchia accademica; ha fatto nascere l’esigenza di progettare percorsi di studio più student-centred e attenti all’occupabilità dei laureati; ha prodotto una crisi finanziaria in sistemi pubblici come quelli europei, spingendo a diversificare le fonti di finanziamento. Come vedremo più avanti, a sua volta questo ha comportato maggiore autonomia per gli atenei, accompagnata da richieste di maggiore efficienza e di verifica mediante procedure di valutazione.
La seconda sfida – quella di saper rispondere alle esigenze di una economia della conoscenza – ha trovato il suo momento simbolico nel lancio nel 2000 della ‘strategia di Lisbona’. Questa ha diffuso la convinzione che, a differenza del precedente sistema produttivo fordista e industrialista basato su una forza lavoro a basso o medio livello di qualificazione, le economie del prossimo futuro avranno sempre più bisogno di due elementi, entrambi prodotti dalle università: alti livelli di qualificazione, cioè capitale umano a elevata professionalità, e utilizzo dei risultati della ricerca come fattore di competitività economica. Questa convinzione si traduce non solo ...