Capitolo secondo
Il paradigma politico
1. Il polites e le sue controfigure
Ancor prima che la rivoluzione francese riproponesse con forza la figura del citoyen nell’ambito della riflessione giuridico-politica, la cittadinanza era già stata oggetto della filosofia politica: il polites greco. «La “tradizione culturale” che prende le mosse dalla crisi dell’ancien régime è soltanto un tratto di un ben più lungo cammino; ed è un tratto la cui indubbia efficacia storica ha fatto dapprima impallidire e poi via via dimenticare, di fronte alla forza del risultato, la sostanza profonda di ciò che lo ha preceduto, e tanto più, le origini proprie di tale sostanza». Nell’assegnare la giusta proporzione storica alle esperienze di cittadinanza quale partecipazione pubblica e quale sudditanza alla sovranità, non si può non dar ragione a Étienne Balibar quando scrive, in occasione del bicentenario della rivoluzione francese, che si può «tranquillamente affermare che nell’esperienza culturale e politica greca il “citoyen” è certamente venuto prima del “sujet”».
Occorre così ricordare che «il fiorire della cittadinanza nel mondo greco corrisponde ad un momento relativamente breve della storia della civiltà occidentale». Questo ‘momento’ breve ed intenso che fu l’Atene del quinto e quarto secolo a.C. – da alcuni considerato addirittura un ‘miracolo di equilibrio politico’ – trova la sua sintesi in materia di riflessione sul tema della cittadinanza nella trattazione aristotelica del polites, ovvero nella «somma del pensiero politico greco del IV secolo a.C.», vale a dire nella Politica.
Il motivo d’interesse per Aristotele non si riduce però all’amore storicista per l’origine che recherebbe già in sé principio e telos. Al contrario, la trattazione dello Stagirita – per quanto svolta nel «libro più aporetico» della Politica, là dove troviamo forse anche i maggiori problemi di ricostruzione filologica – può a ragione essere considerata una vera e propria teoria politica della cittadinanza. Ad essa sarà pertanto dedicata l’attenzione principale in questo capitolo, allo scopo di enuclearne gli elementi costitutivi e la struttura, che corrispondono a ciò che mi propongo di presentare come ‘modello politico della cittadinanza’.
Un ulteriore, ma non indifferente motivo per ricostruire analiticamente la posizione aristotelica dipende dal fatto che gli studi dedicati specificamente alla cittadinanza in Aristotele sono di per sé rari. Essi sono per lo più di natura prettamente storica (come quelli qui citati ad esempio di Manville, Mossé, Pečnika, Barnes). Nei pochi studi che, invece, riservano al tema un’attenzione anche per la dimensione giuridica, mancano spesso ricostruzioni, sotto il profilo storico-filologico e filosofico, sufficientemente approfondite per cogliere appieno il testo (si vedano sul punto le analisi di Grosso, Crifò, e La Torre in Italia e più in genere Miller, Brooks, Murphy). Infine, gli approcci più specificamente filosofici, dal canto loro, sovente tralasciano le fattispecie giuridiche (si veda ad esempio Ross, Düring, Reale, Braun, Allan, Frede, Irwin, Morrison). Data quindi la scarsità oggettiva delle analisi ed il loro carattere non di rado frammentario, si è ritenuto fosse utile muovere nella direzione di una ricostruzione puntuale del testo.
Sottolineati questi motivi d’interesse, rimane da puntualizzare come la rivisitazione del testo del ‘maestro di color che sanno’ metterà in chiaro come non vi siano cittadini in ogni ‘luogo politico’, vale a dire in ogni regime ed in ogni ordinamento. Al contrario, è dato trovare il cittadino che svolge la sua specifica funzione, soltanto là dove la distinzione fra governanti e governati non è assoluta e permanente. Dalla lezione di un classico emerge, quindi, la dicotomia soggiacente al modello politico della cittadinanza. Mentre, nel modello giuridico il cittadino appare quale opposto dello straniero e nel modello sociologico, la dicotomia viene data dall’emarginato in opposizione al cittadino, qui, lo status della cittadinanza va opposto ad una figura assai in voga nella modernità ed in particolare fra i cultori del diritto internazionale, ossia, il suddito.
Da un lato, riflettendo sulla cittadinanza greca, Aristotele rappresenta, per così dire, la quintessenza di tale esperienza storica – grazie alla sua stessa caratteristica vocazione storiografica ed alla inclinazione per la sintesi, forse proprio perché visse alla fine del «periodo aureo della vita cittadina greca» –, dall’altro, ad uno sguardo più vigile, egli fornisce quella che potremo chiamare una vera e propria teoria (generale) della cittadinanza che sarà poi l’oggetto del nostro interesse nel capitolo conclusivo dello studio.
Seguendo il procedimento già maturato nell’insegnamento socratico e platonico, Aristotele avanza, innanzitutto, un’immagine, per così dire, in negativo del cittadino. Infatti, «noi cerchiamo il cittadino in senso assoluto, senza alcuna imperfezione», quella figura, cioè, di cui non si può rilevare nulla che esiga rettifica. La stilizzazione in negativo, tuttavia, non mira tanto a sgomberare il campo ‘frequentemente contestato’, quanto a chiarire il contesto in cui si inserisce la definizione della funzione del cittadino. Vengono così precisate alcune figure e caratteristiche che compaiono solitamente in connessione con la cittadinanza ma che non precisano, appunto, la sua essenzialità (ousia). La descrizione di quello che il cittadino non è risulta dalla confutazione della pertinenza di cinque criteri per individuare il concetto. Essi riguardano la naturalizzazione, la residenza, il ricorso al diritto privato, il vincolo di età e l’atimia, ovvero la perdita della cittadinanza a seguito di una condanna penale. Specificando per ognuno di questi criteri il motivo per cui essi non possono fungere da base per una corretta impostazione della questione, traspare come ad ogni criterio corrisponda, per così dire, una ‘controfigura’, più volte oggetto della successiva riflessione giuridica sulla cittadinanza.
Converrà pertanto analizzare queste controfigure con cui il modello giuridico, oggetto del capitolo terzo, avrebbe confuso i ‘veri’ cittadini della comunità politica, allo scopo di sgomberare il campo dal rischio di ripetere l’errore.
1.1 La naturalizzazione
La scienza giuridica moderna – come del resto appare ad uno sguardo anche rapido e superficiale ai testi di legge che hanno per oggetto la cittadinanza – insegna che, oltre che per nascita, lo status si acquisisce ‘per dichiarazione o concessione’. La naturalizzazione viene, in altri termini, pienamente accolta nell’impostazione dell’analisi dell’istituto giuridico moderno. In contrapposizione a un simile approccio, Aristotele chiarisce sin dalle prime battute della Politica, che nel mettere a fuoco in che cosa consiste la cittadinanza non si deve guardare a «quelli che ottengono siffatto titolo di cittadino in maniera speciale, come ad esempio chi è stato fatto cittadino» (1275a 5). Il punto di partenza è degno di nota perché si distanzia notevolmente dal modo in cui le analisi contemporanee in materia di cittadinanza si avvicinano al tema, prendendo avvio proprio dalle procedure di naturalizzazione, oltre che di acquisizione della cittadinanza per nascita, sul territorio o da genitori cittadini. Là dove la distinzione fra la naturalizzazione e quello che Aubonnet chiama «il modo normale [di acquisizione della cittadinanza] per nascita» non sfugge di certo al filosofo, diventa necessario chiarire i motivi per cui la naturalizzazione viene trascurata in questo contesto. Proprio perché, dal successivo studio aristotelico sulla giustificabilità dell’attribuzione del titolo alla cittadinanza, estesa per via di significativi cambiamenti costituzionali, traspare come il filosofo non ritenga affatto che le concessioni di cittadinanza diano di per sé luogo a ‘cittadini imperfetti’ (ateloi), preme specificare per quali motivi lo Stagirita escluda che le vie della naturalizzazione conducano alla piena comprensione della nozione di polites, dal momento che i criteri di attribuzione non esauriscono la sua analisi.
A questo proposito occorre, in primo luogo, ricordare che nella Atene del IV secolo a.C., il neopolites era escluso da alcune cariche: egli non poteva «accedere ad un’alta carica o al sacerdozio». Soltanto con la seconda generazione, i discendenti del neopolites, nati dal legittimo matrimonio con una cittadina ateniese, potevano esercitare tali funzioni. Questo punto viene peraltro ribadito da Apollodoro, il cui padre era diventato cittadino ateniese, nel plaidoyer attribuitogli da Demostene. Inoltre, è opportuno rammentare che, non di rado, la cittadinanza veniva concessa contemporaneamente alla prossenia, vale a dire il diritto per i cosiddetti ‘stranieri non residenti’ di trasferirsi e risiedere ad Atene. In questo modo, i due istituti, che sembrano fra di loro incompatibili, paiono nondimeno sovrapporsi. In che senso, ad esempio, potevano gli abitanti di Selinunte godere della prossenia ed essere allo stesso tempo cittadini di Atene, come riporta Senofonte nelle Elleniche?
La difficoltà, ad onor del vero, pare essere risolta dal fa...