La questione dell’identità
1. Una varietà di modelli interpretativi e strumenti concettuali
Nel capitolo precedente, abbiamo potuto constatare come all’emergere di una questione del nuovo ceto medio, nella prima metà del ventesimo secolo, abbiano fatto seguito rappresentazioni sociologiche sofferenti di un persistente problema definitorio, acuito dalla crescente differenziazione in seno alla struttura sociale, in particolare alla fascia intermedia. Le risposte agli interrogativi sui ceti medi, infatti, si erano rivelate complessivamente insoddisfacenti, per molti aspetti contrastanti. A partire dagli anni Settanta, quindi, molti studiosi hanno avvertito l’esigenza di sottoporre a un’opera di revisione sistematica l’apparato concettuale comunemente utilizzato per l’analisi delle classi e si sono dedicati alla messa a punto di modelli teorici che potessero essere tradotti in schemi per l’analisi empirica. Gli storici del pensiero sociologico sono soliti inscrivere questi autori in due grandi filoni di studi, a seconda che adottino più o meno esplicitamente una prospettiva marxista o weberiana. Alcuni, tuttavia, hanno sottolineato come una certa convergenza tra le due tradizioni teorico-analitiche si sia realizzata proprio in corrispondenza della nuova fase di riflessione sulle classi e che sia stata agevolata in qualche misura dalla ricollocazione della riflessione stessa in una dimensione più empirica (Goldthorpe 1972; Abercrombie e Urry 1983). Come avremo modo di verificare nei paragrafi successivi, alcune evidenti analogie, affatto casuali, possono essere rintracciate negli schemi elaborati da Wright e Goldthorpe. Gli stessi risultati di ricerca cui essi pervengono mostrano una convergenza del tutto inattesa nella direzione univoca della confutazione di alcuni assunti propri del marxismo ortodosso, tra cui la tesi della proletarizzazione dei ceti medi. Autori come Parkin e Giddens, d’altra parte, pagano un debito evidente nei confronti della teoria marxista.
Uno degli aspetti su cui i percorsi analitici divergono maggiormente è quello della identità dei ceti medi. I neomarxisti, come Wright, pongono il problema in termini di coscienza di classe e mantengono l’analisi sul terreno dei rapporti di produzione o, in un’accezione più ampia, dei rapporti di sfruttamento, ma pur sempre entro i confini tipici dell’impresa industriale. I neoweberiani, come Giddens e Goldthorpe, introducono nuovi concetti, quali quelli di consapevolezza di classe e identità demografica, che consentono di cogliere meglio la specificità dei ceti medi, e allargano la prospettiva di analisi alle situazioni di mercato e di status, portando infine l’attenzione sui fenomeni di mobilità sociale.
Tanto i neomarxisti quanto i neoweberiani mostrano peraltro una certa difficoltà a liberarsi dalle costrizioni dello strutturalismo. Le conclusioni cui essi giungono riguardo alle possibilità di sviluppo di un’identità di classe e alle opportunità di mobilità sociale sembrano avvolte infatti da un alone di determinismo quasi dogmatico, laddove individuano un rapporto di causalità, per così dire, ‘meccanica’ tra struttura, identità e pratiche di classe.
A Bourdieu si deve il tentativo a oggi più riuscito di superamento dello stallo strutturalista che affliggeva gli approcci tradizionali. In particolare, con il concetto di habitus di classe egli porta alla luce il rapporto mediato di interdipendenza tra strutture e pratiche. Bourdieu riesce quindi meglio di chiunque altro a cogliere la natura di per sé assai sfuggente dell’identità di classe e, facendo riferimento a essa, a spiegare la genesi delle pratiche e la riproduzione delle strutture.
In questo capitolo, cercheremo di rendere conto della varietà di modelli interpretativi e della diversa efficacia degli strumenti concettuali utilizzati per inquadrare il tema dell’identità di classe, così come sono stati applicati nell’analisi dei ceti medi. Soprattutto, cercheremo di capire se attraverso di essi sia possibile fare un po’ di luce sul nesso tra classi sociali e mutamento e, in modo specifico, sul ruolo svolto dai ceti medi nell’ambito dei processi di cambiamento. Nella parte conclusiva, offriremo un confronto di sintesi in chiave critica dei vari schemi analitici, con l’intento di mostrare come la pluralità di approcci sia in realtà funzionale alla comprensione di quello che si presenta come un fenomeno dalle molte sfaccettature. Faremo quindi un accenno a un lavoro a cura di Butler e Savage, quale esempio di ricerca sui ceti medi a partire da una combinazione di approcci e temi diversi, con l’obiettivo di coglierne le peculiarità metodologiche e le principali implicazioni empiriche.
2. Ancora su ceti medi, coscienza di classe e proletarizzazione
Tra gli approcci all’analisi delle classi che dedicano maggiore attenzione ai ceti medi vi sono quelli che fanno riferimento alla teoria marxista. Ciò non deve sorprendere. L’emergere e il rapido svilupparsi di un nuovo ceto medio nel periodo che va dal 1870 al 1940, cui sopravvive nondimeno un ceto medio tradizionale di dimensioni comunque significative, infatti, è un fenomeno che non può trovare una spiegazione adeguata nell’ambito del marxismo ortodosso, il quale poggia su una visione tipicamente dicotomica della società. Pertanto, per gli studiosi che, a partire dagli ...