L'anno delle tredici lune
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L'anno delle tredici lune

13 racconti per 13 lune

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L'anno delle tredici lune

13 racconti per 13 lune

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Informazioni sul libro

Secondo alcuni interpreti dei vaticini di Nostradamus, l'anno 2007 sarebbe anno d'inizio dell'annunciata Fine della civiltà tecnologica e occidentale. La fine dell'Età dell'Oro. Il 2007 è anche l'anno, astronomicamente parlando, delle "tredici" lunenuove. Un racconto per ognuna delle lunenuove del 2007, questa raccolta di 13 racconti narra di amori, viaggi, emozioni.

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Informazioni

Editore
Zerobook
Anno
2015
ISBN
9788867110193

Luna Piena dei Raccolti

 
26 settembre: Luna Piena dei Raccolti
E' dedicata a tutti i tipi i frutti e cereali la cui raccolta cade nei dintorni dell'Equinozio di Autunno. Forse perché, in questa circostanza, il duro lavoro dell'uomo nei campi era massicciamente coadiuvato dalle donne, la prima lunazione autunnale prende anche il nome di Luna Piena delle Donne.
La casa con il fiato corto...

La casa postuma

Ma le case, le case uno le abita nella notte. Le altre, quelle che uno ci passa di giorno in visita oppure di striscio nella casualità delle circostanze, quelle non sono case e le notti passano senza che uno neppure se ne accorga. Le notti che invece uno passa nella casa che è casa, quelle non me li dimentico. Io ho sempre provato una forma di apprensione e stupore per quelli che hanno vissuto sempre nella stessa casa, che vantano di non essersi mai mossi. Fermi. Impietriti in una forma di abbandono o indolenza. La mia invece è sempre stata un'esperienza di fuga, di impossibilità a stare fermo e a sentire davvero mio un posto.
E ora che ti parlo delle case in cui sono stato mi accorgo di dire molto di più di me di quanto non abbia mai fatto in tutti questi anni, in forza e in verità. Attraverso le pareti delle case che ho abitato riesco a ritrovare me stesso. Una forma terapeutica, se vuoi, che mi impedisce finalmente di mentire. Mi accorgo di non avere fatto altro fino ad ora, la pulsione a allontanarmi, di allontanare me da me stesso per una forma di ribrezzo o di paura - quella di sempre, di vedere se stessi in faccia e provare vergogna e ribrezzo.
Scopri che le case si possono amare o odiare, di una casa se ne può avere paura. Per le cose che di te scoprono, i pensieri nelle cui stanze annidano. La casa bella - quella dalle cui finestre vedevo mutare il colore del cielo sui tetti delle altre case. La casa senza odore, la sfida che quella casa opponeva a ogni mio tentativo di abitarla, respingendo i miei odori per restituirmene altri, di suoi, incancellabili.
Ci sono momenti della notte in cui mi sveglio, scendo dal letto. Il pavimento freddo contro il piede brucia. Non accendo la luce. Mi ostino a voler vedere attraverso ciò che le finestre lasciano penetrare da fuori. Qualche rumore notturno, ombre che si muovono. Le nostre città sono città che di notte si illuminano, allontanano da sé il cielo che incombe. Le lampade appese ai fili, sospese sulle strade, dondolano le proprie ombre dirigendo fasci di luce inopportuna nelle direzioni più casuali e inutili. Sul soffitto il disegno della persiana nel gioco di luci e di ombre. Io attraverso le stanze, cammino per il corridoio. Procedo a tentoni, cieco, alla ricerca di ostacoli che dovrei conoscere e che invece spuntano inaspettati, troppo vicini o troppo grandi. Le mie mete notturne sono il bagno e il frigo. Mi accorgo che si tratta di alibi: i bisogni del corpo e della sete, in realtà più forte di tutti è il mio bisogno di conoscere la casa nella sua realtà notturna, nella sua esistenza più vera. E' in quel momento che la casa smette di essere attraversata dagli umani e dal giorno, nella solitudine si placa, si rende disponibile alla visita. Una questione di reciproca conoscenza. Io senza più le difese dei vestiti e delle scarpe, la casa nella sua intima cadenza notturna.
E' per una questione di verità che sto camminando lungo il corridoio. Mi appoggio con la punta del dito a una parete, fredda, la polvere del calcinaccio. Anche gli odori, di notte, fanno della casa una casa diversa. Avvolta su stessa, come un gatto accovacciato su una sedia. Con le orecchie allarmate, si lascia accarezzare senza allontanarsi. Per un gesto supremo di fiducia vigile e libera. La concessione della casa-gatto.
Mi piace pensare a questa linea di demarcazione, tra le case da me vissute da bambino e quelle che ho attraversato da adolescente e adulto. Sono linee di demarcazione postume, che resistono finché la memoria finge di ricordare in un modo piuttosto che in un altro. Sicurezze postume, confortanti, in cui si ricercano significati e segni.
In questa linea di demarcazione, le case che stavano all'ultimo piano stanno da una parte e le case rinserrate tra un appartamento e un altro di estranei dall'altra. Le prime hanno il cielo sopra, che basta alzare la testa per vederne i colori e la cupola celestissima distendersi a semicerchio nell'aria. Le seconde hanno invece spizzichi di cielo, fettine di realtà, come le feritoie tra una sbarra e l'altra di ferro di un carcere, la felicità di godere briciole di luce.
In realtà parto da un'ipotesi. Di non aver mai avuto o non avere più preferenze. Che ogni casa in cui sono stato è stata una cosa a sé, una storia a parte. Impossibili le comparazioni e i giudizi di valore. La tentazione di fare del passato un'unica condensa di pioggia, della propria vita un indistinto di accadimenti tutti uguali.
Così non è.
E' l'ipotesi ad essere sbagliata.
Ogni volta che entro in un appartamento che è stato svuotato, mi accorgo di sentire subito il fiato corto. Una stretta dello stomaco, sento i miei piedi calpestare un terreno che non avrei diritto a calpestare. Mi aggiro tra le stanze vuote sentendo di stare profanando delle vite, un'intimità che non avrei alcun diritto a violare. Imbarazzato, cerco di compiere la mia perlustrazione il più presto possibile, mi sento inseguito da quella sensazione, quando mi ritrovo fuori dall'appartamento, nelle scale, tiro un respiro di sollievo e mi asciugo il sudore dal collo.
Raramente capita di vedere la casa che si abiterà, ammobiliata e vissuta. Dopo, la fatica è ancora più grossa, quella di far diventare quella casa più compitamente la tua casa, adattandotela addosso come una camicia o una giacca troppo stretta o troppo larga. Ma anche quando l'appartamento che vedi risulta svuotato, le stanze dolorosamente vuote, sonoramente rimbombanti, non può mai essere vuoto abbastanza. Rimangono sempre dei residui. Dei fili che ti congiungono inesorabilmente al prima che non hai vissuto. Alcuni fili possono essere recisi, altri rimangono - per pigrizia oppure per una forma di rispetto e di continuità che il nuovo inquilino concede alla casa e a chi li ha preceduti.
Se mai capita di tornare in un appartamento che hai vissuto, ora occupato da estranei, può accadere che per una forma di cortesia i nuovi occupanti ti indichino quei brandelli residui, quasi orgogliosi di aver lasciato intatto qualcosa che tu - dicono - avevi lasciato. Ma che ora non riconosci più. Annuisci alla loro gentilezza, non te la senti di dire di non ricordare, di non riconoscere più nulla di quel brandello di vita che ti attribuiscono. Non si può ammettere ciò che per loro sembrerebbe un torto. Dentro, ti senti offeso persino, che qualcun altro possa pretendere di agguantare qualcosa di te, pretendere di attribuirti qualcosa che non è tuo e che sarebbe ridicolo persino attribuirti tanto quella cosa è minimale e fuorviante - rispetto alla tua vita, rispetto alle cose che eri in quella casa… Già, ma chi eri tu lì, che ci facevi tu lì e cosa ci fai ora tu qui…?
Una casa diventa tua quando non ne senti più l'odore. L'olfatto si è abituato alla casa, la tua casa "ti sente" con il tuo naso. Per recuperare la tua identità - che la tua nuova casa tenta in tutti i modi di cancellare -, devi fare un salto all'indietro, fuori. Devi trascorrere del tempo fuori casa. Quando riapri la porta di casa, solo allora e solo dopo aver passato il tuo purgatorio fuori casa per un tempo sufficientemente lungo, puoi sentire gli odori veri della tua casa. Sentire te stesso così come gli altri ti sentono, ti annusano. Solo in questo modo è possibile intuire le trasformazioni che una casa compie su di te.
Ecco, entro ed esco da una casa all'altra, tessendo questo filo facendolo passare con fatica attraverso nodi e anse, senza quasi accorgermene un modo come un altro per ricostruire una trama da una cosa che solo dopo la sbornia possiamo chiamare vissuto e che altrimenti avrebbe il senso di una boa che galleggia trasportata dalle correnti. Ritrovo in questi passaggi ciò che ho visto e ho conosciuto, un po' di quella realtà che altrimenti la memoria si rifiuta di riconsiderare. Forme pericolose di verità. Sì', la sfida è proprio questa, l'unica sfida che vale davvero.
In questa ricostruzione postuma, le mie riconsiderazioni da sopravvissuto, i nomi delle strade - dedicate a ricordare eroi laici e religiosi, la stratificazione che siamo di sacro e di profano, le nostre sempre ambigue aspirazioni - si accavallano: formano un tortuoso avvicendarsi, la mappa di una città che prende brandelli di città diverse e tempi diversi per farne un'unica città dell'interiorità, un quartiere residenziale e dormitorio, un'unica casa fatta di centinaia di stanze e decine di corridoi. Guardo all'interno di questa cittadella, ne scopro le pietre e i ricordi. Mi ritrovo ancora più spesso con brandelli di cui non mi ricordo, tessere che non riescono a inserirsi da nessuna parte, che non sono neppure sicuro che mi appartengano. Mi piacerebbe fermarmi in una delle tante case che ho vissuto, ma non posso. E so che non morirò in una di queste case ma fuori, all'aperto, sotto il cielo. So che abbandonerò presto questa cittadella postuma, per riprendere la mia strada fuori da questa città, fuori da questa casa.

Santa Croce

A Santa Croce c'erano i gatti.
Placidi, grassi e, soprattutto, numerosi. Stavano in branco, accovacciati nel cortile interno dello stabile. Il cortile era un imbuto, nero di fuliggine, senza nessuna macchia di verde ma solo superfici - sporche - di pavimento e intonaco. Almeno, così mi pareva a me bambino. Quando mi capiterà di essere trasportato in un'altra casa, in altre terre, quei gatti mi mancheranno. Per molti anni non vedrò nessun gatto nella nuova terra dove i miei mi fecero emigrare. Quei rarissimi che individuavo da lontano, erano magri, lo sguardo terrorizzato e braccato. Niente a che fare con la sicurezza padrona e regale dei gatti di Santa Croce. I gatti di Santa Croce potevano contare su una moltitudine di fedeli sudditi umani che li nutrivano e pascevano. Loro, non dovevano neppure muoversi. Aspettavano. Rare volte li sentivo miagolare. Non avevano bisogno di chiedere.
La casa di Santa Croce non apparteneva ai miei genitori, era la casa dei miei nonni. Quella casa, ho sempre sentito, apparteneva a me più di qualsiasi altra casa o cosa che avessi posseduto. Intimamente dentro di me. E' attraverso le sensazioni dell'infanzia che si scopre che la realtà non è solo quella parvenza di realtà che ci vai a sbattere e ti ci rompi il naso, ma è anche quella ferita che ti rimane aperta e che - banalmente - nessuno mai potrà risanarti dentro.
Mi accorgo finora - in ciò che ho pensato e scritto fino ad adesso, negli anni passati e in questi minuti - di non aver fatto altro che girare attorno a questo capitolo della mia vita. In realtà, era questo quello che volevo fin dall'inizio, parlare di Santa Croce. E tutto ciò che finora ho scritto e più spesso cancellato, non è stato che un unico filo, un riferimento continuo a questo. Il motivo del mio continuo cancellare, l'insoddisfazione per la frase e l'espressione, la parola precisa e curata, facevano riferimento a questo. Un nodo irrisolto, lento a stringersi e tuttavia sempre più stretto e pronto a emergere tra un dente e l'altro del pettine.
La casa dei miei nonni a Santa Croce era all'ultimo piano. Le scale erano ampie, antiche, di marmo bianchissimo e consumate dagli anni - il travertino romano che quando viene dilavato a striglia assume una fosforescenza porosa e lattiginosa. Arrivare fino in cima alla scala era un'impresa. Mi aggrappavo alla ringhiera - in ferro, con il poggiamani in legno scuro - per sentire meno la fatica arrampicandomi. In quel momento ero un alpinista, mi tiravo su alle corde scalando l'ultima cima, superando ostacoli e valanghe improvvise che mettevano a repentaglio tutta la cordata. Contavo i pianerottoli. Due, tre, quattro... Su ogni pianerottolo stavano quattro portoncini di legno scuro. Le cromature dorate dei campanelli. Le targhette, anch'esse dorate, a pretendere signorile eleganza e aristocratico distacco. Giungevo in cima senza fiato. Passavano diversi minuti prima che rinormalizzassi fiato e battito del cuore. Sapevo tuttavia che, una volta in cima, richiuso alle spalle il portone di casa, sarei stato al sicuro. Dai miei.
La casa di Santa Croce era anche la casa dell'orologio. Un orologio da parete, con la carica a molla. Ogni settimana si doveva prendere la chiave e girare i tre perni corrispondenti alle tre molle che regolavano i movimenti delle lancette, e soprattutto la soneria. L'orologio, meraviglia delle meraviglie per me bambino, suonava: segnava i quarti, le mezz'ore, e le ore - queste ultime scandendo rintocco per rintocco ogni singola ora. Se erano le sette, suonava sette colpi. A mezzogiorno e a mezzanotte raggiungeva il massimo, suonando ben dodici colpi. La soneria - lo avrei scoperto solo anni più tardi - riproduceva i rintocchi del Big Bang inglese. Estranei e conoscenti che venivano la prima volta a casa dei miei nonni, sentendo il rintocco dell'orologio, chiedevano immancabilmente come facessimo a sopportare tutto quel rumore. In verità noi non lo sentivamo più, abituato l'orecchio al rumore e solo prestando voluta attenzione discernevamo i suoni informandoci, nella stanza attigua, sull'orario senza dover andare fino all'orologio apposta.
Ogni volta che tornavo a casa dei miei nonni, l'accoglienza immancabile dell'orologio completava il rito dell'accoglienza nella nostra casa romana.
Addetto alla carica dell'orologio era mio nonno. Ogni settimana prendeva la chiave dell'orologio che custodiva in alto, sulla cassa dell'orologio appeso alla parete a una distanza per me siderale, apriva lo sportello in vetro della cassa, iniziava a caricare le molle facendo un rumore rumorosissimo e ritmico. Allora lui faceva ancora l'insegnante di matematica - solo nella mia adolescenza divenne preside. Io bambino, guardavo le sue abitudini sempre con curiosità e timore. Quando si faceva la barba con il pennello e la vaschetta di sapone - quando d'estate sorbiva il caffè nel bicchiere con il ghiaccio - quando si prendeva le pasticche piccolissime di saccarina al posto dello zucchero a causa del diabete - la scatolina di latta sagomata con la polverina finissima e bianca della magnesia San Pellegrino tenuta sul comodino della camera da letto - quando con le forbici si curava i baffi e si tagliava i peli lunghi e spessi del naso ("Hai i peli del naso lunghi" "Sei gentile a farmelo notare" "Figurati, sono un bambino: è il mio mestiere...": il dialogo di un film, di una trentina d'anni dopo). Mi capiterà, ventenne, di ritrovare in supermercato la vaschetta saponata e il pennellone da barba, di acquistarlo per ritrovare, attraverso l'uso su di me, quell'antica visione. Con batticuore, dopo averla vista sparire del tutto dal commercio, ritrovare le forme della magnesia San Pellegrino in una scatola di cartoncino - nei mutamenti del consumo, la produzione delle scatole di latta giudicata anti-economica e sostituita con contenitori più economici. Mentre le pastiglie di saccarina, quelle continuare a pigliarle appena possibile: di nascosto allora, e dalle tavole delle signore afflitte dai problemi della dieta (l'aspartame al posto della saccarina ma nell'identica microbica dimensione).
Quando fui poco più grande, mio nonno mi prendeva di peso e mi faceva avvicinare all'orologio dopo aver aperto lo sportello. Allora toccava a me prendere la chiave, infilarla maldestramente nel perno relativo e cercare di girare facendo forza con tutti i muscoli delle mie manine. Senza grandi risultati se non quello di farmi diventare le mani rosse e doloranti. Allora lui mi ricollocava a terra, ai suoi piedi, e in un batter d'occhio terminava il lavoro che non ero stato in grado di fare. Allora l'orologio della casa di Santa Croce costituiva per me uno degli oggetti più meravigliosi che al mondo potessero esistere.
Anche la nonna aveva i suoi riti. Uno di questi consisteva nella raccolta dei fiori bianchi del gelsomino che una pianta posta nel terrazzino fuori faceva fiorire giornalmente. La mattina, appena sveglia, raccoglieva questi fiori e li poneva davanti alla foto di un bambino neonato, grassottello e con gli occhietti chiusi, incapsulato in una gran cuffia bianca. Il bambino, mi spiegava periodicamente tutte le volte che gliene chiedevo, era un suo figlio primogenito, nato e poi subito morto a causa di una malattia. Nella mia mente mi formulavo la realtà di questo fratello di mia madre, più grande di lei ma rimasto neonato. Mi formulavo un'idea di morte da bambini. Quando ero a Roma, finivo presto per svegliarmi il più presto possibile la mattina, per poter avere più tempo a giocare ma soprattutto per essere io il primo a raccogliere i fiori di gelsomino e porli davanti alla foto di quel neonato morto così giovane. La camera di mia nonna era sempre tenuta al buio, assorta nell'odore acuto del gelsomino.
Territorio quasi esclusivo di mia nonna era la cucina. Non era una cucina molto grande, piuttosto stretta, a formare una "L". La porta d'ingresso era in cima alla lettera, subito sulla destra era il frigo. Si trattava di un grande frigo, bombato ...

Indice dei contenuti

  1. Indice generale
  2. Luna piena del lupo
  3. Luna Piena della Neve
  4. Luna Piena dei Lombrichi
  5. La Luna Piena della Rosa
  6. Luna Piena del Granturco
  7. Luna Piena delle Fragole
  8. Luna Piena Blu
  9. Luna Piena del Fieno
  10. Luna Piena Rossa
  11. Luna Piena dei Raccolti
  12. Luna Piena del Cacciatore
  13. Luna Piena delle Gelate
  14. Luna Piena della Lunga Notte
  15. Nota di edizione