Film da Sfogliare (ePub)
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Film da sfogliare. Dalla pagina allo schermo, l'ultimo volume uscito nella collana dei "Quaderni del Laboratorio di Editoria" (a cura di V. La Mendola e M. Villano, con note di Roberto Cicala, Roberto Della Torre e Alessandro Zaccuri), svela i retroscena e le curiosità del percorso – a volte difficile, altre volte divertente – che ha portato molti capolavori della letteratura italiana e di quella straniera a diventare pellicole cinematografiche. «Quante volte sentiamo dire che il libro è migliore del film?», recita la quarta di copertina, e in effetti accade spesso che il lettore appassionato esca dal cinema deluso o addirittura arrabbiato per non aver trovato nel film tutto quello che la sua fantasia aveva prodotto durante la lettura del romanzo preferito. Ma «la trama non è tutto», avverte Alessandro Zaccuri, che ha firmato la nota introduttiva al volume: la strada che porta un libro a diventare film è spesso sconosciuta; si tratta di un percorso che a volte vede collaborare fianco a fianco regista e autore (come nel caso di Non ti muovere della Mazzantini o della Solitudine dei numeri primi di Giordano), altre volte invece esclude la voce dell'autore, che soffre a vedere la sua storia stravolta e i suoi personaggi snaturati, come è successo alla Travers con Mary Poppins. Un percorso, tuttavia, che spesso, allontanandosi dalla pagina scritta, approda a un risultato diverso e inaspettato: una nuova opera d'arte.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788867801503

Film da sfogliare

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La tragedia della modernità
Medea di Euripide

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Medea, una delle più importanti tragedie di Euripide, fu messa in scena ad Atene intorno al 431 a.C. Numerosissime sono le edizioni di questo classico nei secoli: non manca ad esempio nel catalogo di Aldo Manuzio, che nel 1503 la include nell’edizione in due volumi che raccoglie tutte le tragedie di Euripide, in greco, senza traduzione a fronte. Anche le edizioni novecentesche sono molte e in particolare nel biennio 1969-1970, per influenza dell’uscita del film di Pasolini, assistiamo a un proliferare di pubblicazioni. Così, per citare le più note, Loescher dà alla stampa Medea all’interno della collana “Collezione di classici greci e latini” nel 1969 e nello stesso anno anche Le Monnier, nella “Nuova biblioteca dei classici greci e latini”, riserva un’edizione alla tragedia. La trama è nota: abbandonata la casa paterna, Medea aiuta Giasone e gli Argonauti a rubare il vello d’oro; si ritrova così a Corinto insieme al marito, dal quale ha due figli. Giasone però lascia il letto coniugale dopo pochi anni per sposare la principessa Glauce; da quel momento Medea vive nel dolore e nel desiderio di vendetta e, temendo per le sorti della figlia, il re le intima di lasciare la città. Fingendosi rassegnata alla propria sorte e al nuovo matrimonio di Giasone, gli offre doni per la sua futura sposa, in segno di pace; doni che, una volta indossati, le procurano una morte violenta e istantanea. L’apice della tragedia viene raggiunto quando Medea uccide i suoi due figli avuti da Giasone.
(Jessica Barcella)
La Medea di Pier Paolo Pasolini si pone come trasfigurazione del mito classico di Euripide. Prodotto nel 1969, oltre a una regia d’autore, il film vanta un cast d’eccellenza, che ha come punta di diamante l’ambitissima Maria Callas nel ruolo di protagonista. Questa partecipazione viene considerata dai media un evento straordinario, visto che la cantante lirica, che più volte sul palco aveva interpretato quel ruolo, aveva già rifiutato diverse offerte per una trasposizione cinematografica del personaggio. Ma tra lei e Pasolini era nata un’amicizia e un’intesa così profonda da non permetterle di rifiutare l’offerta. Il regista stesso parla della scelta della Callas, nel corso di un’intervista con il giornalista Jean Duflot, descrivendola come una specie di visione e aggiungendo: «delle volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l’attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata lei, e quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione della Callas». Sulla “Stampa” del 24 gennaio 1970 il giornalista Giuseppe Gentile scrive: «Maria Callas, nuova al cinema, sembra esservi cresciuta: a tal punto il suo magistero di tragediante lirica e l’amore della scena succhiato col latte nella terra che della scena fu culla, hanno trovato in questa sua mirabile Medea, […] un esito artisticamente felice».
Un confronto tra il testo della tragedia e il film non è certo facile, visto il lavoro di arricchimento apportato da Pasolini sia dal punto di vista dell’interpretazione sia da quello propriamente inerente la trama. Oltre all’espediente cinematografico della citazione del testo tragico soprattutto all’interno di sequenze oniriche, notiamo infatti che l’antefatto della tragedia occupa i primi rulli di pellicola. Un bellissimo affresco degli usi e costumi della Colchide, terra d’origine di Medea, che ci riporta a una cultura arcaica, primitiva e caratterizzata da uno stretto legame con il mondo religioso. In questo filone si inserisce lo scarto di significato più evidente tra la tragedia e la trasposizione cinematografica. Le stesse parole di Pasolini, rilasciate durante la già citata intervista di Duflot, ci danno la chiave di lettura di tutta l’opera: «Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello “spirito”, fa scattare una tragedia spaventosa». Figura paradigmatica della distanza che si crea tra i due è il Centauro, personaggio mitologico caratterizzato da una forte sacralità, che manca nella tragedia e viene aggiunto da Pasolini. Egli all’inizio dice: «Tutto è sacro, tutto è sacro! […] In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un Dio». Successivamente evolve in un maestro della modernità e appare a Giasone poco prima del matrimonio con Glauce, umana e di centauro. Ultimo atto di Medea è l’uccisione dei figli, sacrificio volto a completare la vendetta contro Giasone e letto anch’esso come un ritorno a un rito sacrale primordiale.
All’inserimento del Centauro corrisponde di contro la scelta di Pasolini di eliminare la figura di Egeo, che nella tragedia è il solo a offrire a Medea una possibilità di salvezza. Il regista ha forse voluto rendere più radicale il suo giudizio riscrivendo la tragedia, credendo preclusa ogni via di salvezza o la possibilità di perdono per un gesto di tale portata.
La scena finale, dove si ha l’epilogo e la soluzione del conflitto tra Giasone e Medea, è interpretata da Pasolini in modo molto particolare. Come nel testo, anche nel film si nota subito come sia l’unico punto in cui i due protagonisti si parlano in modo diretto e sincero. Il fuoco però, ostacolo che si frappone tra loro, è una spia simbolica della reinterpretazione del regista rispetto all’originale: mentre nella tragedia si ha il carro di fuoco da cui Medea parla a Giasone, nel film le fiamme sono quelle che si levano dalla casa in cui giacciono i due figli sacrificati, differenza che pare sottendere una diversa interpretazione dell’elemento.
Molte sono insomma le sfumature e le discrepanze rispetto al testo euripideo, ma ciò non impedisce di apprezzare un capolavoro cinematografico che va gustato scena per scena. Calzante il giudizio di Dario Zanelli sul “Resto del Carlino” del 25 gennaio 1970: «È soprattutto un’opera di grande fulgore figurativo, che rapisce e incanta per la raffinata sensibilità con cui sa intonare le luci, i colori, la composizione delle inquadrature al clima della tragedia […], per l’esotico fascino delle sue musiche orientali […], e ancor più l’arcana, remota struggente bellezza dei suoi paesaggi».

qualcosa di arcaico e modernissimo al tempo stesso
Satyricon di Petronio Arbitro

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Il Satyricon è l’unica testimonianza letteraria dell’arbiter elegantiae Petronio, personaggio descritto da Tacito negli Annales (XVI, 18-19) e vissuto alla corte dell’imperatore Nerone, la cui ricostruzione biografica però è uno dei casi più discussi della letteratura latina. Ciò che oggi è universalmente conosciuto con tale titolo è soltanto la minima parte di quello che era l’originale. Isidoro di Siviglia attesta che l’opera è circolata integra fino almeno al VII secolo, per essere poi frammentata nel Medioevo a causa del suo contenuto giudicato immorale dai copisti. Durante l’Umanesimo Poggio Bracciolini è l’artefice della riscoperta e riabilitazione del Satyricon nella versione giunta fino a noi. In Italia prima degli anni settanta molte case editrici hanno inserito il titolo nel loro catalogo: tra esse, Formiggini, Sonzogno, Garzanti, Utet, Rizzoli, Zanichelli, Einaudi, Mursia, Feltrinelli. Una delle edizioni più interessanti è senz’altro quella licenziata nel settembre 1969 da Mondadori nella collana “Scrittori italiani e stranieri” in formato 14x21 cm, che riporta in sovraccoperta un collage di Bruno Binosi che rappresenta una maschera cinta da una corona d’alloro. Il curatore, Piero Chiara, letterato autodidatta ma sicura presenza nel panorama italiano già dagli anni sessanta, legge la traduzione del suo collaboratore Federico Roncoroni e a libro chiuso tenta di raccontarla nuovamente alla sua segretaria che batte il testo, con lo scopo di rendere l’opera leggibile come un romanzo di oggi, segnata da una continuità narrativa indispensabile per raggiungere un pubblico ampio e non esclusivamente d’élite.
(Nicole Mandelli)
Federico Fellini racconta di aver letto per la prima volta l’opera di Petronio in convalescenza a seguito di un’operazione chirurgica e di essere stato colpito non tanto dalla storia in sé, quanto piuttosto dagli innumerevoli punti di sospensione a indicare le lacune del testo. Come scrive Stenio Solinas, nasce d’un tratto l’ispirazione del «genio provinciale che intuì la decadenza italiana» come «un’immensa galassia onirica calata nell’oscurità che è arrivata fluttuando scintillante».
La trama che si dipana da questo canovaccio ha come protagonisti Encolpio (Martin Potter) e Ascilto (Hiram Keller), due giovani parassiti che vivono di espedienti nella Roma di Nerone, decadente e volgare, dominata dalle nuove classi sociali. I due si contendono le attenzioni di un efebo, Gitone (Max Born), il quale, passato dalle mani di entrambi, sceglie il secondo. Rimasto solo, Encolpio passa di avventura in avventura, da un terremoto al suntuoso banchetto del celebre Trimalcione (Mario Romagnoli, anche se il primo a essere chiamato per questo ruolo è Bud Spencer, il quale però rifiuta la parte, perché sarebbe dovuto comparire nudo), fino ad arrivare alla nave del pirata Lica (Alain Cuny) al servizio dell’imperatore, dove di nuovo si ricongiunge con Ascilto.
Il regista non si attiene alla veridicità storica della rappresentazione dell’epoca classica e, mantenendo solo la trama di Petronio, aggiunge immagini e vicende nate dalla sua vibrante immaginazione in una continua contaminazione tra antico, moderno ed etnico. Tuttavia, se da un lato non vuole realizzare un film storico, è estremamente rigoroso sul versante linguistico tanto da avvalersi delle consulenze di alcuni dei principali latinisti contemporanei, come Santo Mazzarino, Ettore Paratore e Luca Canali. Per la sceneggiatura la fonte principale è il libro La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero (1939) di Jérôme Carcopino. Se il film La dolce vita è l’immagine-simbolo degli anni del miracolo economico, il Fellini-Satyricon si configura allegoricamente come il lato più oscuro di questo sogno infranto. Questa vecchia-nuova Roma ha un’impalcatura fatta di enormi architetture, coloratissime e surreali, tra le quali si muovono personaggi che indossano costumi quasi assolutamente astorici e bizantineggianti. Tutte le scene sono accompagnate da un sibilo continuo di vento, che evoca un senso di desolazione, e da profondi spazi vuoti: un fascino decadente, ricolmo di morte. Come ha scritto Morandini, infatti, l’opera felliniana «nella sua struttura di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di rapporto fanta-storico sulla Roma imperiale al tramonto […] non nasconde le sue ambizioni di essere un film sull’oggi».
La notizia di un film ricavato da un testo latino ha fatto scalpore in quegli anni e, come ricorda Federico Roncoroni, «si sparse la voce che Fellini stesse preparando un film. Ovviamente le case editrici si gettarono sull’evento». Con lo scopo di cavalcare l’onda del successo dell’imminente pellicola, di lì a un anno Einaudi pubblica una ristampa, Mursia e Zanichelli propongono due traduzioni filologiche, ma «il frutto migliore di quella breve stagione», a detta di Raffaele De Berti, è senz’altro il progetto di Mondadori curato da Piero Chiara. La scommessa di quest’ultimo è quella di riuscire a superare le 500 copie che solitamente vendono i classici a causa delle traduzioni illeggibili, dando al romanzo una veste moderna e spontanea: un’operazione letteraria, non solo editoriale, che raggiunge un risultato senza sperimentalismi ma più scorrevole della media di altre traduzioni. Il carattere principale che si evince dalla consultazione del carteggio tra gli editori e il curatore – studiato da De Berti – è la necessità di una concomitanza temporale con l’uscita del film e la volontà di giocare in anticipo su quest’ultimo: «una questione da tenere vivamente presente se vogliamo c...

Indice dei contenuti

  1. Sommario
  2. Testi introduttivi
  3. Premessa
  4. Film da sfogliare
  5. Appendice iconografica
  6. Bibliografia e filmografia