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MUSICA E ASCOLTO
Controstoria dell’ascolto e degli strumenti musicali
Cosa, quando, perché, come
Di cosa si parla quando si parla di musica? È una domanda che la filosofia o l’estetica musicale si pongono raramente al giorno d’oggi: nei rari libri sull’argomento oggi però dobbiamo riflettere su come emergano a volte nuove urgenze a proposito dell’ontologia del suono (perché facciamo musica? e come?), in rapporto tanto alle dinamiche dell’ascolto quanto alla costituzione della prassi musicale. Partiamo da due DVD che indirettamente intervengono sul tema, più efficacemente di molti trattatelli: tra le infinite opere che quotidianamente l’industria culturale sforna, queste hanno il merito di porre la questione affrontando la musica nella sua interezza comunicativa, con una sorta di visione/ascolto che può assumere valenze sociologiche. Il primo, Chris Cunningham, presenta per la prima volta al pubblico mediologico una lettura trasversale del video-clip: non è il musicista (e nemmeno il programma televisivo o l’evento concertistico) ad attirare l’attenzione, ma il regista (The work od Director, come dice il sottotitolo), ossia il creatore dei filmati, l’artigiano e talvolta l’esteta delle immagini. Nell’altro DVD, Tribalistas, il contenuto dell’omonimo CD del trio Antunes-Brown-Monte viene visualizzato, con una ripresa realistico-documentaria, anche se sappiamo che si tratta pur sempre di una messinscena altamente formalizzata: ma la visione collegata all’ascolto ci permette di avvallare l’ipotesi, alla Marshall McLuhan, che la più sofisticata delle tecnologie attuali ci restituisce un’immagine tribale della musica stessa: la quasi omonimia col trio non c’entra, perché mcluhanianamente la tribalità contemporanea fa riferimento a quando, in epoca preistorica, il fatto sonoro era precipuamente un fenomeno magico plurisensoriale, nel senso del rito collettivo, dove suono, visione, gesto, danza erano un tutt’uno.
Suoni primordiali
Non ci è dato sapere com’erano i suoni primordiali né ci interessa qui confrontare le mitologie cosmogoniche, alla Marius Schneider, con la verità acquisita in campo archeo-filologico. In una prospettiva culturale che il sociologo Theodor W. Adorno ha applicato alla musica, unendo un pragmatismo illuminista alla marxiana dialettica storica, scopriamo invece come il mezzo influenzi da sempre la poiesis musicale, come lo strumento umano, architettato da sé mediante il corpo e diverse successive sovrastrutture (che arrivano sino a suoni e immagini digitali), condizioni l’esistenza medesima in un processo artistico di un progresso estetico-musicale.
La musica primitiva, oltre la voce, trova i propri strumenti musicali direttamente nella natura: tuttavia, come l’antropologia ha dimostrato da almeno mezzo secolo, grazie soprattutto a Claude Lévi-Strauss, il riuso di tali materiali grezzi è già un atto di cultura, da svincolarsi all’idea del selvaggio, buono o cattivo; è quasi un’ideologia che resta foriera di molte teorie razziste (dal jazz ‘negroide’ dell’era fascista alla discriminazione delle realtà extracolte da parte di accademie e conservatori), in realtà contraddette anche di recente da molta world music, che recupera la finezza espressiva delle strumentazioni arcaiche, avvicinando ad esempio un didjeridoo al drums’n’bass.
Invenzioni e scoperte
Il passo successivo, l’oggetto manufatto, appartiene alle popolazioni stanziali, che hanno sviluppato le prime antiche civiltà, in cui l’esigenza della parola scritta va ovunque, dall’Europa all’Asia, di pari passo, alla cura dell’annotazione musicale, così come la funzione artigiana si esprime in produzioni quasi seriali di strumenti a corde, a fiato, a percussioni, che talvolta sono alla base della musicalità moderna e contemporanea. Tuttavia la scarsità di documenti materiali pervenutaci dall’antichità al Medio Evo, non ci consente un’esatta valutazione delle graduali o repentine varianti che intervengono nella fabbricazione e nell’impiego degli strumenti musicali. Siamo però quasi certi che la collaborazione proficua tra Oriente e Occidente sia passata attraverso lo scambio culturale anche degli strumenti musicali, come attesta ad esempio la presenza della chitarra nel mondo arabo, successivamente verso la penisola iberica e poi nell’intero Vecchio Continente.
D’altronde dall’età umanistica a tutto il Rinascimento, tra signorie, liberi comuni, futuri stati moderni non è un caso che la corporazione delle liuterie assuma una precisa fisionomia, proprio quando viene a delinearsi una generale uniformità degli strumenti usati a corte o nelle prime manifestazioni pubbliche, mentre la strumentazione popolare dei musicisti erranti tra fiere e cerimonie, soprattutto nelle comunità isolate, resta legata per sempre a una precipua identità territoriale.
Lo strumento musicale inizia a essere altresì un soggetto visivo, non solo per una massiccia presenza iconografica – quadri e affreschi rappresentano sovente angeli musicanti o nature morte con strumenti – ma in quanto si trasforma spesso, con l’epoca barocca, in pesante oggettistica decorata sontuosamente: gli attuali musei della musica raccolgono liuti e mandolini, spinette e clavicembali, fra intarsi e pitture a mano.
È però un effetto di breve durata, perché come nel più modernista design, la forma è strettamente connessa alla propria funzione: ecco quindi delinearsi, da fine Settecento, i grandi modelli degli strumenti musicali, così come ancor oggi si usano, oltre la messa a punto in senso diacronico, di quasi tutte le famiglie di cordofoni, aerofoni, idiofoni, membranofoni. La complessità meccanica di nuovi strumenti, in epoca romantica, dal sassofono alla fisarmonica, dalla tuba al pianoforte, o il virtuosismo ebanistico di violini e contrabbassi, è inoltre da mettere simbolicamente in relazione al clima di curiosità epistemologia di numerosi altri campi del sapere moderno-contemporaneo, a quanto avviene insomma dal secolo dei lumi sino al positivismo, nel clima favorevole di invenzioni e scoperte tecnico-scientifiche.
Alternative complementari
Per il XX secolo è luogo comune sostenere la mancanza di nuovi strumenti musicali: la verità è un’altra, perché, al di là di bislacchi o geniali ritrovati di effimera durata (dall’intonarumori alle onde martenot), la ricerca si è mossa non tanto verso il disegno di nuovi oggetti, quanto piuttosto nella reinvenzione di quelli esistenti, sotto due alternative complementari. Da un lato, con il jazz, i musicisti suonano in maniera inusuale quelli già esistenti, ricavandone timbri differenti e sonorità inedite: pensiamo ai sassofoni, ai clarinetti, alla tromba, al contrabbasso senza l’archetto, alla batteria che è l’assemblaggio di tamburi e piatti. Dall’altro, con l’avvento della società di massa, la comunicazione diventa mass medium anche per quel che concerne il linguaggio musicale in un’ulteriore duplice accezione. Nel primo caso i media hanno come estremi genetici, nel corso del Novecento, l’elettricità e la digitalità e in particolare trovano il loro pendant artistico appunto nella elettrificazione degli strumenti (chitarre, tastiere) e nel suono digitale (sintetizzatore, computer). Nel secondo caso sono gli stessi media a creare mezzi di riproduzione che, in estrema ratio, ri-producono il suono, fino a reinventarlo: il grammofono e il disco, la radiofonia e il cinema sonoro, la televisione e il nastro magnetico, oggi il video e la rete, permettono azioni creative che solo poche correnti musicali (il rap, la dj culture, la techno), stanno capendo sino in fondo, con qualche geniale anticipazione (i futuristi, John Cage, la scuola di Darmstadt).
Forse è davvero esatto, come ...