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CARLO ACTIS DATO
IL JAZZ È MISCHIARE, USARE LE ALTRE MUSICHE
Ho conosciuto Carlo alla fine degli anni Settanta, quando giovanissimi tentavamo entrambi la via del jazz, sia pur in maniere diverse e complementari, ma con qualche dato in comune: entrambi ‘provinciali’ (lui di Mazzé, io di Vercelli), ma con riferimenti universitari torinesi, cercavamo di smuovere l’ambiente stagnante della sterminata campagna piemontese, che, allora, jazzisticamente parlando, non produceva nulla di eclatante, salvo ovviamente la felice isola torinese, da sempre tra le capitali storiche del jazz italiano. Ed infatti, proprio a Torino, Carlo aveva cominciato con un quartetto denominato Art Studio che proponeva un free jazz assai difficile, ma pure molto originale, rispetto alle troppe mode passeggere, anche nell’ambito della sperimentazione. Avevo ascoltato il suo primo disco, praticamente autoprodotto, e l’avevo consigliato al professor Joseph Robbone, compositore e matematico, ma soprattutto inventore e direttore delle Manifestazioni Viottiane (Concorso e Festival), allora unica grossa realtà culturale in mezzo alle risaie. All’epoca il Festival Viotti di musica classica si apriva pian piano al jazz e il concerto al Salone Dugentesco dell’Art Studio costituì un fatto memorabile, suscitando anche roventi polemiche tra il pubblico borghese, che non gradì il sound così avveniristico e in particolare la gestualità di Carlo, il quale si muoveva dal palcoscenico arrivando in mezzo al pubblico, sempre improvvisando ai sassofoni. Robbone, che non era un esperto di jazz, il giorno dopo, mi chiese cosa ne pensassi del concerto di Carlo e se me la sentissi di difenderlo su un prestigioso giornale locale. Io non ebbi dubbi e fu così che mi pubblicarono in prima pagina la mia difesa, alquanto motivata ovviamente sul piano artistico e musicologico, tant’è che nessuno osò replicarmi. La testata era ‘L’Eusebiano’, bisettimanale diocesano: da lì iniziò per me una collaborazione che durò oltre quindici anni e che ricordo ancora molto volentieri. In questa intervista, semplicemente, Carlo mostra fra le righe tutto il suo humour, la sua intelligenza, il suo spirito critico, la sua capacità quasi psicanalitica di seguire la realtà musicale a 360° gradi.
Puoi parlarci brevemente della tua carriera. Le prime musiche ascoltate? Il primo disco jazz acquistato? Come sei diventato jazzista? Chi sono i tuoi padri ispiratori?
Dovevo fare l’ingegnere, andavo al Politecnico di Torino. Mio padre è laureato in agraria; amava però la fisica, la chimica, mi ha indirizzato verso cose tecniche. Il che non è un male perché la musica nella pratica scritta è matematica, corrisponde, c’è un legame particolare. La musica è voglia di libertà, rompere certi schemi. Mio nonno suonava la tromba nella banda del paese, partecipò alla prima guerra mondiale e proprio la tromba gli salvò la vita perché lui stava dietro, nelle seconde linee a dare i segnali e tornò a casa. La musica come via di salvezza, in ogni senso. A tredici anni mia madre mi portò a lezione di chitarra, ma a me non piaceva. La chitarra è qualcosa di esterno, che prendi, tocchi, tieni in mano ma non è dentro di te, i fiati sono dentro di te, o meglio sei tu che vai dentro di loro. Mio padre ascoltava Glenn Miller, Benny Goodman, Count Basie, le orchestre di Angelini, Barzizza. Mi feci regalare un clarinetto, il mio primo strumento, cominciai a studiarlo da solo, poi viste le difficoltà andai a lezione per un po’ da un vecchio sassofonista dell’orchestra Angelici (di nome Crotta) che suonava in sala da ballo e anche io poco dopo entrai nel gruppo, però serviva un sax tenore e mi feci le ossa con la musica da ballo. Il primo disco di jazz che comprai era il quartetto di Benny Goodman, e poi vari gruppi swing di Hampton, Basie, Benny Carter, ecc., ecc.
A Torino in quegl’anni dove sentivi il jazz?
A Torino si andava spesso allo Swing Club, una cantina dove ascoltai nei primi anni settanta dei concerti magnifici: Art Blakey, Elvin Jones, Don Byas, Enrico Rava… Lì conobbi altri ragazzi interessati a fare cose diverse, nuove. Così si è formato l’Art Studio con Claudio Lodati alla chitarra, Enrico Fazio al contrabbasso e Fiorenzo Sordini alla batteria. Facevamo riferimento a lavori di ricerca come l’Art Ensemble of Chicago (dal quale nasce il nome del gruppo), Ornette Coleman, Don Cherry, Oliver Lake, ma sempre con brani originali scritti da noi. Ma a Torino non c’era la possibilità di suonare e far sentire le nostre cose, e visto che in quegli anni sembrava che tutto avvenisse a Parigi siamo partiti. In effetti in Francia abbiamo trovato una situazione più viva ed aperta. Nonostante certe difficoltà siamo riusciti a suonare in varie situazioni addirittura a Radio France, aiutati da musicisti come Alan Silva, Hervè Bourde.
Come ve la passavate nella Ville Lumière e al vostro ritorno a casa?
A Parigi per tirare avanti io e Sordini, con spazzole e rullante, suonavamo nella metropolitana, raccattando un bel po’ di soldi. Ci abbiamo riprovato qualche tempo dopo a Torino, hanno chiamato subito vigili e carabinieri. Nel ‘Settantasette’ ci siamo detti che se non lo facevamo noi non lo avrebbe fatto nessuno. Prendemmo qualche informazione e registrammo il nostro primo disco (Art Studio, Drums Edizioni Musicali) completamente autoprodotto e probabilmente fummo tra i primi in Italia a fare una operazione del genere. Poi con altre persone e musicisti che gravitavano in quell’area fondammo la Cooperativa CMC (Centro Musica Creativa). Organizzammo rassegne e concerti riuscendo ad ottenere pochi soldi pubblici ma soprattutto strutture (sale, cinema, teatri) ed anche in questa direzione siamo stati tra i primi. In quegli anni ho cominciato i miei viaggi con la 500 (a costi bassissimi e dormendo in auto!): Turchia, Marocco, Algeria, Capo Nord, i Balcani, la Grecia, la Spagna. Più tardi Senegal, Costa D’Avorio, Malì, Thailandia, Indonesia, Nepal, il Giappone. Il viaggio ti dà libertà, ti apre la visuale, ti fa capire cosa succede. Per me è stato una svolta decisiva il viaggiare, scoprire nuovi mondi, c’è tutto un mondo da scoprire, nascosto, che quando vivi a casa tua, non esiste, non pensi lontanamente che esista. Questi viaggi,che faccio ogni volta che posso,dentro le realtà dei paesi, fuori da ogni logica turistica, hanno aperto la mia musica sono nate così via via tutte le mie formazioni nelle quali elaboro tutte le mie esperienze. Così sono diventato “jazzista”!
Ma cos’è per te il jazz? Ti senti un jazzman?
L’etichetta di musicista jazz mi sta un po’ stretta perché professionalmente mi preclude la possibilità di suonare in contesti diversi. In realtà sono effettivamente un musicista jazz, la mia musica è il jazz. Chi fa il dixieland, il bop, chi fa il jazz “vero” in realtà o fa musica leggera americana, standards, o una musica che non ha senso, né luogo né tempo, chi la esegue ancora oggi è nato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, ha sbagliato tutto. Il jazz è mischiare, usare le altre musiche e culture, addirittura strumenti “altri”. Il jazz è la filosofia della commistione di diversi materiali e dell’improvvisazione, cioè della loro trasformazione e personalizzazione. Quindi questo è il jazz, e nessuno può dire il contrario sennò buttiamo via tutto, aboliamo Parker, Coltrane, Armstrong, Ellington con i quali il jazz è divenuto una musica mondiale e lasciamo solo Marsalis. Ecco perché posso dire che io e i musicisti come me sono quelli che fanno il “vero” jazz! E non quelli che se li senti alla radio senza sapere prima chi sono li scambi per gente morta 40 o 50 anni fa!!!
Cosa stai combinando ora, musicalmente parlando?
Oggi, anzi un lunedì, l’Actis Band sta preparando il suo terzo CD, dedicato a Garibaldi, il più stupido degli eroi. L’unico che vinse e, sorpreso egli stesso, non seppe che far di meglio se non regalare tutto ad un re donnaiolo e cacciatore con una stretta di mano! Quello prima era per Don Chisciotte, l’eroe immaginario. L’altro era per Che Guevara, il mito. Con il quartetto abbiamo appena fatto tra l’altro una spedizione in Lituania – con il nuovo progetto dell’Actis Furioso (siamo in dieci) c’è stato il festival di Nevers – attenti, siamo tanti, facciamo paura ai bambini! anzi, alle facce da pesce lesso, ai ventenni, abituati a subire solo il martellio meccanico di ciò che gli fa’ comprendere l’”educazione musicale” scolastica. I bambini no’! Loro sì che potrebbero capire, se solo il sistema glielo permettesse, ma non può!!! (altrimenti che sistema sarebbe?).
È difficile per un jazzman italiano ‘sbarcare il lunario’?
La musica è una cosa che si ha dentro, per poterla praticare io per anni ho fatto il fattorino, l’intervistatore, il maestro di flauto dolce,il raccoglitore di cartone! Nei conservatori studi quei dieci libri fai l’esame, diventi un clarinettista e vai a suonare, mantenuto a vita dallo Stato. È ridicolo. Il jazz non si può insegnare in un Conservatorio, almeno per come è organizzato oggi in Italia. Basta dare un’occhiata al programma, totale, immenso, assurdo. In tre anni si deve fare tutto, qualsiasi strumento, arrangiamento, composizione, coro, è impensabile! Non c’è nessuno al mondo che possa farlo. L’Istituzione in sé è insensata. Non esiste un momento in cui tu ti possa dire: sono bravo. È una ricerca continua. È una contraddizione in termini. Come se al Conservatorio ci fossero i pittori. Bene, fai un quadro bellissimo prendi il diploma e sei un pittore. Che vuol dire? Bellissimo per chi, per cosa? È tutto assurdo.
Oltre suonare ai concerti e incidere dischi, ti dedichi ad altre attività?
La mia altra attività è dare lezioni private, è molto divertente con gli allievi “giusti”.
Secondo te lo Stato o in genere le istituzioni in Italia cosa fanno per il jazz? visto che hai viaggiato molto, com’è la situazione in altri paesi? quale nazione aiuta maggiormente i jazzisti?
Le Istituzioni in Italia devono ancora riconoscere che chi fa il jazz esiste. In Francia c’è da anni l’”intermittent du spettacle” che salvaguarda la figura professionale dei jazzisti come di tutti gli a...