Contro il razzismo
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Contro il razzismo

Per il bene e per il diritto alle differenze

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Per il bene e per il diritto alle differenze

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Possedere danaro, esercitare potere su tutto e tutti con facilità ecco in sintesi individuato il motore perverso che ha diviso (si pensi alla istituzione della schiavitù, ai regimi coloniali, al massacro di popolazioni indigene passato sotto la definizione di Conquista delle Americhe) e divide l'umanità in settori, che fa graduatorie dal meno al più, che include o esclude, che nutre il disprezzo e l'odio. Se è difficile oggi definire il preciso "territorio" del razzismo, perché una definizione ristretta escluderebbe tante forme di sopraffazione basate sulla discriminazione in atto sotto i nostri occhi, è certo che richiamando i tre momenti citati sopra, separazione, ghettizzazione, eliminazione (fisica o della dignità dell'individuo e della libertà del pensiero) potremo sempre riconoscerlo. Una facile verifica: abbiamo tutti presente come i Rom siano sempre stati separati dagli altri cittadini (e la maggior parte dei Rom ha la cittadinanza italiana), siano stati rinchiusi in campi/ghetto/prigione, siano stati eliminati come interlocutori e fisicamente come presenza sul territorio (è recente l'esempio della brutale espulsione dalla Francia). Tratto dalla Premessa

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Informazioni

Editore
EDUCatt
Anno
2014
ISBN
9788867806959

Capitolo 1
Definire, riconoscere, combattere

1.1 Il concetto di “razza”: un’invenzione destinata a produrre atrocità

«La prima, e più antica, branca dell’antropologia è l’antropologia biologica (o fisica). Gli antropologi fisici sono soprattutto interessati a considerare gli esseri umani in quanto organismi biologici per scoprire in cosa siano diversi dagli altri organismi viventi e in cosa simili al resto del regno animale.
L’antropologia fisica fiorì nel XIX secolo, con lo sviluppo dell’antropologia come disciplina accademica, dopo che secoli di esplorazioni avevano alimentato l’interesse per questo campo. Gli Europei occidentali avevano riscontrato un’enorme variazione nell’aspetto fisico dei popoli del mondo e da tempo cercavano di spiegare le differenze. Gli antropologi fisici inventarono una serie di tecniche elaborate per misurare i differenti caratteri osservabili delle popolazioni umane, comprendenti colore della pelle, tipo di capelli, tipo fisico e così via. Lo scopo era trovare la prova scientifica che avrebbe loro permesso di classificare tutti i popoli del mondo entro categorie inequivocabili, dette razze, basate su insiemi distinti di attributi biologici. Molti antropologi erano convinti che effettuando accurate misurazioni su un numero sufficiente di persone in tutto il mondo si sarebbero scoperti criteri netti di classificazione razziale.
Naturalmente le prime ricerche di antropologia fisica non si svolgevano in un vuoto storico e sociale. Quegli stessi popoli che gli antropologi fisici tentavano di ordinare in categorie razziali erano nella maggioranza dei casi popoli extraeuropei, sottoposti sempre più alla dominazione politica ed economica delle società capitalistiche europea ed euroamericana in fase di espansione. Poiché differivano dai bianchi Europei non soltanto per il colore più scuro della pelle, ma anche per lingua e costumi e, nella maggior parte dei casi, per tecnologie incapaci di reggere il confronto con la potenza dell’Occidente industrializzato, si finiva per ritenere che l’appartenenza razziale determinasse non solo gli attributi fisici esteriori dei gruppi, ma anche quelli morali e mentali, sulla base dei quali venivano ordinate gerarchicamente le razze. Non sorprende che si considerassero gli Europei e i Nordamericani «bianchi» superiori e le altre razze rappresentanti dei vari gradi di inferiorità. In tal modo gli antropologi fisici contribuirono allo sviluppo di teorie che avrebbero giustificato la pratica sociale del razzismo: l’oppressione sistematica di una o più razze socialmente definite da parte di un’altra razza socialmente definita, sulla base della presunta superiorità biologica intrinseca dei dominatori e la presunta inferiorità biologica intrinseca dei dominati.
Con il passar del tempo le tecniche di ricerca dell’antropologia fisica migliorarono. Gli antropologi fisici cominciarono a misurare numerosi caratteri interni delle popolazioni, come i gruppi sanguigni, aggiungendoli ai propri calcoli. Appresero così moltissimo sulla variazione fisica negli esseri umani, e scoprirono anche che i tratti esteriori usati tradizionalmente per identificare le razze, ad esempio il colore della pelle, non si correlavano bene con altri caratteri fisici e biologici.
Più imparavano sugli attributi biologici delle popolazioni umane, più si avvedevano della pura e semplice inesistenza di razze con insiemi distinti e unici di attributi.
Agli inizi del XX secolo alcuni antropologi e biologi erano giunti alla conclusione che il concetto di razza non rifletteva un fatto di natura, ma era invece un’etichetta culturale inventata dagli esseri umani per classificare le persone in gruppi. Antropologi come Franz Boas, per esempio, che agli inizi del Novecento fondò il primo dipartimento di antropologia negli Stati Uniti, avvertivano da tempo l’inadeguatezza delle classificazioni razziali in antropologia. Boas e i suoi studenti si dedicarono con grande energia a smontare gli stereotipi razzisti, utilizzando sia le conoscenze biologiche sia la comprensione della cultura. Con lo sviluppo dell’antropologia in quanto disciplina, negli Stati Uniti si cominciò a impartire l’insegnamento sia della biologia che della cultura umana al fine di dare agli studenti gli strumenti per combattere gli stereotipi etnici e razziali». (Schultz e Lavenda: 1999)

1.2 Come si definisce il razzismo

«Ci proponiamo di rispondere a una domanda solo in apparenza semplice: in quale modo si pone oggi il problema del razzismo? Cercare di rispondervi significa ripensare il razzismo ma anche l’antirazzismo. Nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito (1807), Hegel lancia questo avvertimento profondamente filosofico usando una sorta di gioco di parole: “Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto”. Il “razzismo” è ben noto, eppure non lo si conosce. Né lo studio del razzismo né la lotta contro le sue attuali manifestazioni potrebbero fondarsi semplicemente su una definizione del seguente tipo: “Il razzismo è la dottrina che afferma l’esistenza di una gerarchia tra le razze umane”. Nel razzismo non abbiamo a che fare solamente con una dottrina, e non tutte le pratiche razziste presuppongono l’esistenza di una scala di valori tra gruppi umani, in parte biologici in parte culturali, chiamati “razze”. Dobbiamo partire da un apparente paradosso, ben noto per quanto non ben sondato: mentre la parola “razza” è diventata “tabù”, ed è comunque ideologicamente sospetta e quindi viene evitata, dopo la sconfitta del regime nazista che l’aveva massicciamente sfruttata a fini propagandistici, la parola “razzismo”, al contrario, non solo è comunemente utilizzata, ma viene applicata a un numero indefinito di situazioni, ed assume quindi una funzione vaga, come approssimativo sinonimo di esclusione, di rigetto, di ostilità, di odio, di paura fobica o di disprezzo. L’abuso della parola “razzismo” e la desemantizzazione che l’accompagna sono in contrasto con la delegittimazione scientifica e politica della nozione di “razza”, e con il carattere di “tabù” del termine, che non viene più utilizzato nello spazio pubblico se non tra virgolette. È come se, in modo quasi impercettibile, il linguaggio ordinario e il pensiero comune avessero scoperto che il razzismo si poteva manifestare in modo non esplicito e, più precisamente, che nella maggior parte dei casi ci si trovava di fronte a delle modalità d’esclusione rilevanti una sorta di razzismo senza razza(e), senza il minimo riferimento a delle categorie razziali definite e, aggiungo, alla tesi della diseguaglianza. Il che non significa soltanto che la parola “razzismo” appare impropria rispetto ai nuovi modi in cui viene utilizzata, ma che anche le sue definizioni classiche sono insufficienti. In realtà, nel campo delle formulazioni ideologico-politiche del razzismo, il vecchio si mescola al nuovo: il sostenitore di un discorso razzisteggiante, che di solito insiste sull’incompatibilità delle culture, delle mentalità o delle civiltà (come ad esempio, l’europeo-cristiana e l’arabo-musulmana) al fine di giustificare delle misure di espulsione degli immigrati ritenuti “inassimilabili”, in una particolare congiuntura può far ricorso a formulazioni meno eufemistiche e dichiarare pubblicamente che egli crede nella “diseguaglianza delle razze”. Nei loro discorsi anti-immigrati, molti leader degli attuali movimenti nazionalisti e xenofobi oscillano tra l’affermazione “classica” della diseguaglianza delle razze e le nuove varianti sulla differenza culturale, o sul fatale antagonismo tra le diverse civiltà. Si tratta, in questo caso, di uno dei tanti paradossi concernenti la definizione, e sul quale bisognerà ritornare. “Tutto è stato detto. Probabilmente. Se le parole non avessero cambiato senso, e i sensi, parole”. Scelgo questa frase di Jean Paulhan perché essa esprime perfettamente, e in modo del tutto involontario, la prima e la maggiore difficoltà incontrata da chi cerca di comprendere qualcosa dei cosiddetti fenomeni “razzisti” di cui parla e che analizza. Sulle terre mobili del razzismo, o meglio, dei razzismi, tutto è in continua ridefinizione, tutti i dati subiscono delle metamorfosi, mentre gli elementi simbolici si rinnovano. Non solo i contesti sociopolitici non sono più quelli di un tempo, e permettono dunque nuovi usi degli stessi termini o il parziale rinnovarsi del vocabolario razzisteggiante, ma le rappresentazioni e gli argomenti di cui ci si serve non sono più sempre direttamente identificabili come “razzisti”. Quando il razzismo non è più evidente, si pone, allora, il problema di quali siano i criteri per identificare o riconoscere le sue diverse forme. Bisogna innanzitutto sapere se il razzismo può essere considerato come un fenomeno universale, che, di conseguenza, si confonderebbe con l’etnocentrismo di cui riattiverebbe certe caratteristiche.
Ma se il razzismo riattiva alcuni atteggiamenti propri all’etnocentrismo, esso non può comunque essere ridotto a quest’ultimo. Certe sue caratteristiche hanno un luogo e una data di nascita: che sia considerato come un sistema di dominio o come un modo di pensiero, il razzismo costituisce un fenomeno storico, che si può osservare emergere in Europa all’alba della modernità. Invenzione occidentale, il razzismo come ideologia e insieme di pratiche sociopolitiche si è in seguito universalizzato. I suoi schemi costitutivi si sono diffusi in tutto il mondo attraverso l’imperialismo coloniale, il sistema schiavistico e il nazionalismo e, più di recente, attraverso la banalizzazione delle utopie eugenetiche ed etniciste, “purificare” la razza, difendere o realizzare la “purezza” di un’origine etnica o culturale ma, d’altra parte, restringendo troppo la definizione del razzismo, si rischia di non tener conto né delle sue metamorfosi ideologiche, né della diversità dei suoi nuovi contesti sociopolitici. Si tratta, allora, constatata la diversità delle dottrine e delle pratiche razziste, così come la loro interferenza con numerosi altri fenomeni socio-storici, di porre il problema dell’unità del razzismo. L’ipotesi del “neo razzismo” non sembra escludere la costruzione di un modello di intelligibilità del razzismo». (Taguieff: 1999).

1.3 Come si connota e come lo si individua oggi

«Possiamo, infine, cercare di elaborare un modello ideale di “razzismo” elencando i tratti comuni a tutte le forme di razzismo. A tale fine, bisogna cominciare con il distinguere le caratteristiche cognitive del razzismo dalle sue caratteristiche pratiche. Di qui la seguente schematizzazione idealtipica. Per quanto concerne le caratteristiche cognitive, possiamo individuare tre generi di operazioni o di attitudini ricorrenti.
Innanzitutto, una categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi, che implica la riduzione dell’individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza o della sua comunità d’origine elevata a comunità di natura o d’essenza, fissa e insormontabile. Nascere tali, significa essere e dover rimanere tali. L’appartenenza non viene pensata solamente come se potesse predisporre il pensiero, come uno stile e come un insieme di contenuti, ma anche come normativa. Da questa essenzializzazione delle identità e delle differenze di gruppo deriva la negazione, più o meno accentuata, di una coappartenenza degli esseri umani. La negazione della loro comune natura. Essenzializzazione che si esprime specialmente in pseudotautologie del tipo: “Un ebreo è un ebreo”, il cui senso è: tale individuo non è che un ebreo, è la personificazione dell’ebreo. Il che porta a disindividualizzare l’individuo. La conseguenza decisiva di questa essenzializzazione è l’assolutizzazione della differenza tra i gruppi umani distinti o percepiti come reciprocamente irriducibili. Ciò che fornisce il criterio più sicuro dell’immaginario razzista, indipendentemente da ogni teorizzazione sulle razze (“razzialismo”), è proprio l’elevazione ad assoluto della differenza concernente l’origine o l’appartenenza.
In secondo luogo, una stigmatizzazione ossia un’esclusione simbolica degli individui categorizzati in tal modo, che comporta la creazione di un certo numero di stereotipi negativi. Tutti i rappresentanti di una categoria di appartenenza assolutizzata, senza alcuna eccezione, vengono marchiati con diverse stigmate, “tare” o “macchie”. Li si pensa come impuri o in grado di rendere impuri gli altri. Il principale modo di stigmatizzazione consiste nell’attribuire a questo o a quel gruppo “estraneo” una natura “pericolosa” per il proprio gruppo o per il gruppo di appartenenza. Incarnazione della minaccia, persino di una minaccia di morte, la categoria resa estranea rientra in quella di nemico assoluto, rispetto al quale tutte le misure di autodifesa vengono giustificate, o addirittura esaltate. I maggiori effetti di condizionamento ideologico dovuti a una propaganda razzista, che costruisce il nemico come un demonio o un animale pericoloso, si manifestano in un contesto di guerra, in cui la polarizzazione sulla coppia “Noi versus Loro” (“i nostri”/il nemico) anima il “delirio del campo di battaglia”, e favorisce la “brutalizzazione” dei soldati, trasformando degli uomini comuni in assassini di professione. La disumanizzazione del nemico, demonizzato o bestializzato, crea una distanza psicologica tra il carnefice e la vittima, senza cui l’assassinio di massa, più o meno camuffato, non può aver luogo.
Ma strategia di demonizzazione si può opporre o affiancare a una strategia di patologizzazione metaforica dell’entità stigmatizzata “bacillo”, “virus”, “cancro”, “aids”, ecc.), centrata sull’ossessione del contatto o della mescolanza, i quali vengono pensati come processi che rendono impuri o come modi di contaminazione. Di qui il manifestarsi di ciò che chiamo la mixofobia. La folla del misto o dell’ibrido verte principalmente sulla discendenza: viene rifiutata una discendenza mista, percepita come un’interruzione della continuità della stirpe, come una perdita della somiglianza, una dissoluzione dell’identità transgenerazionale. Il razzismo del contatto, nutrito d’immaginario, è più originario rispetto al razzismo della competizione, il quale deriva dai conflitti di interesse.
In terzo luogo, la convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili (e, dunque, come presupposto, che non siano civilizzate), che siano imperfettibili, non educabili, inconvertibili, inassimilabili: altrett...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Chi è diverso per chi?
  3. Premessa Separare, ghettizzare, eliminare
  4. Capitolo 1 Definire, riconoscere, combattere
  5. Capitolo 2 Da leggi infami alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
  6. Capitolo 3 La storia senza fine degli stermini di massa
  7. Capitolo 4 Sei buoni motivi per essere antirazzisti
  8. Qualche suggerimento bibliografico