1. LA FORMA FORMANTE:
LA RELAZIONE CHE È L’ORIGINE,
CHE È DIO
La testimonianza dell’origine
Il Prologo di Giovanni è una prodigiosa testimonianza sull’Origine contemplata in Dio. In esso è quindi intenzionalmente soppressa la residua finzione narrativa che consente al lettore dei “Vangeli dell’infanzia” di Matteo e Luca di immaginarsi in ascolto di un testimone oculare. Giovanni testimonia l’origine assoluta, antecedente quindi ad ogni possibile testimone oculare, l’origine che ha come unico “testimone” Dio stesso. Il Dio che si dichiara nel suo Logos è l’origine medesima. Lo splendore di tale origine è ciò che il discepolo credente riconosce indubitabilmente consegnato nella Rivelazione di questo Dio, cioè in quella testimonianza della propria intima identità con cui Egli si è legato liberamente alla vicenda degli uomini. Giovanni testimonia di conoscere l’origine con la sicurezza senza smagliature di chi ha veduto e creduto nel “compimento” storico di ciò che costituisce l’origine medesima. Egli non dice: “io c’ero e ho visto l’origine”, ma: “io c’ero allorché Dio si è mostrato nella sua stessa verità, istituendo una relazione di comunione con i suoi, me compreso; per questo io testimonio di averlo proprio visto, toccato, conosciuto così come egli è. Per questo ho conosciuto l’identità di Dio che è l’origine medesima e il suo essere all’origine di tutto ciò che è originato.”
Quando lo sguardo d’aquila di Giovanni si appunta nel principio, nell’arché teologico, e ci offre nel Prologo una sorta di compendio del suo Vangelo, non ha altro punto di visione che “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi)”[1]; ma proprio lì Giovanni conosce l’identità di Dio che si rivela e quindi l’origine assoluta. Per questo il Prologo comincia a cantare senza timore la visione dell’origine che è Dio stesso.
In principio era il Verbo
Che cosa vede dunque l’occhio “accordato” dalla Rivelazione cristiana con lo splendore della verità di Dio?[2]
Giovanni scrive:
“In principio era il Verbo”
“™n ¢rcÍ Ãn Ð LÒgoj”
La prima cadenza del suo Vangelo testimonia la luce teologica che illumina l’arché (¢rc»): il principio, l’origine[3]. Così facendo Giovanni si pone oltre ogni disquisizione degli antichi sull’arché medesimo. La filosofia antica, nell’indagare in sua direzione, era mossa dalla preoccupazione di trovare il principio primo inteso come semplicità intrascendibile, in tale ricerca si muoveva grazie all’interrogazione del cosmo compiuta dall’intelligenza spinta dal desiderio del sapere, dal fascino dell’Essere.
Giovanni all’opposto, afferma che una Parola ha raggiunto l’uomo attraendo il suo sguardo al Principio, all’arché. Afferma che il Principio si è “approssimato” all’uomo con un atto di intenzionale manifestazione, varcando, annientando in sé, nell’atto di questa sua inconcepibile intenzione di rivelazione, la distanza assoluta che ontologicamente separa il Principio da ogni tempo, l’assolutezza dell’arché da tutto quanto è accaduto, da tutto ciò che è “principiato”. La rivelazione dell’arché ha raggiunto l’uomo mostrando di provenire da una “regione” da cui egli non l’attendeva; mostrando un profilo a tal punto diverso rispetto a quello che la sua ricerca gli faceva presagire, che l’uomo, di tutta prima, non lo riconobbe. Tale principio non si è mostrato come unità singolare e irrelata, neppure come traccia dell’Essere assoluto e incondizionato di fronte al quale ogni ente impallidisce, ma bensì come relazione teologica di un Dio personale parlante e del suo Verbo.
Su questo occorre che ci fermiamo a riflettere.
La presenza en arché (™n ¢rcÍ) – in principio – della Parola, meglio, del Logos, testimonia a priori rispetto ad ogni ulteriore denotazione, che l’origine è caratterizzata da un pronunciamento, da un’espressione (in senso del tutto letterale); testimonia che l’origine non è semplicità introversa, pura concentrazione, potenza assoluta. Allo stesso tempo testimonia anche che l’origine non è neppure spontaneo non-nascondimento[4]. Nell’origine – testimonia Giovanni – era il Logos, l’origine quindi è caratterizzata da una esposizione di sé in cui l’a-letheia, il non-nascondimento, è pienamente manifesto in quanto intenzionalmente proferito. La verità che è l’origine non è puro splendore dell’origine medesima, ma intenzionale proferimento. La verità che Giovanni contempla all’origine è connotata da intenzionale esposizione. Ben inteso, non è in questione una qualche verità dell’origine, ma esattamente il non-nascondimento in quanto origine, l’a-letheia in quanto origine: a suo riguardo è detto che il non-nascondimento non deve essere inteso come semplice visibilità dell’origine, ma come logos, non-nascondimento proferito, espresso[5].
Il Logos, in quanto Logos dell’origine, rispecchia, interpreta perfettamente l’origine; ma non è l’origine medesima anzi, è l’origine in quanto originariamente e definitivamente espropriata al “medesimo”, nell’atto stesso del suo originario proferimento. Meglio ancora, è la negazione in atto dell’origine intesa come pura identità di sé con sé, è l’origine in quanto intenzionale es-propriazione, è lo splendore dell’origine in quanto splendore es-propriato, è lo splendore dell’es-propriazione che risplende come verità dell’origine. L’a-letheia che è Logos è aletheia consegnata e, in quanto tale, ri-conosciuta nell’origine stessa, en arché, cosicché l’origine è insuperabilmente origine originante e originata. L’arché non è senza il suo logos. L’origine cioè non è mai singolare, monadica; la semplicità dell’origine teologica che Giovanni contempla nella Rivelazione cristiana è irriducibile a monade, a uno.
Il che comporta che l’identità dell’origine originante sia paradossalmente connotata dal non-identico, sia cioè differente (lo ascoltiamo proprio come participio presente); che sia insuperabilmente segnata dall’intenzione di non nascondimento, di comunicazione[6], di relazione; che proprio questa intenzione connoti l’origine originante.
Ma l’origine originata, in quanto Logos dell’origine, non potrà avere altra connotazione originaria se non quella di essere, di sapersi (in quanto Logos), quindi di riconoscersi, quindi di “accogliersi in quanto pronunciato”. E inoltre, di non conoscere alcuna aspirazione alla “monadicità”. Qualunque cosa questo significhi, nessuna aspirazione di tal genere è conforme all’origine[7].
Il Logos che caratterizza l’origine è l’evidenza dell’origine stessa, ovvero, semplificando, il motivo della sua conoscibilità in quanto originaria comunicazione. L’origine, l’arché, “può” comunicarsi, può intenzionalmente rivelarsi in modo conforme alla propria identità, proprio perché è in sé differente, intenzionale proferimento, comunicazione; proprio perché, nell’origine, l’origine è logos.
Dunque, alla prima proposizione del Prologo, possiamo dire che l’origine ha una forma in quanto si manifesta, che tale forma di manifestazione è l’origine stessa che si manifesta come intenzione di manifestazione. Se questa è l’origine la forma dell’originato avrà a sua volta i tratti della manifestazione[8]: Logos dell’origine, manifestazione di sé in quanto manifestazione dell’origine.
Ma ecco che Giovanni aggiunge:
“il Logos era volto verso Dio”
“Ð LÒgoj Ãn prÕj tÕn QeÒn”:
L’origine cioè non genera innanzitutto una “cascata”, ma si qualifica come una relazione caratterizzata da tutta l’intenzionale trasparenza del Logos pronunciato e accolto e riconsegnato – ri-conoscente – a Dio che lo ha originato: l’origine – per dirlo con un’immagine – è relazione che ha i caratteri di uno “scambio di sguardi”[9]. Il Logos non è dunque innanzitutto il primo anello di una catena infinita di generazione o di creazione, il Logos è volto verso Dio che lo genera. È dunque ri-conoscimento. Il Logos dell’origine, proprio in quanto Logos di un’intenzionale manifestazione, è caratterizzato da ri-conoscimento e quindi da ri-conoscenza. Qualunque cosa sia di tutto il resto, di tutto l’Altro, non potrà che venire da questa relazione, non potrà avere altro principio che questo “scambio di sguardi”. Non potrà conoscere, del Dio che l’origina, altro che l’intimità di questo riconoscimento. Il Logos si conosce in quanto Logos di Dio e come tale si accoglie ri-conoscente. Conosce se stesso come consegnato, riconosce il proprio principium individuationis nell’essere Logos proferito-accoglientesi-riconsegnantesi. Così la sua conoscenza di sé è essenzialmente ri-conoscenza.[10] L’origine è insomma forma di una comunicazione assoluta che non necessita d’altro perché perfettamente consegnata e perfettamente accolta, in una perfetta identità nella differenza dei “ruoli”: della differenza personale dunque. Ove il termine persona[11] acquista il suo pieno significato[12] proprio in funzione del Logos originariamente pronunciato, espropriato, consegnato, e del Logos quale originaria accoglienza di sé in quanto generato e disposto in consapevole riconsegna a Dio (prÕj tÕn QeÒn)[13].
L’origine è relazione consapevole e assoluta. Questi è Dio, dice Giovanni. Se questo è ciò che chiamiamo “amore”, Dio è amore[14], a patto – ricordiamo – che partiamo rigorosamente da qui per sapere che cosa è amore e non dall’amore “secondo noi” per argomentare su Dio.
La forma che è l’origine, la forma in cui risplende l’intenzione dell’origine[15] è relazione. Dio è relazione. La forma identificativa di Dio è relazione. Bellissimo! Nulla di meccanicistico, nulla di “necessario”: all’origine un’identità personale, libera e volente; all’origine non un “accadimento” ma una generazione, una vita che intenzionalmente si comunica generando.
E Giovanni prosegue:
“Tutto è stato fatto per mezzo di Lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”
“p£nta di' aÙtoà ™gšneto,
kaˆ cwrˆj aÙtoà ™gšneto oÙd ›n Ó gšgonen”
Con questo l’Evangelista afferma che la forma originaria presiede alla formazione di tutto ciò che esiste. La verità dell’origine in quanto proferita, non comprende alcuna possibilità di “mentire”; non può che produrre forme ad essa conformi. Questo è quanto viene implicitamente affermato dicendo che tutto è stato fatto “per mezzo del Logos”, e che “senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”. Non c’è spazio, presso Dio, per la creazione di qualcosa che sia intimamente difforme dalla verità che è la sua stessa forma e che costituisce l’origine, e quindi rispetto a ciò che nell’origine è generato come Logos di Dio. Ogni cosa cioè, è formata in modo conforme all’originaria intenzione di Dio di comunicare esattamente se stesso e questo in modo espressamente relativo alla relazione originaria.
Questa – afferma Giovanni – è propriamente la vita: se qualcosa noi vogliamo chiamare vita, intendendo con questo ciò per cui le cose sussistono radicate in un’origine, sorrette...