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Il dialogatore è una figura professionale che si occupa di promuovere
in maniera diretta, cioè faccia a faccia (face to face in inglese), determinati
prodotti per delle imprese specializzate in questo tipo di vendita. “In maniera
diretta” significa che il dialogatore cerca finanziamenti per i “prodotti” che
promuove: da prodotti umanitari come adozioni a distanza o fondi per salvare i
rifugiati a beni di consumo come pacchetti televisivi Sky, andando in giro per
centri commerciali, piazze, strade e porta a porta. Un dialogatore viene definito
come human commercial cioè una persona che “fisicamente” pubblicizza un determinato
prodotto. Per esempio chi fa campagne pubblicitarie per Save The Children è uno
human commercial perché, girando con la maglia di questa grande ONG, le fa
“pubblicità umana” cercando fondi per i progetti che promuove. Normalmente col nome
di dialogatore si identifica chi ricerca fondi per le ONG, ma è bene ricordare, come
accennato poco prima, che i dialogatori svolgono queste attività anche per altri.
Difatti alla società per cui ho lavorato esiste una divisione che si occupa di
profit (cioè il settore di beni di consumo materiale) e una no profit o charity
(vale a dire il settore votato alla raccolta fondi, in inglese fund raising, per il
settore umanitario). Per entrambi questi due settori si usano le stesse tecniche di
vendita, e per entrambi i settori a volte possono lavorare gli stessi dialogatori.
Per esempio un dialogatore che lavora per Save The Children, può fare campagne
pubblicitarie anche per Sky. Si tratta di vendita pura, da un lato di prodotti di
consumo, dall’altro di povertà. Alla società di marketing dove ho lavorato io
(2008-2010), tra i partner del settore profit, c’erano in quel periodo Sky,
Coca-cola e alcune società di carte di credito. Per il settore no profit, invece,
facevano la loro comparsa partner come Save The Children, UNHCR e WWF. In più, per
un certo periodo, si e’“testato” anche Greenpeace, ma sinceramente non so se questa
grande e conosciuta ONG sia ancora partner della società per cui lavoravo io, perché
dalla pagina web non è possibile vedere quali sono i partners con cui attualmente
“collabora”.
L’attività del dialogatore si svolge prevalentemente in giro per
strade, piazze e centri commerciali. Però negli ultimi anni è aumentato anche il
cosiddetto “residenziale” cioè il porta a porta. Poiché ho lavorato soltanto per
Save The Children, e quindi soltanto per il settore no profit, descriverò
essenzialmente come lavoravamo per questa ONG. Tuttavia, considerando quanto detto
finora, lo stesso schema può essere applicato sia agli altri partners del settore
umanitario, sia a quelli del settore profit.
Il fine del dialogatore è quello di fermare le persone per convincerle
a donare supporto a un progetto umanitario. L’adesione al progetto avveniva tramite
una donazione di tipo economico, mediante carta di credito o coordinate bancarie
(IBAN). Per Save The Children esistevano delle donazioni mensili che partivano da
dieci euro e arrivavano fino alla cifra che ogni donatore voleva devolvere. In
generale le persone donavano venti euro al mese. Era una cifra che rispecchiava una
famosa frase che i dialogatori usavano per convincere le persone e che suonava così:
“venti euro sono l’equivalente di un caffè al giorno”. In effetti, a pensarci bene,
considerando che un caffè vale in media sessanta centesimi di euro, moltiplicando
sessanta per i giorni del mese si ottiene giusto venti euro. Vista in questo modo
sembra una cifra irrisoria. Tuttavia per molte famiglie si trattava comunque di una
rinuncia che in epoca di crisi gravava sul bilancio familiare, soprattutto
considerando che venti euro al mese sono 240 euro l’anno. In più, se si pensa che
spesso dietro all’attività del dialogatore c’e’un sistema ben congeniato di tecniche
di persuasione e inganni e prese in giro, la cosa risulta più raccapricciante. Per
esempio, i dialogatori dicevano ai potenziali sostenitori, sotto “consiglio” dei
manager e delle persone più esperte, che la loro attività non è retribuita, che
stavano svolgendo attività di volontariato senza alcuna remunerazione, che il loro
scopo era semplicemente di aiutare il prossimo. Tutto questo veniva pensato in
questo modo perché, facendo credere alla persona di essere volontari, si provocava
in lei un senso di maggiore fiducia e, soprattutto, la persona credeva che fosse un
obbligo morale “aiutare chi aiuta chi non ha niente”. Ovviamente non tutti ci
cascavano, però posso garantire che molto spesso si rivelava una carta vincente. A
coloro che cercavano di capirne di più della nostra attività si poteva dire che
eravamo rimborsati delle spese di viaggio e del pranzo, così, molto spesso, non
faceva altre domande. Tutto questo, in quel contesto, sembrava assolutamente
normale. Non era possibile infatti descrivere il sistema piramidale che c’era dietro
e il giro di soldi che si creava: avremmo perso il cliente!
All’inizio della collaborazione, il dialogatore percepisce un
salario fisso di cinquecento euro più le commissioni di 40 euro per ogni nuovo
sostenitore trovato. In realtà, tanto il fisso quanto le provvigioni, non sono
reali. Difatti, il salario fisso non veniva percepito fino a quando non si
raggiungeva un numero di sostenitori pari a dodici. Cioè non esistevano le
cinquecento euro di stipendio garantito e fisso al mese; tuttavia doveva legalmente
risultare così e veniva riportato anche sul contratto di assunzione a progetto
perché in Italia (e negli altri Paesi europei dove opera la società di marketing per
cui lavoravo) non è possibile offrire un lavoro soltanto con delle provvigioni. Di
conseguenza i guadagni sono quelli direttamente commisurati al numero di sostenitori
che si trovano. Se, per esempio, in un mese si raccolgono soltanto due adesioni, a
fine mese il guadagno sarà di ottanta euro. Questa cifra viene sempre tassata al
33%. Credetemi, molte persone hanno guadagnato questa cifra! In media, per ricevere
uno stipendio discreto a fine mese, bisogna trovare almeno una trentina di persone
disposte a donare. Così si raggiunge una cifra netta di circa
milleduecento-milletrecento euro. Quando lavoravo per Save The Children, erano poche
le persone che riuscivano a raggiungere questo risultato. I guadagni mensili erano
distribuiti a grandi linee in questo modo: pochissimi arrivavano a guadagnare tra i
milleduecento-millecinquecento euro (circa il 10% dei dialogatori), un numero più
grande (30%), ma sempre limitato, guadagnava tra i quattrocento e i settecento e,
infine, il resto (60%) guadagnava meno di quattrocento euro.
Nei capitoli dedicati alla crescita e alla possibilità di arricchirsi,
parlerò più nello specifico del sistema piramidale e di come era possibile fare
tanti soldi “vendendo povertà”. Lo accenno qui perché altrimenti sarebbe
incomprensibile capire come mai molte persone rimanevano in un tale sistema pur
guadagnando una miseria. La verità era una: i soldi. Infatti, molti dialogatori
erano convinti che, pur non guadagnando molto durante i primi mesi o il primo anno
(a costo anche di mangiare, male, una sola volta al giorno), sarebbero potuti
arrivare a guadagnare molti soldi dopo un po’ di tempo e i sacrifici sarebbero stati
lautamente ripagati. La verità era invece che non tutti arrivavano a guadagnare così
tanti soldi e vedremo perché. Anzi, erano e sono davvero poche le persone che
arrivavano al gradino più alto della piramide in rapporto al grande numero di
dialogatori in giro per l’Italia e l’Europa: in media una o due persone ogni cento.
Spesso, poi, risultava che questa persona, pur avendo aperto un suo proprio ufficio
e quindi potenzialmente pronta a guadagnare le cifre stratosferiche per cui si era
impegnato, dopo un po’di tempo falliva perché non guadagnava a sufficienza per
coprire le spese di gestione, affitto, segreteria, organizzazione di eventi e così
via. Di casi ce ne sono stati vari e tutti testimoniano quanto illusoria fosse
questa corsa all’arricchimento alle spalle dei poveri bambini che, dall’altra parte
del mondo, soffrono delle calamità più infami. Dopo vari anni di sacrifici, convinti
che finalmente il loro sogno si fosse realizzato, molti dialogatori hanno dovuto
prendere coscienza del fatto che loro, per primi, sono stati presi in giro. Non oso
immaginare quanto possa esser stato traumatico scoprire che tutti i loro sforzi sono
serviti soltanto per far arricchire altre persone: coloro, cioè, che già ricoprono i
vertici della piramide e ai quali vanno percentuali alte dei loro guadagni.
In base a quanto detto finora, la mia idea è che questo sistema è
pensato per favorire poche persone, per aiutare a favorire la crescita (e
l’arricchimento) di qualcuno già deciso dai vertici e che svolge un ruolo strategico
per l’ampliamento del business della società. Di conseguenza, a differenza di quanto
si vuol far credere per motivare le persone a non abbandonare l’attività di
dialogatore (che, diciamolo pure, non è assolutamente facile per via della
difficoltà nel fermare per strada i potenziali clienti e ancor più nel convincerli a
firmare contratti che prevedono l’utilizzo di dati bancari), il sistema di
promozione e di ascesa nella piramide aziendale non è assolutamente meritocratico.
Al di là del discorso etico legato alla vendita di progetti umanitari, un punto per
me fondamentale è quello legato a come si ingannavano le persone facendogli credere
che sarebbero potute diventare ricche. I “capi” sapevano che non era possibile far
arricchire tutti, ma comunque stuzzicavano l’avidità di persone che non trovavano migliori occupazioni facendogli
credere che, andando a bussare alle porte e perseverando nel trovare nuovi donatori,
avrebbero potuto riscattarsi (almeno economicamente). Il motivo di tutto questo
meccanismo perverso in più punti è rappresentato dal fatto che ogni nuova adesione,
raccolta da un dialogatore, rappresentava per loro una fonte di guadagno per via del
sistema piramidale, vale a dire per il sistema di percentuali che ricevono coloro
che si trovavano nei gradini superiori. Di conseguenza, convincere una persona a
rimanere rappresenta per loro un obiettivo prioritario e, per raggiungerlo, ogni
mezzo è lecito.
Questo punto è fondamentale per capire come mai questa attività rimanga
ancora in piedi: perché molto spesso le persone hanno bisogno di un’illusione per
andare avanti.
Altro aspetto da mettere in evidenza è quello legato al fatto che
ai dialogatori conviene, per trovare i sostenitori, mentire su molti aspetti della
loro attività. Oltre al già citato “consiglio” di presentarsi come volontari, molti
dialogatori dicono, per esempio, di essersi recati nei posti dove vengono destinati
i fondi delle donazioni. Difatti molto spesso alcune persone chiedevano, quando
lavoravo per quella nota società di marketing internazionale, se fossimo mai andati
in un posto in cui veniva realizzato un progetto, come in Africa o Sudamerica. A
tali domande eravamo “invitati” a dire di si. Addirittura c’era chi si inventava di
essere andato a portare medicinali o aver aiutato a costruire una scuola o un pozzo
per l’acqua. Bugia. La verità è che pochissime persone erano state in quei posti.
Molto spesso c’erano state in vacanza (vedi Zanzibar, che non è proprio un luogo in
cui si svolge aiuto umanitario, soprattutto nei villaggi turistici). Coloro che
erano veramente andate in Africa a dare una mano a una comunità di bambini poveri,
si indignavano quando scoprivano la vera natura dell’attività del dialogatore.
Insomma: la voglia di riscatto economico, la precarietà e le scarse
possibilità lavorative offerte dall’inizio della crisi, portavano molte persone a
vedere in quella attività una salvezza. Dal canto suo, quella società di marketing
era contenta di avere così tanti disoccupati creati dalla crisi perché molti di
loro, pur di tirare avanti, erano disposti a “vendere povertà”. Quest’ultimo è
l’altro grande tema: la vendita della povertà. Il sistema è già di per sé assurdo a
mio avviso. Però ritengo che quando ci si serve anche dell’altrui miseria, della
mortalità infantile, dei bambini-soldato, dei bambini malati di AIDS o colpiti da
altre malattie o catastrofi, allora si supera di gran lunga quella linea etica che
dovremmo avere. Pur ammettendo che l’uomo per sua natura non è “etico”, dovrebbero
esserlo almeno quelle grandi ONG che fanno dell’altruismo, della filantropia e
dell’aiuto ai bisognosi la loro ragione d’essere. Se si è disposti addirittura a
vendere povertà per creare profitto, e se le grandi ONG sono partner di chi lo fa
servendosi della loro immagine conosciuta e a cambio di lauti introiti, allora,
molto probabilmente, i problemi sono più profondi di quanto si possa immaginare.
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La storia che sto per raccontarvi ha inizio nel 2008, quando decisi di rientrare in Italia per cercare lavoro a Roma e stabilirmi nella capitale. Come qualsiasi persona appena arrivata in un posto nuovo, non pretendevo di trovare subito il lavoro della mia vita. Ero deciso a stabilirmi a Roma e, per sbarcare il lunario durante i primi mesi, avrei svolto qualsiasi lavoro che mi avrebbe consentito di pagarmi l’affitto. Nel frattempo, avrei potuto mandare curricula e aspettare le risposte dal settore che mi interessava di più: il no profit. Sì, il no profit, le ONG, l’aiuto umanitario, i progetti di cooperazione. Tutto quell’insieme di attività legate al cosiddetto “terzo settore” che oggi rappresenta il lavoro più cool che ci possa essere. Eh sì! Progettare aiuti umanitari, viaggiare, guadagnare onestamente ma soprattutto sentirsi utile per il prossimo. Far capire a coloro che non hanno avuto la fortuna di nascere in Occidente, che qui esiste “il migliore dei mondi possibili” e che se seguono i nostri esempi possono raggiungere anche loro il nostro livello di civiltà. Insomma, volevo sentirmi attivo, pronto a mettere in pratica le mie esperienze ma soprattutto pronto a darmi da fare in quello che credevo fosse un mondo diverso.
In un certo senso la mia meraviglia è stata grande quando ho ricevuto la telefonata da un’impresa di marketing che si occupava principalmente di “fornire supporto alle Onlus impegnate in progetti umanitari” come mi disse la segretaria. Certo, pensai, di sicuro non si tratta precisamente del lavoro che vorrei svolgere però da qualche parte bisogna pur iniziare. La possibilità di entrare nel mondo che mi interessava era, in ogni modo, un segno.
Sono andato al colloquio con una certa emozione. Speravo che di lì a poco avrei potuto occuparmi di qualcosa che veramente mi interessava e mi avrebbe reso “felice”. In pratica credevo che, nonostante il fatto di esser stato chiamato a lavorare per un’impresa di marketing per svolgere il lavoro di “fornire aiuti alle Onlus” fosse strano, forse in futuro avrei potuto occuparmi di qualcosa che effettivamente avesse maggiormente a che fare con le Onlus e sempre meno con il marketing.
L’ufficio della società di marketing che mi ha contattato si trovava in un edificio storico tenuto molto bene. Delle scale pulite e profumate portavano in diversi appartamenti, adibiti, alcuni di essi, a uffici. L'ufficio era al secondo piano, non era necessario prendere l’ascensore per arrivarci. Tuttavia, forse per risparmiare energie che avrei voluto sfruttare durante il colloquio, salii con l’ascensore. Una volta dentro l’ufficio fui subito colpito dal sorriso dell’impiegata: non era un atteggiamento falso e affettato il suo, ma quello di una persona cordiale e molto ospitale. Mi invitò a sedere su una delle sedie disposte al lato del muro, accanto ad altri due ragazzi più o meno della mia età che erano lì seduti ad attendere il loro turno, silenziosamente. L’impiegata mi porse una cartellina contenente un questionario al quale dovevo rispondere, poi chiese se gradivo un bicchiere d’acqua o un caffè. Accettai l’acqua con garbo e, non appena la segretaria si allontanò, iniziai a leggere il questionario e a rispondere meccanicamente alle domande riguardanti per lo più gli interessi, la formazione e gli obiettivi che volevo raggiungere nella mia vita. Fino a quel momento sembrava, tutto sommato, un posto normale. Anche gli altri due ragazzi sembravano tranquilli, nonostante non avessero proferito parola da quando ero entrato.
Il primo dettaglio che catturò la mia attenzione fu la presenza di alcune fotografie incorniciate e appese un po’ su tutta la parete al lato della postazione della segretaria. Non me ne ero accorto entrando, notai quelle foto soltanto quando la segretaria mi si avvicinò con il bicchiere d’acqua. Lì per lì sembravano foto normali, di persone come tante altre. Tuttavia quegli scatti erano inquietanti: le espressioni di quelle persone ritratte in foto avevano un qualcosa di diabolico. Tutte quelle persone sorridevano in un modo che metteva quasi paura; sicuramente con la loro espressione volevano comunicare qualcosa di forte a chi entrava nella sala. Si trattava probabilmente di persone fiere di se stesse, che avevano raggiunto dei risultati importanti e che sembrava volessero dirmi “salve sfigato, noi ce l’abbiamo fatta! Sei in grado anche tu di raggiungere i nostri risultati?”.
Per un attimo pensai di chiedere alla segretaria chi fossero quelle persone. Poi, mosso da un senso di pudore e dal fatto che nessuno stava parlando in quel momento, decisi di rileggere il questionario al quale avevo risposto. Dopo pochi minuti la porta dove si trovava il capo si aprì e ne uscì una ragazza dai lunghi capelli biondi e con il volto sorridente. Ci salutò animatamente poi si avvicinò alla segretaria e le chiese qualcosa. Quest’ultima guardò su un’agenda e le disse: “ domani pomeriggio per le 16 va bene?”...