13 gennaio La nave Costa Concordia del gruppo Costa Crociere naufraga a 500 metri al largo dell’Isola del Giglio. L’incidente ha provocato 32 morti. A bordo c’erano 4.229 persone di cui 1.013 membri dell’equipaggio.
6 maggio Secondo turno delle elezioni presidenziali francesi del 2012: François Hollande (Partito Socialista) batte col 51,62% dei voti Nicolas Sarkozy, fermo al 48,38%.
20 maggio L’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto vengono colpite da un terremoto di magnitudo 6.0 con epicentro tra le province di Modena, Mantova, Ferrara, Rovigo, Bologna e Reggio nell’Emilia.
4 luglio Gli scienziati del CERN, a seguito degli esperimenti condotti nell’acceleratore LHC, hanno dato l’annuncio ufficiale dell’osservazione di una particella con caratteristiche compatibili a quelle del bosone di Higgs.
29 novembre La Palestina diventa Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite con 138 voti favoreli, 41 astenuti e 9 contrari.
21 dicembre Il Presidente del Consiglio, Mario Monti, rassegna le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Monti, tra flop e speculazioni finanziarie
Cesare Pavese sosteneva che la vecchiaia inizia quando il ricordo prevale sulle aspettative del futuro. Io, più modestamente, che continuo a equiparare con i classici la vecchiaia con la saggezza, anche perché sono un po’ narciso, credo che la vecchiaia inizi allorché ci convinciamo spiritualmente che la storia passata non insegna nulla né alle generazioni presenti, né a quelle future. È un pensiero che rivolgo, istituzionalmente e deferente, al vecchio amico Corrado Passera, ora illustre ministro e, da quel che apprendo dalle sue recenti interviste, anch’egli convinto che vi sia un legame, in Italia, sottolineo in Italia, tra liberalizzazioni e crescita.
Debbo dire a suo onore che non ha cercato di incantare tutti con l’insostenibile tiritera del nesso tra privatizzazioni e crescita, perché allora ci sarebbe stato da sbellicarsi dalle risate. Oppure da piangerci su, come coraggiosamente ha fatto ieri il “Financial Times” che titola in prima Capitalism in Crisis: e la privatizzazione, lo sappiamo, è l’essenza di questo nuovo e ferocissimo capitalismo che da vent’anni non fa che generare stragi tra gli innocenti, vedasi 200 e passa milioni di disoccupati nei Paesi ocse e i trilioni di dollari di assets tossici che infettano la finanza mondiale peggio dell’Aids.
Ma torniamo all’Italia. Dobbiamo finalmente dire a chiare lettere che la mancata crescita di oggi è frutto delle disgraziate privatizzazioni senza liberalizzazioni degli anni Novanta. Privatizzazioni fatte per gli amici degli amici e all’argentina, ossia per togliere dall’agone della concorrenza internazionale gran parte dell’industria italiana. Di ciò non abbiamo mai chiesto conto a nessuno; intellettualmente e politicamente intendo; anzi, su questa rapina si sono costruite fortune politiche che durano fino a oggi.
Ma veniamo a noi. Il problema se liberalizzare o no non è un problema ideologico, ma un problema certo di teoria economica, ma anche di analisi empirica della situazione storica concreta. Orbene, l’analisi economica, quella vera, non quella neoclassica, ci dice che crescita fa rima con investimento e quindi io devo liberalizzare solo se la liberalizzazione stimola l’investimento da parte di attori che accrescono il fascio di forze propulsive. Se la liberalizzazione non si situa in un contesto siffatto finisce in un flop, dove tutto rimane come prima, oppure in pure manovre di speculazione finanziaria grazie alle quali c’è il rischio che gli assets che dovrebbero essere liberalizzati sono invece distrutti. Sottolineo che parlo di assets e non di mercati, perché a seconda degli assets che liberalizzo ho forme diverse di mercato e quindi forme diverse di liberalizzazioni e di investimenti che sono necessari. Per quanto riguarda la situazione storica concreta, l’Italia deve liberalizzare gran parte di quello che passa sotto il nome del capitalismo economico municipale, che io sulla scorta del grande esempio della scuola storica socialista di Giovanni Montemartini preferisco chiamare governo economico municipale. Allora non è scritto da nessuna parte che le imprese pubbliche municipali possedute dai Comuni debbano essere di per sé inefficienti e quelle stesse imprese possedute da privati debbano essere efficienti e quindi virtuose.
Le esperienze che abbiamo fatto in Italia in questi ultimi 20 anni sono state disastrose e qualunque persona di buon senso rimpiange le vecchie municipalizzate. Certo, come ho sostenuto per anni inascoltato, potevamo limitare gli spiriti predatori della classe politica creando imprese miste, che avessero però come obiettivo non quello di far arricchire solo i privati, ma anche, e sottolineo anche, i cittadini consumatori, trasformandole appunto in imprese unite da reti che distribuissero i beni a prezzi inferiori alla media grazie a grandi centrali d’acquisto (modello rwe tedesco nel campo dell’energia) oppure trasformandole in imprese cooperative o not for profit (come è tipico del caso nord americano). In Italia non s’è fatto né una cosa, né l’altra, ma si sono creati dei mostri che sono delle nuove forme di capitalismo di tipo misto che chiamerò “politico-plutocratico” con tendenze alla cleptocratizzazione di cui a partire da Milano e da Bologna si potrebbero fare esempi preclari. Se vogliamo continuare su questa strada accomodiamoci, ma mi pare che questo non sia ciò che faccia bene a questo Paese.
Infine, per dirla tutta, non credo sia dignitoso parlare di liberalizzazioni attaccando piccoli padroncini, onesti artigiani riuniti in cooperativa che sbarcano appena il lunario come i tassisti. Farei invece l’opposto: non privatizzerei i tassisti, ma darei incentivi alle loro cooperative perché migliorino i servizi e consentano di avere finalmente in Italia taxi londinesi, in cui sali senza slogarti la schiena, il collo o le gambe. Per quanto riguarda gli ordini, il discorso è molto complesso e richiede una riflessione profonda su cosa siano e debbano essere le professioni liberali nell’Occidente capitalista. Partirei da lì e non dalle tariffe.
Infine, per quanto riguarda l’energia, le mie posizioni sono note: gli oligopoli tecnici e in natura non possono essere liberalizzati se non, ahimè, con l’aumento dei prezzi dei prodotti che essi distribuiscono attraverso il mercato monetario. Piuttosto che liberalizzare in questi campi è ora di investire. Ma mi pare che nessuno voglia farlo in un capitalismo rent seeking come quello italiano.
10 gennaio 2012
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Bankitalia: severa con gli Amici della Bpm, morbida coi patti di sindacato
Ci sono momenti della storia dove la tragedia si rivela agli astanti come farsa. E ci sono momenti epifanici, ossia di apparizione e disvelamento delle più profonde corde della natura di un attore sociale, persona o istituzione ch’essa sia. Questi due momenti sono uniti drammaticamente allorché ci si dispone alla lettura del documento inviato dalla Banca d’Italia alla Banca popolare di Milano il 4 gennaio e pubblicato anche sui giornali quotidiani nella sua integrità. La sostanza del documento risiede nell’accusa formulata nei confronti dell’associazione Amici della bpm di configurarsi come, udite udite, «accordo parasociale in forma associativa ai sensi e per gli effetti dell’art. 20 comma 2, del tub. La mancata comunicazione all’autorità di vigilanza di tale accordo integra una violazione dell’art. 20, comma 2, del tub», ossia del Testo Unico Bancario.
Ecco la farsa. Un accordo tra soci che vanno in assemblea contribuendo a quello straordinario fenomeno di democrazia economica unico in Italia che sono le assemblee, appunto, delle banche cooperative, popolari o di credito cooperativo ch’esse siano, viene scambiato per un accordo parasociale che ha di solito per attori azionisti e non persone che hanno dei limiti predeterminati al possesso azionario e che votano per capita. L’epifania è il disvelamento, non nuovo per me, in verità, che coloro che nel seno dell’Autorità di vigilanza seguono “vigilando” le banche cooperative non sanno evidentemente nulla dei loro processi decisionali e tanto meno della prassi che può quindi assumere la democrazia economica.
E fin qui poco male. Vi sono schemi ideologici dinanzi ai quali, come diceva Schiller, anche gli dei hanno torto. Qui non si tratta di dei, ma di piccoli operatori e quindi rassereniamoci. Il problema risiede nel fatto che si guarda la pagliuzza nell’occhio mentre non si vede la trave. Infatti questa forma di persecuzione ideologica contro la cooperazione avviene in un capitalismo come quello italico, relazionale per eccellenza, omofiliaco per formazione storica, collusivo per natura sua propria, dipendente dal potere situazionale di fatto per costituzione organica dei suoi fondamenti. Un capitalismo in cui i patti di sindacato – che sono la peggior offesa che si possa fare al libero mercato e alla trasparenza e all’uguaglianza di opportunità tra azionisti di minoranza e di maggioranza – sono la norma e lo sono in primo luogo nelle e per il controllo delle banche che l’Autorità suddetta deve “vigilare”.
Non credo ai miei occhi. Consigliare chi votare è normale ed è doveroso per chi si costituisce in organizzazione. Se i partiti – come diceva Ostrogorskij, il più grande studioso dei partiti moderni con Duverger e Calise – sono la democrazia politica che si organizza, le associazioni sono la democrazia economica che si organizza nelle assemblee, per limitare le asimmetrie informative, per combattere le debolezze che il voto per capita e l’eccesso di deleghe, quando c’è, possono provocare in riunioni spesso tumultuose e complicate. Naturalmente i fatti che si denunciano sulle promozioni, sulla corruzione in merito agli avanzamenti di carriera, ai compensi ecc., sono gravissimi e sono una vergogna a cui porre fine. È triste che un’autorità di vigilanza debba occuparsi di ciò. Un’autorità di vigilanza dovrebbe vigilare che sia rispettata la natura di banca cooperativa allorché una banca cooperativa dichiara di voler essere tale: e allora dovrebbe vigilare su incursioni spregiudicate che possono mettere a repentaglio i valori della cooperazione.
12 gennaio 2012
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Quel naufragio della responsabilità. Familismo e narcisismo amorali sempre più diffusi nelle organizzazioni
L’impressione è che il bene comune non sia in testa alle priorità. Bene ha fatto il “Corriere della Sera” di ieri sottolineando in prima pagina le responsabilità personali che sono emerse in merito all’evento drammatico della Costa Crociere naufragata all’Isola del Giglio, con la denuncia della gravità del comportamento del capitano della nave e bene ha fatto Pierluigi Battista a stigmatizzare l’accaduto e a invocare severità istituzionale. E questo perché, ahimè, il fatto è paradigmatico di un comportamento umano associato e non solo individuale terribilmente diffuso in tutte le organizzazioni. Certo, le conseguenze non sono sempre così drammatiche, ma scavano nel profondo dell’animo e dell’immaginario collettivo e stanno trasformando lo stesso costume sociale degli italiani (e non solo loro). Perché? Di che si tratta? Ma del fatto che sempre più è divenuto normale, ossia socialmente e culturalmente accettato, usare i poteri di comando per soddisfare i propri desideri, ricambiare piccoli e grandi favori con reciprocità collusive, creare catene di complicità dirette a soddisfare volontà non sempre criminali ma sempre, tuttavia, narcisistiche e dettate dal desiderio di dimostrare una onnipotenza che fa gonfiare il petto di soddisfazione.
Un tempo questo comportamento era descritto dagli antropologi che a frotte giungevano, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nell’Europa del Sud per studiarne usi e costumi, come “familismo amorale”, ossia quell’orientamento all’azione diretto ad anteporre a qualsivoglia altra obbligazione sociale o culturale i bisogni e le ambizioni della società naturale che circonda la persona, ossia la famiglia. I cosiddetti “doveri” si componevano nei comportamenti sociali secondo una sorta di lista delle priorità: prima il dovere verso la famiglia e “gli amici degli amici”, poi quelli verso qualsi...