Didattica
L’esperienza dei laboratori di racconto di sé rivolti alle cittadine ed ai cittadini migranti
Stefano Alacqua, Oxfam Italia Intercultura
Paolo Martinino, Unione dei Comuni dei Tre Colli – Cooperativa Sociale Betadue
Riconciliarsi con la propria storia, con il proprio passato, con la propria esperienza: ecco una fondamentale comprensione alla quale siamo giunti trascorrendo numerosi anni a contatto con persone che provengono in Italia da Paesi di tutto il mondo, e che hanno dovuto fare i conti con un evento cruciale talmente radicale che cambia per sempre la propria vita, la percezione del mondo e la visione di se stessi. Per tale motivo abbiamo voluto portare avanti queste esperienze di incontro e racconto, sperimentando alcune tipologie di intervento laboratoriali rivolte alle donne straniere.
Nella progettazione degli incontri ci siamo posti innanzitutto una domanda: quali sono le principali esigenze di una donna migrante che arriva in Italia? Inserirsi nel tessuto sociale e culturale del Paese ospitante, ma anche il recupero e la ridefinizione della propria identità sociale, culturale, familiare di appartenenza. Come dire: ho bisogno di comprendere la mia identità attraverso l’identità altrui. Tuttavia non sempre c’è chiara consapevolezza delle proprie esigenze, e la ridefinizione dell’immagine di se stessi è un processo particolarmente lungo e delicato, e come tale, spesso tende ad essere lasciato da parte, così come l’espressione di un mondo emotivo che non di rado è stato messo duramente alla prova. Si crea, a nostro avviso, una sorta di contrapposizione tra le esigenze di contatto, esternazione, elaborazione della propria emotività e la voglia di andare avanti nella propria vita, di costruirsi delle certezze, di lavorare in vista di una tranquillità, come se non fosse proponibile tenere contemporaneamente due prospettive, una che guarda al futuro, ed una che guarda al passato. E spesso infatti notiamo che il migrante cerca disperatamente di affrettarsi ad integrarsi, cerca di bruciare le tappe, e di appiattire le differenze, di assimilare la nuova lingua, sforzandosi di dimenticare chi è stato fino ad allora, oppure al contrario tira il freno a mano e si rinchiude in una nicchia nostalgica e conservatrice, bloccando l’osmosi culturale, e tenendosi stretto stretto alla propria identità socio-linguistico-culturale.
Ecco perché abbiamo deciso di invitare le donne migranti ad un ciclo di incontri in cui potessero imparare e rinforzare la lingua che è veicolo tra se stessi e la nuova società, raccontare la propria storia e quindi rimettere insieme, come si fa con i puzzle, la propria identità; confrontarsi con altre donne migranti, ascoltando altre storie che sono diverse (ed uguali) alla propria, con l’ausilio di un facilitatore linguistico e di gruppo. Per quanto riguarda le modalità di raccontare, partendo dall’idea che ognuno di noi sviluppa maggiormente alcune tipologie di intelligenza, abbiamo anche cercato di stimolare le partecipanti ad utilizzare le proprie modalità “visive”, partendo da un episodio, una fotografia, o il ricordo di un oggetto, nel tentativo di bypassare la difficoltà della costruzione del pensiero e della frase in lingua.
Il nostro primo laboratorio di racconto, diviso in 12 incontri di due ore e mezza l’uno, e rivolto a donne di età compresa tra i 20 e i 50 anni, e appartenenti a tutte le nazionalità, prevedeva la prima parte della lezione di rinforzo grammaticale, soprattutto rispetto ai tempi del verbo che ci permettono di esprimere i concetti temporali di passato, presente, futuro, e che sarebbero stati utilizzati nella seconda parte di ogni incontro (oralmente e per iscritto), a turno, in un ambiente che favoriva la conversazione, l’ascolto e l’esternazione della propria esperienza. Il facilitatore aveva cura di proporre con gradualità argomenti come la presentazione di sé, ciò che piaceva di più o di meno dell’Italia e del Paese di origine (che ha permesso di riflettere sulle differenze culturali e sulla possibilità di adottare più punti di vista), gli oggetti importanti della nostra vita, l’esperienza della prima volta in Italia, la descrizione di una foto importante, le canzoni più significative (con l’ausilio di uno strumento come youTube, e con l’integrazione di una spiegazione di tutto quello che era stato legato emotivamente a quella canzone), i progetti per il futuro.
Lavorare in gruppo è sempre una grande risorsa perché permette di condividere moltissimo, e ci aiuta a capire che ci sono molte altre persone che hanno affrontato delle situazioni simili alle nostre, ma può anche essere causa di attriti, sia per questioni di “anzianità”, che per questioni di diversa appartenenza culturale. Inoltre, raccontare la propria storia è un atto di intimità, e ci vuole un po’ di tempo perché le persone inizino a conoscersi e ad interagire ad un livello più profondo di quello iniziale, nel corso del quale esse non si conoscono a sufficienza e molte di loro sentono di non volersi esporre troppo. È quindi importante lavorare su un clima di fiducia reciproca, evitando scivolamenti di contesto: non siamo infatti nello studio di uno psicoterapeuta (ed è giusto evitare di tirare fuori argomenti particolarmente dolorosi, o di scavare eccessivamente con domande inopportune), ma nemmeno al bar, dove si può parlare di qualunque cosa ci passi per la testa (e che è un aspetto da tenere in considerazione quando si usano delle modalità comunicative non formali).
Il secondo laboratorio è stato arricchito, rispetto al primo, con dei testi scelti ad hoc tra le testimonianze di persone e donne migranti (tratti dalla collana I mappamondi,...