Deve tornare la politica
L’alta finanza, e in particolare quella finanza che tiene insieme il potere sovrano e il monopolio della stampa di moneta – ossia le banche centrali –, è oggi il potere sovrano poliarchico sempre più democraticamente dimidiato e tecnocraticamente espanso che svuota di ogni potere compulsivo la divisione dei poteri e il ruolo dei parlamenti.
La leggenda del debito e del suo obbligo lascia poco spazio a coloro che si illudono che il tardo capitalismo iperfinanziarizzato possa ancora donare spazio alla volontà dei popoli (se mai i popoli siano mai stati in grado nella storia di esercitarla, tale volontà...).
In merito alle menzogne profuse dall’accademia e dai mass media sul debito pubblico, non possono non venire alla mente le parole di quello che forse è stato il più acuto economista del Novecento dopo Keynes, Michał Kalecki, che, nel Suo Aspetti politici del pieno impiego (scritto in piena Seconda guerra mondiale nel 1943 e poi ripreso nel 1970 poco prima di morire) così diceva:
Il problema di garantire il pieno impiego tramite l’espansione della spesa pubblica, finanziata col debito pubblico, è stato largamente discusso negli ultimi anni.
Tale discussione si è tuttavia concentrata sul lato puramente economico di tale problema, senza la dovuta considerazione dei suoi aspetti politici. La premessa che il governo di uno Stato capitalistico manterrà il pieno impiego, se soltanto saprà come farlo, non è assolutamente ovvia. L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale.
Tale attitudine si è manifestata chiaramente all’epoca della grande crisi economica degli anni Trenta, quando i capitalisti hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale posizione. È chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono.
D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui profitti in quanto appunto non richiede l’istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i capitani d’industria si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia la ripresa artificiale che lo Stato offre loro? È di tale difficile problema, di non comune interesse, che noi vogliamo occuparci in questo articolo. L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancor più acuta allorché si cominciano a considerare i fini per cui tali spese possono venir destinate, e cioè gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa.
Il fine cui mira l’intervento statale richiede che gli investimenti pubblici si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato produttivo del capitale privato (ad esempio ospedali, scuole, strade ecc.), in caso contrario infatti l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti interamente di loro gusto, ma l’ambito degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo, agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare l’ambito del suo intervento.
Ci si può quindi attendere che i capitani d’industria e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di prima necessità ecc.), piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’attività imprenditoriale. In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: la sovvenzione dei consumi di massa incontra un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici.
Ci imbattiamo qui infatti in un principio morale della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che ‘ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte’ (a meno che tu non viva dei redditi del capitale).
L’economia occidentale continua a essere minacciata dalle insane decisioni assunte da un pugno di economisti neo-liberisti che hanno giustificato con infermi papers la grande reazione delle corporation e delle banche d’affari e centrali negli anni Ottanta e Novanta del Novecento contro ogni forma di regolazione dei mercati finanziari e di continuazione del processo di industrializzazione. E oggi continuano, nel pieno dell’avvento della stagnazione secolare via deflazione, come dimostra la crisi cinese.
La crescita impetuosa che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra in tutto il mondo non soddisfaceva più gli appetiti voraci dei manager internazionali pagati in base al valore di azioni manipolabili a piacimento invece che con un salario sì elevato, ma che sanciva pur sempre quella divisione benefica tra proprietà e controllo che era stata alla base della grande crescita del secondo dopoguerra. Iniziava, invece, la grande dissipazione finanziaria ad alto rischio, ad altissimo indebitamento speculativo, sradicamento occidentale della grande industria manifatturiera, creazione delle isole finanziarie in cui lo Stato imprenditore – la creazione più possente e benefica del Novecento – veniva artatamente assalito da ogni dove, creando leggende e inventando generalizzazioni indebite (quella che la corruzione si annidi più nel pubblico che nel privato prima di tutto, per giustificare insane privatizzazioni catastrofiche).
Ora siamo giunti all’ora della verità. Lo Stato imprenditore è stato dichiarato morto, ma in effetti in ogni dove nel mondo esso risorge se si vuole mantenere o porre mano alla crescita in presenza di diritti di proprietà assenteisti, ossia che non sanno o non vogliono esercitare un ruolo di guida sugli asset produttivi, innovativi, strategici. L’Italia è un caso da manuale.
La politica economica si deve fare con la mossa doppia del cavallo. Un buon ambiente giuridico, fiscale, di trasparenza, da un lato. Un intervento della mano pubblica laddove quella privata non giunge e non può più giungere per limitatezza di mezzi e di pulsioni e di ambizioni, dall’altro, se si ritiene necessario per la nazione che di alcune opere e di alcuni investimenti si abbia necessità. C’è solo l’imbarazzo della scelta: a cominciare dalla difesa, anche offensiva, dei nostri confini, in un mare che si farà sempre meno sicuro; a cominciare dalle reti materiali e immateriali dove il privato va integrato con lo Stato per conseguire un allineamento tecnologico e strategico sempre più impellente dinanzi ai pericoli di una tensione internazionale crescente.
Ma rimane il problema di fondo, ossia che solo rimettendo il debito a livello g...