Barack Obama
Il ruolo dell’America nel mondo
Riproduciamo di seguito la traduzione e l’adattamento, a cura di Ilaria Amurri, dell’articolo di Jeffrey Goldberg, pubblicato su “The Atlantic” con il titolo The Obama Doctrine. L’articolo le raccoglie le conversazioni sul ruolo dell’America nel mondo e sulla politica estera americana avvenute tra il giornalista e il presidente Barack Obama.
La fine di agosto 2013 a Washington
Venerdì 30 agosto 2013, il giorno in cui l’incauto Barack Obama decise di porre fine prematuramente al predominio dell’America come unica superpotenza mondiale realmente indispensabile, o il giorno in cui fu così intelligente da guardare nell’abisso mediorientale per poi ritrarsi da un baratro che lo avrebbe consumato, cominciò con un discorso tonante del segretario di Stato John Kerry, che a Washington D.C. parlò in vece del Presidente. L’oggetto delle parole, insolitamente churchilliane di Kerry, pronunciate nella Treaty Room del dipartimento di Stato americano, fu la strage di civili siriani uccisi con il gas per ordine del Presidente della Siria, Bashar al-Assad.
Obama, nel cui governo Kerry milita fedelmente, seppure con un certo sforzo, è anch’egli un oratore eloquente, anche se il suo stile non è marziale quanto quello di Churchill. Anzi, è convinto che la retorica manichea e bellicosa comunemente associate a Churchill potesse essere giustificata dall’ascesa di Hitler e che fosse in parte sostenibile nella lotta contro l’Unione Sovietica, ma crede anche che le parole non dovrebbero essere armi, se non sporadicamente, in un contesto internazionale oggi ancora più ambiguo e complesso. Obama pensa che la retorica e soprattutto il pensiero churchilliano abbiano condotto il suo predecessore, George W. Bush, a una guerra rovinosa in Iraq, infatti era entrato alla Casa Bianca determinato a tirarsi fuori dall’Iraq e dall’Afghanistan, di certo non era in cerca di altri mulini a vento contro cui lottare ed è sempre stato particolarmente cauto nel promettere la vittoria in conflitti insostenibili. “Se il Presidente dicesse, ad esempio, che libereremo l’Afghanistan dai talebani e che costruiremo una democrazia prospera, saprebbe perfettamente che tra sette anni qualcuno pretenderà che lui mantenga quella promessa”, mi ha detto non molto tempo fa il vice consigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes, assistente di Obama in materia di politica estera.
Quel giorno di agosto, però, il discorso concitato di Kerry, che riportava in parte il pensiero di Rhodes, era intriso di rabbia legittima e di promesse ardite e celava a malapena la minaccia di un attacco imminente. Kerry, così come Obama, era esterrefatto dai crimini commessi dal regime siriano quando nove giorni prima, a Ghouta, nella periferia di Damasco, l’esercito di Assad aveva ucciso più di 1.400 civili con il gas sarin, nel tentativo di soffocare una ribellione che durava da ormai due anni. La convinzione dominante all’interno dell’amministrazione Obama era che Assad si fosse meritato una dura punizione. Durante le riunioni nella Situation Room, dopo l’attacco di Ghouta, solo il capo di gabinetto della Casa Bianca, Denis McDonough, parlò esplicitamente dei rischi dell’intervento, mentre John Kerry si prodigò strenuamente in favore dell’azione.
Nel corso della storia, quando il cielo si è oscurato – disse Kerry – e noi abbiamo avuto il potere di fermare crimini indicibili, ci siamo guardati dalla tentazione di ignorarli. Sono stati molti i capi di Stato che si sono opposti all’inazione, all’indifferenza e soprattutto al silenzio, nei momenti più importanti.
Secondo Kerry il Presidente Obama è stato uno di questi leader. Un anno prima, quando l’amministrazione sospettava che Assad stesse prendendo in considerazione la possibilità di ricorrere alle armi chimiche, Obama aveva dichiarato:
Siamo stati molto chiari nei confronti del regime [...] Questo è il nostro ultimatum, non vogliamo vedere in giro armi chimiche. Questo cambierebbe tutto, ci costringerebbe a cambiare programma.
Nonostante la minaccia di Assad, a molti oppositori sembrava che Obama fosse freddamente distaccato rispetto alle sofferenze degli innocenti siriani. Alla fine del 2011 aveva intimato al dittatore di ritirarsi: “Per il bene del popolo siriano”, aveva detto, “è giunto il momento che il Presidente Assad si faccia da parte”, ma all’inizio fece ben poco per porre fine al regime.
In parte, il Presidente resistette alle pressioni interventiste perché presupponeva, in base alle analisi dei servizi segreti americani, che Assad sarebbe caduto senza il suo sostegno. “Era convinto che avrebbe fatto la fine di Mubarak”, dice Dennis Ross, ex consulente di Obama per il Medio Oriente, riferendosi alla rapida dipartita del Presidente egiziano Hosni Mubarak all’inizio del 2011, un evento che rappresentò il culmine della Primavera araba. Tuttavia, man mano che Assad si aggrappava al potere, la riluttanza di Obama all’intervento diretto non fece che aumentare. Dopo aver riflettuto per diversi mesi, autorizzò la cia ad addestrare e a finanziare i ribelli siriani, pur condividendo la prospettiva del suo ex segretario della difesa, Robert Gates, il quale aveva fatto notare ripetutamente “non dovremmo concludere le due guerre che abbiamo iniziato prima di cominciarne un’altra?”.
Intervenire o non-interv...